Pensare teologicamente l’accoglienza a partire dall’esperienza dell’incontro, nello sforzo comune di costruzione di una cittadinanza inclusiva
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:12:09
Questo articolo è l'introduzione a Una grande realtà umana
Scomodo per i progressisti, che pure a lui devono molto, scomodo per l’establishment, Jean Daniélou, gesuita francese, è stato senza dubbio uno dei maggiori teologi del ’900 e tra i padri del Vaticano II. Classe 1905, è creato cardinale da Paolo VI nel 1969, ma sarà condannato all’ostracismo per tanti anni, fin dalla sua morte per infarto, un pomeriggio del maggio 1974, nella casa parigina di una prostituta. Più tardi, i gesuiti stessi accerteranno che era andato a portarle dei soldi per pagare un avvocato capace di tirar fuori di prigione il marito: fu l’ultima delle sue opere di carità compiute in segreto, per persone disprezzate e bisognose d’aiuto e perdono.
La sua buona fede fu avvolta però in un silenzio che non fugò i sospetti e questo, probabilmente, per fargli scontare la colpa di posizioni teologiche non sempre apprezzate in seno alla sua stessa famiglia religiosa. L’accademico di Francia che aveva conosciuto e incontrato Sartre, Cocteau, Maritain, e che era stato compagno di gioventù di Mounier (con cui partirà per l’avventura di Esprit), allievo e compagno di studi di Teilhard de Chardin e De Lubac a Fourvière, amico di Muriac, Pierre Emmanuel, Julien Green, fu autore di alcuni scritti fondamentali, come il Saggio sul mistero della storia, II mistero della salvezza delle nazioni (Morcelliana, 1966), II segno del tempo (ultima rist. Cantagalli, 2011), In principio (Morcelliana, 1965) e quel primo volume della Nouvelle Histoire de l’Église scritto con un grande laico cristiano, Henri Irenée Marrou, Dalle origini a San Gregorio Magno (I-VI secolo) (Marietti, 1976). Padre Tilliette, nella prefazione ai Carnets del cardinal Daniélou, scrive:
Deplorava la speculazione teologica, con il pomposo titolo di ricerca, e la pastorale sacramentale utopica, senza radici, senza la vera esperienza delle persone, delle anime, dei loro bisogni e della loro fame. Respingeva con tutta la forza una teologia di laboratorio.
Nel Saggio sul mistero della storia, del 1953, Daniélou tratteggia alcune linee della sua teologia della storia: dopo aver identificato caratteristiche fondamentali degli interventi di Dio, evidenzia le problematiche che ne scaturiscono e le risposte dell’uomo. L’autore è convinto che il dato fondamentale della fede dei cristiani non sia una teoria su Dio, ma un fatto storico: Dio si è incarnato, si è fatto uomo, è morto ed è risorto il terzo giorno. Per questa ragione, secondo Daniélou, la storia non può non interessare il cristiano. Essa comporta un ordine sacro e uno profano. La storia sacra ha come protagonista Dio, ma è anche storia di santi ed è oggetto di fede. La seconda è fatta dagli uomini che inseguono le loro ambizioni ma, tra essi, solo gli eroi sono oggetto di ricerca. Al teologo spetta il compito di discernere come questi due ordini storici si intreccino e si relazionino.
Il quarto capitolo di questo saggio s’intitola “Deportazione ed ospitalità” ed è caratterizzato da una riflessione sul significato teologico della ricerca umana di una patria, di una stabilità in questo mondo, peraltro perituro e transeunte. In questo paradosso Jean Daniélou coglie tutta l’ambiguità della patria: essa è condizione normale dell’esercizio della vita morale ma anche ostacolo, nella misura in cui ci si dimentica, appunto, della sua provvisorietà rispetto al vero destino di ogni essere umano. Paradosso analogico è quello che si crea là dove deportazioni forzate stradicano singoli e intere popolazioni dai loro habitat originari, atto inumano e contrario alle leggi di Dio che, tuttavia, può suscitare l’ospitalità grazie alla quale lo statuto dello straniero acquista una rilevanza unica, profana e sacra. Daniélou non esita ad affermare che «la civiltà ha compiuto un passo decisivo […] il giorno in cui lo straniero, da nemico è diventato ospite, cioè il giorno in cui la comunità umana è stata creata». Normalmente il fuggiasco, l’errante, lo straniero se lo si incontra lo si uccide, come già anticipava il libro della Genesi (4,15) e il capovolgimento avviene quando lo si accoglie come un inviato di Dio. Queste considerazioni, di un’attualità bruciante, colgono tutta la complessità del rischio dell’accoglienza, per altro già anticipata dalla semantica stessa dei termini. Infatti, sia l’hospes latino che lo xénos greco, sono sostantivi la cui radice è comune all’ospite così come al nemico.
L’obiettivo diventa, dunque, quello di pensare teologicamente l’accoglienza a partire dall’esperienza dell’incontro, nello sforzo comune di costruzione di una cittadinanza inclusiva. Un obiettivo raggiungibile solo se si arriva a prendere sul serio l’esistenza dell’altro nella sua “irriducibile” differenza e cioè nella sua consistenza propria e non semplicemente in riferimento a ciò che ha o non ha rispetto a noi. Ecco perché un vero scambio ospitale richiede un atto di responsabilità, realizzabile solo assumendo la nostra propria condizione umana, che la presenza “dell’altro da noi” mette in evidenza. L’ospitalità apre, allora, percorsi inediti di convergenza anche interreligiosa, rappresentando una sfida non solo economica o politica, e neppure solo un imperativo religioso, ma un’esigenza profondamente spirituale, in società complesse e dove la coabitazione è spesso difficile. Non a caso, ci ricorda ancora Daniélou, è stata eretta dalle fedi a criterio sul quale saremo giudicati l’ultimo giorno.
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