Normalmente, il fuggiasco, l’errante, lo straniero, se lo si incontra, lo si uccide. E il capovolgimento avviene il giorno in cui, al contrario, lo si accoglie come un ospite e come un inviato da Dio
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:13:09
Leggi l’introduzione a questo classico: Prendere sul serio l’esistenza dell’altro
L’ospitalità è prima di tutto una grande realtà umana. I Greci vi vedevano una delle caratteristiche principali del popolo civile; e si può dire, in un certo senso, che ciò che caratterizzava il grado di civiltà di un popolo o di una razza fosse la loro concezione dell’ospitalità. Si capirà quale conquista rappresenti l’ospitalità, se ci si rammenta questo fatto linguistico sorprendente e cioè come in molte lingue, la stessa radice serva a designare l’ospite e il nemico, ossia come alla base di queste due categorie, vi sia quella realtà ancora indifferenziata che è lo straniero.
Lo straniero, cioè colui che non appartiene alla razza, all’unità biologica o sociologica, può essere considerato in due maniere: come il nemico o come l’ospite. E si può dire che la civiltà ha compiuto un passo decisivo, e forse il suo passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico è diventato ospite, cioè il giorno in cui la comunità umana è stata creata. Fino ad allora, vi sono specie umane così come specie animali in guerra le une contro le altre nella foresta primigenia; ma il giorno in cui nello straniero si riconosce l’ospite e in lui lo straniero, invece di essere votato all’esecrazione, si trova rivestito per questo fatto di una dignità singolare, quel giorno si può dire che qualcosa è mutato nel mondo.
Non ho ancora citato le radici di cui ho detto, e adempio ora il mio impegno. In latino, la parola che significa ospite è hospes e quella che significa nemico è hostis. Sono due derivate da una stessa radice. D’altra parte, in tedesco l’hôtellerie (la foresteria, l’albergo) è il Gasthaus, dove gast rappresenta lo stesso radicale. Queste constatazioni sono interessanti giacché la linguistica porta in sé la storia della civiltà. In greco, la parola che significa straniero, xénos, è altrettanto suscettibile di assumere un senso peggiorativo come quando si parla di xenofobia, quanto di assumere un senso assolutamente positivo: lo xénos è l’ospite, e l’ospitalità in greco si dice filoxenìa, l’amore dell’ospite. Varrebbe la pena di fare ricerche in altri settori linguistici per vedere se vi si trovassero fenomeni analoghi.
La condizione primitiva dello straniero ci è descritta nel capitolo IV del Genesi. È il grido tragico di Caino alle soglie della storia umana: «Sarò errante e fuggiasco sulla terra, e chiunque mi incontrerà mi ucciderà»[1]. Normalmente, il fuggiasco, l’errante, lo straniero, se lo si incontra, lo si uccide. E il capovolgimento avviene il giorno in cui, al contrario, lo si accoglie come un ospite e come un inviato da Dio. Questo capovolgimento, lo possiamo constatare in particolare all’interno delle due grandi civiltà che sono all’origine della nostra: la civiltà greca e la civiltà semitica.
Il porcaro Eumeo
Nel mondo greco, prima di tutto è noto a quale grado venisse spinta la dignità dell’ospitalità. Essa risale molto addietro nella storia. Possiamo ricordarci, nei poemi omerici, le pagine ammirabili consacrate all’ospitalità, e in particolare l’episodio in cui Ulisse, reduce dalle sue peregrinazioni, sbarca nell’isola di Itaca, si presenta in casa sua, senza essere riconosciuto, come uno straniero, e viene accolto come un ospite dal porcaro Eumeo e da Penelope. Tale passo ci fa intravvedere già il carattere misterioso dell’ospite che è qualcosa di più di ciò che non appaia. Quell’ospite è uno sconosciuto, di cui si scoprirà un giorno chi è. E quel giorno allora, come ci si rallegrerà di averlo accolto.
