La politica estera della Repubblica Islamica è costantemente sotto la lente di ingrandimento. Ma a differenza di quanto si potrebbe pensare, nella maggior parte dei casi le azioni dell’Iran sono guidate più dal pragmatismo che dallo zelo rivoluzionario
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:23
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La politica estera iraniana è divenuta un interessante oggetto di studio soprattutto dopo la Rivoluzione del 1979. Il cambiamento epocale che ha interessato l’ordine politico e la struttura istituzionale del Paese, infatti, ha coinvolto anche e soprattutto la posizione iraniana a livello regionale e internazionale. Gran parte della letteratura occidentale ha cercato di decifrare e descrivere quali motivazioni guidassero la politica estera della Repubblica Islamica. Se le strategie appaiono mutate nel tempo, sulla base di nuove minacce e nuovi equilibri regionali, la postura estera iraniana ha sempre perseguito obiettivi volti a soddisfare gli interessi nazionali. Quale sia la natura di questi interessi (il primato della sicurezza o la promozione del pensiero rivoluzionario khomeinista?), ha interrogato le diverse scuole delle relazioni internazionali, mettendo in luce aspetti non sempre in armonia tra loro.
Per comprendere la proiezione regionale iraniana è necessario quindi guardare al dato geopolitico. L’Iran è uno Stato di grandi dimensioni, circondato da Stati potenzialmente nemici o competitori, sia dal punto di vista economico che ideologico. Allo stesso tempo, sono fonte di apprensione e costituiscono una minaccia alla sicurezza nazionale l’instabilità dei vicini Afghanistan e Pakistan, la porosità di alcune aree di confine, specie nelle province a sud-ovest e sud-est del Paese, dove abitano le minoranze etnico-linguistiche storicamente in conflitto con il potere centrale di Teheran. Queste condizioni confermano la teoria realista delle relazioni internazionali per cui la proiezione regionale iraniana risponderebbe alle presunte o effettive minacce alla sicurezza.
Con la nascita della Repubblica Islamica, l’Iran ha modificato il suo status regionale, passando dall’essere un importante alleato degli Stati Uniti a una delle loro più grandi preoccupazioni. Il discorso rivoluzionario antimperialista, come analizzato in questo articolo, unito a una retorica decisamente aggressiva, soprattutto nel primo biennio postrivoluzionario, deteriorarono le relazioni tra Iran, Stati Occidentali e loro alleati in Medio Oriente. La postura iraniana fu percepita come una minaccia esistenziale dai Paesi arabi, specialmente da quelli che presentano una comunità sciita più o meno consistente. Per quanto lo sciismo politicizzato iraniano non avesse la forza di imporsi o di proporsi come modello nel panorama regionale, le monarchie del Golfo, la Repubblica Irachena e lo Stato di Israele iniziarono a demonizzare la politica estera di Teheran, accusandola di destabilizzare l’equilibrio mediorientale attraverso il sostegno alle milizie libanesi di Hezbollah e a quelle palestinesi di Hamas e Jihad islamica.
Le divisioni interne non tardarono ad emergere, e nonostante lo scontro violento con le altre anime della rivoluzione, in particolar modo quelle secolari (marxiste e militanti di sinistra), l’establishment radicale islamista riuscì ad affermarsi anche grazie alla retorica rivoluzionaria. L’assalto all’ambasciata americana a Teheran nel novembre del 1979 divenne il pretesto per estromettere definitivamente i moderati dal Governo Provvisorio, e presentarsi nella regione quale forza antimperialista capace di tenere sotto scacco gli Stati Uniti per 444 giorni, durata dell’infausta “crisi degli ostaggi”. Che le relazioni diplomatiche tra Teheran e Washington si sarebbero definitivamente congelate e che l’Iran avrebbe pagato con l’isolamento internazionale questo eccesso di zelo rivoluzionario, fu l’effetto collaterale di un institution building necessario alla cristallizzazione della Repubblica.
