L’esilio di milioni di siriani ha portato alla creazione di insediamenti temporanei in tutto il Medio Oriente

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Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 11:37:33

L’esilio di milioni di siriani ha portato alla creazione di insediamenti temporanei in Medio Oriente, ufficiali e non ufficiali, soprattutto in Turchia, Libano, Giordania. Sono luoghi di transito, che con il passare del tempo diventano vere e proprie città. Al loro interno si ricreano dinamiche di quartiere e villaggio, assieme a forme di commercio e scambio, che aiutano a tenere viva l’identità di un popolo.

 

Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR), il conflitto siriano ha provocato oltre cinque milioni di profughi. Si tratta di una delle più gravi crisi umanitarie in Medio Oriente dalla seconda guerra mondiale, che supera, in termini numerici, l’ultimo conflitto in Iraq dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Dal 2015 i profughi si dirigono sempre più verso luoghi più lontani, come l’Europa. Ciononostante il Medio Oriente continua a essere la regione in cui si concentra il maggior numero di profughi. Considerato che il conflitto si sta protraendo indefinitamente, per gli Stati limitrofi alla Siria si pone la questione dell’insediamento dei rifugiati nei rispettivi Paesi di accoglienza. Dopo le principali ondate di profughi palestinesi nel 1948 e nel 1967 e salvo qualche rara eccezione[1], la creazione di nuovi campi profughi è sempre stata rifiutata dagli Stati della regione. Malgrado ciò la Giordania e la Turchia hanno messo in discussione questa politica e nuovi campi sono stati aperti ai confini con la Siria.

 

Al di là delle cifre e dei dibattiti che queste possono suscitare nei Paesi di accoglienza[2], occorre considerare il significato di questo esodo, la cui entità e il cui prolungarsi nel tempo hanno riconfigurato profondamente la società siriana. L’esilio non riguarda solo alcune categorie della popolazione, come gli oppositori attivi del regime di Bashar al-Assad, ma coinvolge interi settori della società siriana, costretti a partire dalle distruzioni di massa e dall’insicurezza prolungata. La moltiplicazione degli attori del conflitto provoca una crescente frammentazione del territorio siriano, mentre la violenza si è talmente generalizzata che trovare rifugio all’interno della Siria, come gran parte dei profughi tenta inizialmente di fare, diventa sempre più complesso. Il numero degli sfollati interni, che si concentrano nelle zone più sicure, continua a crescere, rendendo sempre più difficile l’accesso all’alloggio e ai servizi primari in molte città siriane. Lasciare la Siria per cercare asilo diventa allora l’unica opzione possibile. Il protrarsi del conflitto spinge i profughi a cercare spazi di insediamento più durevoli in cui possano tentare di ricostruire una vita più stabile.

 

Dai campi palestinesi ai campi siriani?

 

La mancata risoluzione della questione palestinese, con il corollario della permanenza dei campi creati nei primi anni ’50 e poi nel 1967, condiziona fortemente il modo in cui sono trattati i nuovi flussi di profughi in Medio Oriente. È questa la ragione per cui, ad esempio, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003, i principali Paesi ospitanti della regione non hanno aperto campi profughi sul proprio territorio. Il campo consente infatti la gestione operativa di una crisi umanitaria e facilita il controllo dei profughi, ma pone anche diversi problemi. Si possono ad esempio creare sacche di povertà parzialmente scollegate dal contesto socio-economico del Paese ospitante. Inoltre, nel lungo periodo gli ostacoli alla mobilità dei profughi accrescono la dipendenza dalle organizzazioni umanitarie, ciò che può favorire lo sviluppo di forme di segregazione delle popolazioni rifugiate nella loro società ospitante, creando forme di stigmatizzazione.

 

La riluttanza delle autorità dei Paesi ospitanti ad aprire campi profughi dipende poi in parte dal timore che i profughi s’insedino in maniera permanente sul loro territorio, come è avvenuto con i rifugiati palestinesi. A contrario, le crisi irachene del 1990-1991 e post-2003 hanno mostrato per la Giordania, la Siria e il Libano che l’assenza di campi, forme poco restrittive di ingresso e soggiorno all’inizio delle crisi (anche se questo va relativizzato secondo i Paesi e i periodi interessati) e un facile accesso ai servizi pubblici e all’impiego nel mercato informale hanno aumentato la possibilità di mobilità dei profughi e dunque la loro re-emigrazione verso Paesi terzi[3].