Altrove, in un testo centrale per la civiltà greca, nelle Leggi di Platone, troviamo un paragrafo sullo statuto dell’ospite nella città ellenica. Dopo aver parlato dei doveri verso i concittadini, Platone affronta quelli che concernono gli stranieri:
Consideriamo questa volta i nostri doveri verso l’ospite straniero. Bisogna convincerci che sono gli impegni più santi; ogni mancanza commessa verso di lui è in confronto di ciò che riguarda i diritti di un concittadino, una mancanza più grave verso una divinità vendicatrice. Lo straniero, in realtà, essendo isolato dai suoi amici e dai suoi prossimi, è l’oggetto per gli uomini e per gli dei di un più grande amore. Così quante precauzioni bisogna prendere, per poca prudenza che si abbia, per percorrere fino alla fine la propria strada, senza commettere nella vita colpa alcuna nei confronti degli stranieri[2].
Quando leggiamo testi di questa qualità ci rendiamo conto di ciò che i Greci chiamavano amore dell’ospite, e di come si tratti del rispetto dell’uomo, chiunque sia. E comprendiamo che cosa sia la civiltà: essenzialmente un ordine di cose in cui l’uomo è rispettato e amato, e in cui è tanto più amato quanto più è debole, isolato, infelice. E al contrario, ogni ordine di cose in cui il debole, lo straniero è disprezzato, respinto, soppresso, non è una vera civiltà, quand’anche vi si trovassero tutte le raffinatezze della tecnica più avanzata. Bisogna una buona volta far consistere la civiltà in ciò che essa è, bisogna considerarla come un certo livello d’umanità. Ora l’accoglienza dell’ospite rappresenta uno dei criteri più tradizionali e più sicuri per definire ciò che è l’umanità.
Tutto questo, che troviamo nel mondo greco, si incontra anche nel mondo semita, e più particolarmente nel mondo arabo. È un fatto noto, come l’ospitalità vi rappresenti un costume ancestrale e tra i più santi. Oggi ancora, il beduino del deserto pratica l’ospitalità come lo facevano i suoi lontani antenati del secondo e terzo millennio prima di Cristo. […]
La lavanda dei piedi
Ed ecco ora al contrario il racconto dell’ospitalità. Come non riferire, dopo aver sfogliato le pagine dell’Odissea, un passaggio che vi fa come da riscontro nella Scrittura: l’ospitalità di Abramo, presso le querce di Mambré.
Jahvé gli apparve presso le querce di Mambré, mentre egli si trovava seduto all’ingresso della tenda durante il calore diurno; egli alzò gli occhi e guardò, ed ecco che tre uomini stavano in piedi davanti a lui. Non appena li vide, egli corse dalla soglia della tenda incontro a loro, e prosternatosi a terra: Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre. Permettete che vi faccia portare un po’ d’acqua per lavarvi i piedi, riposatevi sotto quest’albero, io vado a prendere un pezzo di pane, vi ristorerete e poi continuerete il vostro cammino. (Gen 18,3)
Vediamo in seguito Abramo ritornare nella tenda da Sara, versare tre misure di farina, correre alla mandria, prendere un vitello, darlo ai servitori e affrettarsi a imbandirlo. Dopo di ciò, egli si teneva davanti ad essi «in piedi sotto l’albero ed essi mangiavano».
Abramo si prosterna davanti ai suoi ospiti, lava loro i piedi, e dà loro il pane e il latte. Ritroviamo qui i gesti eterni dell’ospitalità. Così la lavanda dei piedi appare nella Chiesa come il primo servigio che si renda a un ospite. È il rito che si è conservato nella liturgia del Giovedì Santo. Allo stesso modo, nell’antico rituale del Battesimo, pare assodato che tutto quanto faceva seguito al Battesimo stesso fosse un insieme di riti di ospitalità: a quel punto, si lavavano i piedi del nuovo battezzato, gli si ungeva la testa d’olio, e gli si offriva il latte e il miele. L’unzione, mediante la quale si ristora il viso affaticato dal sole, è con l’acqua per i piedi e con il cibo spartito uno dei sacramenti dell’ospitalità. Di tali gesti elementari che troviamo già alle origini della civiltà, la liturgia farà i segni di quella forma sovrana di ospitalità che è l’accoglienza nella Chiesa da parte dell’ospite divino.