Dall’esportazione della Rivoluzione alle presidenze pragmatico-riformiste
Negli anni Ottanta, l’Iran sembrò definire la sua politica estera e la sua proiezione regionale sulla base di imperativi ideologici, tra cui il conclamato slogan di “esportare la rivoluzione” o l’essersi posto come guida dei movimenti rivoluzionari regionali (con il sostegno ai palestinesi e il terzomondismo). A causa di questa retorica la postura iraniana è stata percepita come altamente minacciosa e ciò ha contribuito ad aumentare l’antipatia e l’animosità dei vicini arabo-sunniti. Questi ultimi concorrevano con Teheran a livello economico nel settore delle risorse energetiche, ma anche a livello di immagine: è il caso in particolare della monarchia saudita, che ospita le città sante di Mecca e Medina, e di Baghdad, che sotto la guida di Saddam Husayn ambiva a guidare il nazionalismo arabo. La guerra che dal settembre 1980 l’Iraq ha “imposto” alla neonata Repubblica aveva chiaramente ragioni geopolitiche e interessi sui territori contesi a ridosso dell’Arvand rud (o Shatt al Arab), ma ebbe come pretesto e apparente giustificazione quello della guerra preventiva. Saddam voleva infatti evitare che le comunità sciite maggioritarie nel suo Paese emulassero il vicino Iran.
Negli anni Novanta e nella prima metà degli anni 2000, le presidenze pragmatico-riformiste iraniane tentarono di moderare i toni così da riabilitare l’immagine della Repubblica, ma anche di rompere l’isolamento internazionale. I presidenti Rafsanjani e Khatami vollero entrambi stabilizzare le relazioni regionali e in particolar modo quelle con gli stati del Golfo. È importante sottolineare, tuttavia, come l’esecutivo rappresenti solo un aspetto della politica estera della Repubblica. La Guida Suprema nomina i capi militari di esercito regolare e Guardie della Rivoluzione, che sono altresì impegnate in missioni extra territoriali tramite le loro truppe speciali.
Questo spiega, in parte, la discrepanza di fondo tra diplomazia e decisioni di politica estera e il coinvolgimento delle forze militari in altri Paesi della regione, come affermato anche dal ministro degli Esteri Mohammad Javad Zarif nel corso di una conversazione che sarebbe dovuta rimanere riservata. Ma serve anche a chiarire che la postura regionale iraniana si snoda attraverso diversi attori, i quali non sempre condividono priorità e pratiche e riflettono quindi il pluralismo politico interno.
La caduta dei Talebani e la rimozione di Saddam Husayn, unita allo smantellamento dell’apparato burocratico e militare iracheno, fornirono all’Iran un contesto favorevole per assicurarsi profondità strategica. Eliminate due significative minacce, Teheran ha iniziato a penetrare nei Paesi limitrofi attraverso strumenti di soft power, utilizzando enti caritatevoli, sponsorizzando i pellegrinaggi religiosi, sostenendo scuole e stabilendo importanti legami commerciali, e di hard power, con il sostegno alle milizie sciite locali.
Tra scontro ideologico-settario e dato geopolitico
La politica mediorientale statunitense, che pur mirava a indebolire la Repubblica Islamica, ha così contribuito a favorirne l’ascesa. Di conseguenza, già nella prima metà degli anni 2000, iniziò a farsi spazio la teoria di una “mezzaluna sciita” che lega Teheran a Beirut passando da Baghdad e Damasco. Questa teoria interpreta il risveglio delle comunità sciite nella regione alla luce della guida iraniana, e attribuisce quindi a Teheran l’obiettivo di voler affermare la sua potenza innescando uno scontro ideologico-settario. In quegli anni, infatti, si assiste a un prepotente incremento della presenza iraniana a livello regionale e, in particolar modo, nel vicino Iraq. L’Iran ha aumentato il suo coinvolgimento negli affari politici, economici e militari del Paese limitrofo, soprattutto al fine di scongiurare un governo ostile, evitare la partizione confessionale dell’Iraq e garantirsi profondità strategica in territorio iracheno. Le truppe iraniane hanno intessuto relazioni militari importanti con le milizie sciite irachene anche se, nel tempo, è emersa una certa insofferenza rispetto all’ingerenza di Teheran da parte dei gruppi nazionalisti.