 

Tuttavia la decisione di non aprire campi profughi dipende tanto dalle politiche degli Stati quanto dalle logiche seguite dagli attori stessi. I profughi iracheni, così come altri gruppi di profughi in Medio Oriente, si sono concentrati in contesti urbani, il più delle volte ai margini delle periferie delle città. Il campo di Azraq, in Giordania, costruito per accogliere fino a 130mila persone quando il numero di profughi era molto elevato, oggi è pressoché vuoto. Nell’agosto 2016, l’UNHCR vi ha registrato la presenza di 55mila profughi, ovvero la metà della capacità di accoglienza del campo. La maggior parte dei profughi siriani, quando può, s’insedia in un contesto urbano, dove le possibilità di trovare un lavoro sono maggiori e dove ricostruire una vita “normale” è più semplice.

 

Il Libano, segnato da una storia conflittuale e un rapporto difficile con i profughi palestinesi, ha rifiutato fino a oggi l’apertura ufficiale di campi per i siriani sul suo territorio. Il timore di creare spazi “siriani” sul suolo libanese, dove potrebbero svilupparsi movimenti politici e/o armati, resta forte nella classe politica libanese, a sua volta molto divisa sul conflitto siriano. A differenza del Libano, che accoglie un maggior numero di profughi, la Giordania ha aperto campi nel Nord del Paese per incanalare i flussi in arrivo. Anche la Turchia ha istituito campi lungo il confine con la Siria. A livello regionale, comunque, meno di un quinto dei profughi vive nei campi. Se i tre principali campi d’insediamento dei profughi siriani in Giordania raccolgono soltanto il 20 per cento del totale dei siriani, la maggior parte dei profughi è passata per campi di transito situati al confine con la Siria. Questi ultimi sono stati creati parallelamente alla chiusura graduale del confine occidentale tra la Siria e la Giordania e consentono alle autorità giordane di effettuare i controlli per la sicurezza prima di lasciar entrare i profughi sul loro territorio. Il tempo di attesa in questi campi varia a seconda dei profili dei profughi. Una volta accettati, questi ultimi sono indirizzati verso uno dei tre campi d’insediamento, mentre se hanno un garante (kāfil) giordano possono insediarsi anche altrove sul territorio. 

  

I campi, città precarie

 

Come rileva l’antropologo Michel Agier[4], «spazi di transito e di attesa, [i campi] si organizzano come “città” senza per questo essere dotati di un progetto urbano nella misura in cui tutto è concepito per non durare. Si consolidano e durano». Per esempio l’immagine classica che si ha del campo profughi corrisponde poco alla situazione attuale dei campi palestinesi in Medio Oriente. In effetti, dalla fine degli anni ’50 le case in muratura sono andate sostituendosi alle tende. Isolati dalle città al momento della loro creazione, la maggior parte dei campi è oggi situata alla periferia dei principali agglomerati dei Paesi d’accoglienza. La dimensione temporale dell’esilio palestinese è un elemento importante da considerare. Sessant’anni di esilio hanno generato un rapporto particolare tra i palestinesi e le rispettive società di accoglienza, che unisce una forte integrazione locale, legata alla rapida urbanizzazione del loro Paese di arrivo, a forme di segregazione che dipendono dai diversi contesti politici e giuridici.

 

In questo senso l’esperienza palestinese ha molti insegnamenti da offrire agli altri gruppi di profughi nella regione. Che cosa sono diventati i campi palestinesi, i primi dei quali sono nati nel 1949? Nell’esilio, oltre alla funzione residenziale, i campi profughi svolgono tre ruoli per la società palestinese: sono luoghi di espressione delle forme locali di solidarietà tra i profughi, assicurano la ricomposizione dell’identità palestinese nonostante la dispersione, e sono spazi di espressione politica, dando così forma al tessuto di base della società palestinese in esilio. Tuttavia, man mano che le speranze di risolvere il conflitto israelo-palestinese diminuiscono, i campi diventano spazi di ripiegamento identitario, sociale ed economico. Con l’aumento della pressione demografica e la mancanza di risorse finanziarie, le infrastrutture sono inadeguate e le abitazioni sono spesso fatiscenti. La mancanza di finanziamenti da parte delle organizzazioni umanitarie internazionali e lo statuto particolare dei campi nei Paesi d’accoglienza, che tendono a emarginare e stigmatizzare questi spazi, sono fattori che consentono di comprendere la situazione in cui versano oggi queste realtà.