Ma il cristianesimo, elevandoli alla dignità dell’ordine sacramentale, non soltanto consacra i riti antichi, esso continua e porta alla perfezione la virtù d’ospitalità. Se studiamo il cristianesimo primitivo, vediamo che l’ospitalità vi tiene un posto considerevole e che essa appare come una delle virtù essenziali del cristianesimo. Così, come poco fa dicevamo che la carenza di ospitalità nel mondo del nostro tempo mostra che esso non è, malgrado le apparenze, un mondo civile, allo stesso modo la carenza di ospitalità presso i cristiani di oggi mostra il carattere superficiale del loro cristianesimo. Questa ospitalità nel cristianesimo antico non è soltanto privata. Essa è uno degli aspetti della vita ufficiale della Chiesa, presieduta dalla gerarchia. L’ospitalità è una delle virtù che si richiedono a un vescovo, cioè al capo della comunità. San Paolo scrive già nella Prima a Timoteo: «Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, sposato una volta sola, sobrio, prudente, decoroso, ospitale»[3]. E nel secondo secolo, un autore popolare di Roma, Hermas, scrive in una descrizione simbolica della Chiesa, a proposito di alberi proteggenti delle pecore: «Sono i vescovi e gli uomini ospitali che hanno sempre mostrato una gioiosa e franca ospitalità nell’accogliere sotto il loro tetto i servitori di Dio»[4]. Che il cristiano straniero il quale arriva in una parrocchia o in un episcopio (i vescovi erano pressappoco ciò che sono i nostri parroci, e neppure i parroci delle grandi parrocchie di Parigi, che sarebbero stati degli arcivescovi) trovasse l’ospitalità organizzata, bisogna dunque dire fosse uno dei caratteri della Chiesa primitiva. Egli non aveva che da presentarsi all’episcopio e lo si riceveva «gioiosamente e schiettamente». È importante rilevare il carattere istituzionale dell’ospitalità nel cristianesimo antico. Essa veniva offerta dall’intera comunità sotto la presidenza del suo capo. Nel mondo moderno, ci si è scaricati dell’ospitalità sugli “ospizi” o “ospedali”, hôtelleries, hôtels-Dieu, che in realtà sono diventati molto semplicemente alberghi, cioè luoghi dove si paga per essere accolti, e che altro più non sono in sostanza se non imprese commerciali. Si può misurare dalla degradazione del termine “hôtel” (non bisogna dimenticare che hôtel viene da ospite [hospes]) la degradazione dell’ospitalità. […]
La regola di San Benedetto
Ma v’è un altro aspetto. Ospitalità significa, effettivamente, ricevere, ma anche dare. L’ospitalità nel cristianesimo suppone uno scambio e tende alla comunione: essa è uno sforzo per aprire ciò che è chiuso, allargare ciò che è stretto, ristabilire la comunicazione fra gli uomini in modo che la vita del Cristo possa attraverso di essa circolare. Non assolveremo dunque la pienezza del nostro dovere se ci accontentassimo di ricevere lo straniero che viene a noi. Dobbiamo essere talvolta anche lo straniero che va presso gli altri. In questo senso esiste una relazione tra l’ospitalità e la missione. Nel cristianesimo primitivo, il missionario, sciolto da ogni impegno per votarsi all’evangelizzazione, viveva essenzialmente dell’ospitalità di coloro che egli visitava e ai quali comunicava il messaggio di cui era incaricato. «In qualunque casa entriate, dite prima di tutto: Pace a questa casa. Fate dimora in questa casa, mangiando e bevendo ciò che avranno. E dite loro: il Regno di Dio è vicino a voi». (Lc 10,5.9). Queste parole proiettano una luce decisiva sul mistero dell’ospitalità. Ne presentiamo già qualche barlume nella civiltà pagana. Abbiamo visto come lo straniero che sbarca sulle rive d’Itaca sia ben altro da ciò che