L’Iran è altresì impegnato a sostenere il governo di Bashar al Assad nel contesto dell’ormai decennale guerra civile siriana. Le truppe speciali iraniane legate alle Guardie della Rivoluzione, le Niru-ye Qods (o Forze di Gerusalemme), hanno svolto un ruolo importante dispiegando capacità militari e logistiche, portando consiglieri, armi, aerei, e unendosi all’esercito regolare siriano. Teheran ha dichiarato che i combattenti fossero volontari partiti per proteggere i santuari sciiti. Questa retorica non solo ha creato malumori nella società iraniana, che contesta al governo la destinazione di fondi alle milizie estere nonostante la difficile situazione economica interna, dovuta alla reintroduzione delle sanzioni statunitensi e alla diffusione del COVID-19, ma ha anche tempo alimentato la narrativa dello scontro ideologico-settario. Seppur l’intervento iraniano sia formalmente legittimo, perché risponde alla richiesta di aiuto del governo di Damasco e quindi non commetta violazioni della sovranità siriana, l’Iran è accusato di ingerenza e di destabilizzare gli equilibri della regione. Lo Stato di Israele, ad esempio, rispondendo preventivamente a una potenziale minaccia, ha più volte lanciato attacchi per distruggere le basi militari iraniane in Siria.
Un altro contesto che vede impegnate le Niru-ye Qods, guidate fino al gennaio 2020 dal carismatico generale Qassem Soleimani, è quello yemenita. Dal 2015, l’Iran sostiene lo sforzo bellico degli Houthi, un gruppo sciita che si rifà però alla scuola zaidita, e non a quella imamita o duodecimana adottata dalla Repubblica Iraniana.
In ultimo, ma non di minore importanza, è il ruolo giocato dall’Iran nella lotta al sedicente Stato Islamico. Lo Stato Islamico (o IS) non solo ha costituito una minaccia dal punto di vista ideologico, perché afferma una ideologia fondamentalista sunnita avversa all’esistenza stessa degli sciiti; ma rappresentava una minaccia anche alla stabilità e sicurezza della Repubblica Islamica. L’Iran ha combattuto lo Stato Islamico anche al fine di tenere la minaccia lontana dai confini nazionali, e solo nella primavera del 2017 IS è riuscito a compiere un attentato nei due luoghi simbolo della capitale, ovvero al Parlamento e al mausoleo dell’ayatollah Khomeini.
La presenza iraniana nei diversi teatri di conflitto e l’ingerenza negli affari politici regionali sembrano riflettere le ambizioni egemoniche della Repubblica Islamica e la volontà di imporre il proprio predominio nello scacchiere mediorientale. La teoria del cosiddetto “revival sciita” ha fornito così i parametri entro cui descrivere la proiezione regionale iraniana, anche se, di fatto, trascura i reali interessi geopolitici di Teheran.
Guardando al dato geopolitico, l’Iran sembra rispondere alle crescenti tensioni regionali esternalizzando le minacce, ovvero combattendo su vari fronti per allontanare l’insicurezza dai confini nazionali. La guerra asimmetrica combattuta tramite il sostegno alle milizie sciite riflette anche la volontà di evitare un conflitto convenzionale su larga scala, che vedrebbe il Paese in potenziale svantaggio. La politica regionale di Teheran, quindi, risponde ai canoni del realismo, ovvero dà priorità agli imperativi di sicurezza, anche se all’occorrenza strumentalizza il fattore ideologico-religioso per cementificare taluni sistemi di alleanza. L’esigenza di mantenere solidi rapporti con Iraq e Siria, unico Stato mediorientale accorso ad aiutare la Repubblica durante la guerra contro l’Iraq, serve a garantire la profondità strategica fino al Libano, e preservare la linea di rifornimento diretto con le milizie di Hezbollah. Nonostante sia considerata aggressiva, la proiezione regionale iraniana rivela invece obiettivi di carattere difensivo. Ad oggi viene comunemente usata la dicitura di forward defence che identifica un tentativo di difesa “preventiva” volta ad esternalizzare le minacce, ma che può sfociare in un atteggiamento più interventista e quindi aggressivo, come peraltro evidente nel caso della Repubblica Iraniana.