 

Che ne è allora dei profughi siriani? Il campo di Zaatari, nel nord della Giordania, che conta quasi 80mila abitanti, è il più noto spazio d’insediamento dei profughi siriani. Vera e propria città, in cui ai prefabbricati è ancora giustapposta qualche tenda, in quest’area si concentrano tutti i paradossi della presenza siriana in Giordania. Le organizzazioni umanitarie sono onnipresenti, simbolo della fragilità di una popolazione esiliata priva di risorse. A differenza dei profughi iracheni arrivati in Giordania dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, che provenivano per lo più dalle classi medie urbane e si erano stabiliti nella capitale giordana, gran parte dei profughi siriani oggi arrivano dalle aree rurali e sono quindi più vulnerabili. Hanno per esempio un accesso limitato al mercato del lavoro, anche se prima dell’estate del 2016 sono state adottate misure per facilitare l’ottenimento di un permesso di lavoro. Inoltre chi intenda uscire dai campi deve procurarsi un’autorizzazione, concessa per un tempo limitato.

 

Anche se è abbastanza difficile descrivere i campi siriani, il loro sviluppo demografico è stato rapido. La morfologia stessa si è evoluta in maniera sostanziale, passando da uno spazio densamente popolato di tende giustapposte alla presenza di prefabbricati tra i quali s’inseriscono cortili privati o piccoli orti. Inizialmente il campo di Zaatari era uno spazio di accoglienza aperto, con la possibilità per i rifugiati di entrare e uscire senza controlli particolari. Poi, siccome l’esilio si è prolungato e il numero di profughi è aumentato in maniera significativa, le autorità giordane hanno iniziato a controllarne le entrate e le uscite. Oggi è uno spazio chiuso e i profughi che desiderano uscire devono disporre di un’autorizzazione temporanea che consenta loro di andare a una visita medica, in un’ambasciata o a trovare qualche parente. Allo stesso modo, gli estranei che desiderano entrare nel campo devono ottenere un’autorizzazione preliminare dalle autorità giordane.  

 

Zaatari, una città in divenire

 

Questa chiusura progressiva dei campi profughi risponde da un lato a logiche di controllo delle forme di insediamento della popolazione siriana rifugiata e dall’altro a esigenze sicuritarie. Essa ha come effetto quello di “confinare” alcuni siriani in uno spazio circoscritto contribuendo a modellare il campo. Nonostante le restrizioni dell’amministrazione umanitaria, i profughi hanno saputo sviluppare su questo territorio uno spazio di vita sociale ed economica. Si sono raggruppati per famiglia e a volte per villaggio d’origine. Prefabbricati e tende sono stati riadattati per farne delle abitazioni, certamente precarie, ma che hanno permesso di ricreare spazi privati e oggi il campo è costellato di piccole attività commerciali e artigianali generatrici di magri introiti. I profughi hanno cercato, per quanto possibile, di ricreare una parvenza di vita normale in un contesto di privazione quasi totale e di forti costrizioni. Si assiste dunque a un addensamento dello spazio costruito e alla sua riorganizzazione sotto l’impulso di dinamiche generate dagli stessi profughi.  

 

Mentre il campo è parzialmente scollegato dall’ambiente socio-economico giordano, la morfologia di questo spazio è in evoluzione. La mancanza di collegamento con l’ambiente geografico vicino spinge i siriani a sviluppare la loro propria economia a partire dalle loro risorse e dai limitati contributi esterni. All’entrata del campo si è sviluppata una via commerciale che, ufficialmente denominata “via del suq”, dagli abitanti è chiamata “Champs Elysées”. Le abitazioni sono state tutte trasformate in botteghe che vendono prodotti di base (alimentari, panetterie, frutta e verdura…), negozi di telecomunicazioni o di bricolage, piccoli ristoranti, parrucchieri, gioiellerie, negozi di abbigliamento. Oltre a costituire una fonte di reddito, questa strada è diventata uno spazio di socialità dove i profughi si ritrovano e passeggiano come in una strada commerciale di una qualsiasi città. La comparsa di negozi che noleggiano abiti da sposa dimostra come, bene o male, la società siriana si stia ricostruendo nell’esilio. Visto che questa condizione si protrae, nel campo si sviluppano servizi per soddisfare le esigenze dei profughi e si trovano anche venditori ambulanti che propongono caffè, tè o panini. E, poiché il campo si estende su una vasta superficie, si stanno sviluppando quartieri distinti. Inizialmente vi erano sezioni numerate che seguivano l’estensione spaziale del campo secondo il ritmo dei nuovi arrivi. Poco a poco i profughi si sono riorganizzati in gruppi per ricreare forme di vicinato e prossimità simili a quelle che conoscevano in Siria prima dell’esilio. La vita si ricrea attorno ai membri della famiglia che hanno trovato rifugio nel campo e dei vicini provenienti dagli stessi quartieri o villaggi in Siria. Stanno nascendo associazioni, il più delle volte informali, e piccoli gruppi di profughi danno vita a concerti di musica tradizionale. Il campo diventa così uno spazio di vita e sociabilità in forza della costrizione all’esilio e dell’assenza di soluzioni alternative. In questo senso, l’esilio dei siriani oggi ricorda quello dei palestinesi di qualche decennio fa.