appare. Abbiamo visto come gli ospiti che Abramo riceve non siano nientemeno che angeli. E l’Epistola agli Ebrei dirà, insegnando l’ospitalità ai primi cristiani: «Non dimenticate l’ospitalità. Qualcuno, praticandola, ha, a sua insaputa, alloggiato degli angeli» (13,2). È un’allusione ad Abramo. Lo straniero, l’ospite può sempre darsi che sia un angelo. Vi è sempre un mistero in lui. Non si sa mai chi egli sia: o piuttosto, quanto a noi cristiani, sappiamo ormai chi egli è: giacché Gesù Cristo l’ha detto. L’ospite è Gesù Cristo. Gesù Cristo si è esplicitamente identificato con l’ospite. Nel discorso escatologico, ricordando agli uomini ciò su cui saranno giudicati, egli pronuncia questa parola: «Ero straniero e voi mi avete accolto». Ed essi allora diranno: «Ma quando eravate voi straniero e noi vi abbiamo accolto straniero?». E il Cristo risponde: «Ogni volta che l’avete fatto a uno di questi piccoli, cioè a uno dei miei fratelli, l’avete fatto a me»[5]. […]
Ecco dove tocchiamo il misterioso capovolgimento di prospettiva. Effettivamente, nell’ospitalità il più fortunato non è lo straniero che arriva, ma colui che lo accoglie. Accogliere un ospite è un favore, una grazia. A Benares, per una famiglia è un onore ricevere uno di quei mendicanti volontari, studenti o vegliardi, che vivono solo di ospitalità. E quando, sul mezzogiorno, essi giungono a chiedere un poco di riso, vengono accolti con i maggiori riguardi. Così, a fortiori dev’essere per il cristiano. Così appunto nella regola di San Benedetto che ha conservato fedelmente le tradizioni del cristianesimo primitivo, e che è forse il testo tramite il quale meglio comunichiamo con la tradizione antica dell’ospitalità, è espressamente prescritto di ricevere l’ospite come il Signore; e chi di noi ha per caso picchiato un giorno alla porta di una abbazia benedettina anche senza essere atteso, avrà provato che cosa sia la vera ospitalità in un autentico ospizio.
Ma se Gesù è l’ospite che noi riceviamo oggi, non bisogna dimenticare ch’egli è colui che riceverà noi, un giorno. Oggi viene nel mondo come uno straniero; viene tra gli uomini e gli uomini non lo ricevono. Ma un giorno saremo noi stranieri in un altro mondo; saremo noi a dover inoltrarci oltre il capo della morte, in regioni misteriose dove non avremo vicino né amici, né sposa, né fratello, né madre ad assisterci e dove sentiremo terribilmente che cosa significhi essere stranieri. Come batterà il nostro cuore quando sentiremo una voce famigliare dirci: «Venite benedetti dal Padre mio, perché io ero straniero e voi mi avete accolto». E noi diremo: Signore, quando eravate straniero voi? E quando vi abbiamo accolto? Risponderà: «Quel che avete fatto ad ognuno di questi piccoli voi l’avete fatto a me». Se vogliamo che un giorno il vero Ospite, l’ospite della vera dimora, ci accolga quando andremo a battere alla sua porta, egli stesso ci ha detto che cosa dobbiamo fare per questo. Ci ha detto che dobbiamo saper aprire, in questa vita, la nostra porta all’ospite che viene da noi. Possiamo misurare da questo quale sia la dignità dell’ospitalità, se essa ha potuto essere eretta da Gesù a criterio sul quale saremo giudicati nell’ultimo giorno, la chiave del paradiso perduto.
[Tratto da: Jean Daniélou, Saggio sul mistero della storia, Morcelliana, Brescia 2012, terza edizione ampliata (ed. or. 1953), pp. 74-82. Le traduzioni bibliche sono state lasciate nella forma originale, mentre le sigle sono state adattate all’uso attuale]
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Gen 4,15.
[2] Leg. 729d-730a.
[3] 1Tim 3,2.
[4] Hermas, Il Pastore, Sim., 9,27,2.
[5] Mt 25,36-40.