L’antagonismo con l’Arabia Saudita
La crescente militarizzazione in Medio Oriente non solo indica come la postura iraniana venga percepita dai suoi antagonisti regionali, ma anche come sia strumentalizzata. L’importazione di armamenti nella regione è cresciuta dell’87% tra il 2009 e il 2013, con l’Arabia Saudita che è diventata tra il 2014 e il 2018 il più grande importatore di armi su scala mondiale. In un’area già funestata da conflitti settari, guerre civili decennali e proliferazione di attori non-statali tra cui gruppi jihadisti legati ad al-Qaeda e Stato Islamico, la tensione generata dalla competizione tra Iran e Arabia Saudita amplifica le divisioni e le possibilità di escalation militare. La securitizzazione della politica mediorientale, infatti, è motivo di grande preoccupazione perché capace di condurre entrambi i Paesi verso atteggiamenti maggiormente assertivi. L’escalation militare tra Teheran e Riyad è stata sfiorata in più occasioni, ma le due potenze preferiscono sfidarsi in Paesi terzi e nelle cosiddette “guerre per procura” evitando lo scontro diretto. Mentre Riyad continua la sua operazione militare in Yemen per contrastare gli Houthi e contenere l’ascesa iraniana, Teheran è sicuramente favorevole a tenere impegnata la monarchia saudita lungo il confine del Regno. Nel mese di aprile 2021, tuttavia, l’Iraq ha ospitato incontri diretti tra ufficiali iraniani e sauditi. Oltre al valore simbolico, questi incontri potrebbero gettare le basi per un ulteriore dialogo tra le due potenze, e impegnarle quindi in una mediazione volta alla stabilizzazione della regione.
L’antagonismo tra Iran e Arabia Saudita è stato a lungo descritto come una competizione tra due modelli politici, repubblica versus monarchia, e due sistemi religiosi, guida del mondo sciita versus guida di quello sunnita. In realtà, dietro lo scontro ideologico vi sono interessi nazionali e rispettive ambizioni geopolitiche. La politica regionale iraniana, infatti, non si limita al sostegno delle milizie sciite, che pur risultano le principali alleate della Repubblica. Teheran è consapevole dei limiti del proprio modello rivoluzionario. L’ideologia radicale khomeinista infatti già negli anni Settanta trovò forti resistenze da parte del clero quietista duodecimano. Oltretutto, la politicizzazione del clero risulta da una dinamica nazionalista e specificatamente iraniana, legata al trascorso storico e alle relazioni tra classe religiosa e potere politico. Il modello khomeinista e la teoria del Velayat-e Faqih, o autorità del giureconsulto, risultano inapplicabili in altri contesti. Dai seminari iracheni di Najaf, il Grande ayatollah al-Sistani continua infatti a insistere sulla necessaria lontananza del clero dagli affari politici. Questo chiarimento lascia intendere che, per quanto ambisca a mantenere il suo ruolo di potenza regionale, la Repubblica iraniana difficilmente riuscirà ad imporsi come forza egemone.
In definitiva, al di là della retorica, spesso anche strumentalizzata, e oltre l’idealizzazione di una mezzaluna sciita guidata dalle ambizioni egemoniche dell’Iran, la Repubblica Islamica persegue una politica regionale pragmatica e razionale, finalizzata a garantire la sua sicurezza nazionale e ad affermare la sua potenza nell’equilibrio – in divenire – del Medio Oriente.
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