Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:38:55
«Sa qual è la vera bomba che sta per far saltare in aria la polveriera del Medio Oriente? I profughi siriani». Ne è convinto, e molto preoccupato, Pascal Monin, professore dell’Università Saint Joseph di Beirut: il numero dei rifugiati siriani - mai raggiunto prima - sta minando gli equilibri già precari dei Paesi che li accolgono: il Libano, la Giordania, l’Iraq, la Turchia. Di solito gli articoli sui profughi cominciano con il volto di un bambino piccolo, in braccio alla sorellina di poco più grande, che lo porta appoggiato su un fianco, per cercare di alleviarne il peso. Un’istantanea che trafigge anche i cuori di pietra, perché mostra nel modo più immediato che è l’innocenza la prima vittima delle guerre. Questo il paradosso: vedere in quei volti ingenui e bisognosi di tutto una minaccia, una bomba innescata. Eppure i numeri parlano chiaro: sono oltre 2 milioni i siriani fuggiti dal loro Paese, dei quali 1 milione solo negli ultimi sei mesi circa. Per metà si tratta di bambini. E se il trend attuale dovesse continuare, a fine 2013 si potrebbe arrivare a sfondare il tetto di 3 milioni. Ora circa 700.000 sono in Libano, oltre 500.000 in Giordania, 470.000 circa in Turchia e 200.000 in Iraq, secondo i dati ufficiali dell’UNHCR; ma a questi vanno aggiunte altre decine di migliaia di persone che, per ignoranza, difficoltà di varia natura o per scelta, non si sono mai registrate.
Se in termini assoluti questi numeri risultassero ancora inafferrabili, letti con un termine di paragone sanno esprimere senza ombre tutta la drammaticità della situazione attuale: i profughi siriani fuori dal loro Paese sono un decimo di tutta la popolazione siriana; in Libano sono 1 milione sui 4 della popolazione complessiva. È come se in Italia ci fossero 15 milioni di profughi sui 60 della popolazione. Se si pensa con quanta fatica e tensione viene affrontata in tutta Europa la questione dei disperati che sbarcano a Lampedusa, e si parla di poche migliaia, si comprende perché Marco Perini, responsabile di Avsi in Libano, definisca l’attuale capacità di accoglienza libanese un “miracolo”. Tanto più che i siriani, fino pochi anni fa, erano gli “occupanti” nel Paese dei Cedri.
In Giordania il campo profughi allestito a Za’tari, nel Nord, vicino a Mafraq, a 30 km dal confine con la Siria, con i suoi 130.000 ospiti costituisce oggi la quarta città più popolosa di tutta la Giordania. E la presenza dei profughi ha aumentato in tutto la popolazione giordana del 10 %. Sono una bomba sociale, economica, politica. Dal punto di vista sociale e sanitario hanno bisogno di ogni tipo di aiuto: riparo, acqua, cibo, vestiti, cure mediche, educazione scolastica … Chi riesce a sostenere tutto questo per un tempo indefinito? Sono ormai due anni che la guerra siriana continua. Solo il World Food Program necessita di 30 milioni di dollari alla settimana per nutrire i rifugiati siriani all’estero e quelli rimasti displaced in patria (pare si tratti di 4.25 milioni di persone).
Dal punto di vista politico il tema rifugiati in Libano è rimasto incastrato, e irrisolto, nel gioco degli schieramenti contrapposti e veti incrociati che tengono il Paese bloccato. Così, anche se il governo libanese non ha mai approvato ufficialmente l’allestimento di campi profughi, questi sono sorti in almeno 1400 località diverse, soprattutto nell’area settentrionale e nella regione della Bekaa e sono oggi sostenuti dalle organizzazioni umanitarie di tutto il mondo. Organizzati, ufficiali o meno, comunque nei campi “la vita è un inferno”, come commenta Perini descrivendo il piccolo campo di Marj El Khokh, nel sud del Libano, scoperto per caso. Un inferno per il centinaio di famiglie che vive là, su un terreno sassoso, dove la tensione tra individui e gruppi è costante e la violenza un fatto ordinario. Si creano gruppi contrapposti, i bambini stessi tra di loro vengono sistematicamente alle mani. Riproducendo quella violenza che è praticata in famiglia, dal padre sulla madre, tra vicini di tenda, con tentativi di stupro e diffusa induzione alla prostituzione.