 

Lo spazio che si sviluppa è dunque singolare. Il campo è percepito come un’area di chiusura e di attesa, dove regna la precarietà e dove la dipendenza dall’aiuto internazionale è forte. Gli abitanti, costretti per la maggior parte all’inattività, risentono profondamente dello status di profugo. Le norme che regolano le costruzioni sono molto rigide: i siriani non possono edificare case in muratura nel campo ma devono accontentarsi di case prefabbricate che riadattano. Le unità abitative subiscono un rapido degrado legato alle condizioni climatiche abbastanza rigide del nord della Giordania. Il campo è perciò il simbolo stesso della tensione nella quale vivono i rifugiati, tra la precarietà delle condizioni materiali e la chiusura da un lato, e la volontà di ricostruire una vita “normale” nell’esilio dall’altro.

 

Dal transito all’insediamento

 

La realtà dei campi è di per sé composita. In Medio Oriente, accanto ai principali campi ufficiali gestiti congiuntamente dalle organizzazioni umanitarie (internazionali e locali) e dagli Stati di accoglienza, esistono molte altre forme di accampamento. Nel luglio 2016, più di 85mila siriani sono rimasti bloccati nei due campi di transito di Rukban e Hadalat, a est del confine siro-giordano, in una terra di nessuno tra i due Paesi. Punti di passaggio per entrare in Giordania, questi spazi erano campi di transito dove i rifugiati trascorrevano inizialmente da uno a dieci giorni, mentre oggi sono diventati campi d’insediamento dove il provvisorio dura diverse settimane o addirittura diversi mesi. L’irrigidimento delle politiche d’ingresso in Giordania ha trasformato i posti di confine in campi di fatto in cui, nonostante l’intervento del Comitato internazionale della Croce Rossa, le condizioni umanitarie sono estremamente difficili. La questione dei campi è perciò intrinsecamente legata a quella delle politiche d’asilo e delle modalità di gestione dei confini. L’irrigidimento delle politiche d’ingresso nei territori dei Paesi limitrofi e il perdurare del conflitto, che blocca le possibilità di mobilità, hanno una conseguenza duplice: da un lato favoriscono l’insediamento “stabile” dei profughi nel Paese d’accoglienza, dall’altro contribuiscono alla nascita di campi ai confini dove si radunano i profughi che tentano di fuggire dalle violenze. In Libano l’assenza di campi ufficiali ha prodotto una miriade di insediamenti non ufficiali, di dimensioni più piccole, caratterizzati da una grande precarietà a causa della mancanza di coordinamento dei mezzi di assistenza. Questa problematica inoltre non è più esclusiva della regione. I campi si declinano dunque in varie forme nel percorso dei profughi, oscillando tra campi di passaggio o di transito a spazi d’insediamento prolungato.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

 

 

Note


[1] Per esempio, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein nel 2003 ai palestinesi d’Iraq è stato vietato l’ingresso sul territorio siriano; perciò sono nati dei campi per accoglierli in una terra di nessuno tra i due Paesi. Cfr. Jalal al-Husseini, Kamel Doraï, La vulnérabilité des réfugiés palestiniens à la lumière de la crise syrienne, «Confluences Méditerranée» 87 (autunno 2013), pp. 95-107.
[2] I risultati preliminari dell’ultimo censimento giordano, pubblicato nel gennaio 2016, indicano la presenza di 1,2 milioni di siriani in Giordania. Il dibattito sui numeri è ricorrente in concomitanza degli arrivi di massa dei profughi. Per esempio, lo studio realizzato dall’istituto norvegese FAFO nel 2007 mostra molto chiaramente la difficoltà di produrre dati statistici sui rifugiati in Giordania. Cfr. Iraqis in Jordan 2007. Their Number and Characteristics, FAFO, UNFPA, Dipartimento di Statistica in Giordania, disponibile su www.fafo.no/ais/middeast/jordan/IJ.pdf. Quanto ai rifugiati che entrano in Europa, le cifre prodotte da Frontex devono essere prese con cautela perché conteggiano i passaggi ai confini (con il rischio di contare più volte le stesse persone) e non le domande di asilo effettivamente presentate in ogni singolo Stato membro. 
[3] Géraldine Chatelard, Kamel Doraï, La présence irakienne en Syrie et en Jordanie : dynamiques sociales et spatiales, et modes de gestion par les pays d’accueil, «Maghreb-Machrek» 199 (2009), pp. 43-60.
[4] Michel Agier, Le son de la guerre. Expériences africaines de l’errance, des frontières et des camps, «Politix», 24 (2004), n. 61, pp. 83-99.