A Za’tari l’inferno ha la forma di un villaggio militarizzato. Soldati giordani appostati con un blindato controllano tutto il giorno, nel caldo di un deserto desolato, chi entra e chi esce dall’ingresso, una sorta di colonnato tirato su per indicare con certo stile l’accesso principale. Qui stanno accucciati bambini di otto, dieci anni, con delle carriole, pronti a vendere per una lira giordana il loro servizio di trasporto merci a chi arriva con valigie e sporte cariche di pane o altri beni. Ogni movimento è controllato: a chiunque si avvicini all’ingresso i soldati chiedono di mostrare il permesso del campo, un foglio sgualcito che si tiene in tasca come documento di riconoscimento. Il filo spinato degli accessi e la divisa dei soldati che ne presidiano ampi settori si dimenticano per un momento lungo una delle vie principali che attraversano il campo, la via dei “negozi”: sono 3000 nel campo, piccole bancarelle di alimentari, tabacchi, bibite, vestiario. C’è anche qualche insegna ambiziosa con scritto “ristorante”, che quasi potrebbe ricordare quelle dei mercati di un pacifico villaggio. Un tentativo di vita normale si ripete nei 3 ospedali e nelle scuole, quattro diverse che accolgono in tutto circa 20.000 ragazzi.
Il campo di Za’tari costa all’UNHCR 500.000 dollari al giorno, è diviso in una dozzina di distretti. Pare sia il secondo campo profughi più grande del mondo, vi arrivano ogni giorno 200 tank carichi di acqua (ne vengono consumati 4.000.000 di litri al giorno), mentre si producono 1300 metri cubi di immondizia. La vicina cittadina è stata trasformata nel giro di 24 mesi nel suo DNA: prima dell’arrivo dei profughi, contava circa 80.000 abitanti; oggi a questi si sono aggiunte le 130.000 persone che vivono nel campo di tende e le 95.0000 che si sono installate in vario modo nella città stessa, affittando case (anche decine di famiglie nello stesso appartamento) o trovando varia ospitalità. È talmente vicino alla Siria che da qui si può sentire il rumore della guerra. I botti delle armi e la propaganda della radio siriana, sulle cui onde ci si sintonizza facilmente: “Anche se muore un milione di persone, il nostro cuore resta di acciaio – canta la radio – Se dovessi cadere martire, non è un problema”. E di “martiri” continuano ad essercene. Qui vengono i “ribelli” a reclutare nuove braccia alla loro causa e trovano terreno fertile per la loro propaganda: perché – si chiedono in molti – gli Stati Uniti sono intervenuti in Libia e non in Siria?
Nei giorni scorsi si sono incontrati i ministri degli esteri di Libano, Giordania, Iraq e Turchia per affrontare la questione profughi e hanno lanciato un allarme forte: se non si fermano le armi in Siria, l’impatto del conflitto sui Paesi vicini sarà insostenibile. C’è bisogno di una radicale mobilitazione della comunità internazionale. Questo soggetto tanto evocato quanto indefinibile. Perché, come si misura con una semplice occhiata a Marj El Khokh e ancor più a Za’tari, non accadrà che appena le armi cesseranno di sparare, i campi si dissolveranno miracolosamente e tutti rientreranno a casa. Guardando alla distesa chilometrica delle bianche tende nel nord della Giordania, si comprende che questa è una bomba che richiederà tempi lunghi e una cura particolare prima di essere disinnescata. Difficile immaginare che quel tratto di deserto possa tornare presto libero dagli insediamenti e spazzato solo dal vento.