Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:25
Il 14 febbraio 2005 il primo ministro Rafiq Hariri viene assassinato nel centro di Beirut, insieme ad altre 17 persone. è musulmano sunnita. Qualche settimana prima Marwan Hamade, ministro druso, sfugge ad un tentativo d'assassinio. Due giorni dopo cominciano le manifestazioni quotidiane contro la Siria ed il governo libanese, accusati di essere i mandanti dell'attentato. Si organizza un'opposizione che riunisce cristiani, drusi e sunniti. Solo due partiti sciiti (compresi gli hezbollah) restano fedeli alla Siria e per una ragione molto semplice: essa è il loro maggiore appoggio. Comincia allora una rivoluzione pacifica, la "Intifada della Liberazione", per l'allontanamento definitivo della Siria (esercito e servizi segreti) in conformità con la risoluzione 1559 delle Nazioni Unite (2 settembre 2004). Ogni giorno migliaia di persone, ognuna con una bandiera libanese e senza alcun altro simbolo politico, membri di ogni partito e comunità, si recano alla Piazza dei Martiri, cuore di Beirut, per raccogliersi intorno alla tomba di Hariri e manifestare la loro gioia ed il loro patriottismo attraverso canti inneggianti al Libano ed alla patria. Il 14 marzo quasi un milione di persone si raduna in piazza. Il movimento popolare è così forte, sostenuto dalla pressione internazionale (soprattutto della Francia e degli Stati Uniti) che la Siria finisce per cedere. Promette di ritirarsi e si ritira effettivamente nell'arco di due mesi, dopo trent'anni di presenza "amica". Questo movimento ha avviato una valanga di conseguenze: dimissioni del governo (28 febbraio e 14 aprile); ritiro progressivo e definitivo della Siria, terminato il 26 aprile; creazione di un governo limitato provvisorio (19 aprile), con lo scopo d'organizzare libere elezioni in tutto il paese per costituire il parlamento; ritorno del Generale Michel Aoun il 7 maggio dopo 15 anni d'esilio; svolgimento d'elezioni che si distribuiscono lungo tre settimane (da domenica 29 maggio a domenica 19 giugno), per eleggere i 128 deputati del Parlamento, 64 cristiani e 64 musulmani (inclusi i drusi); costituzione di un nuovo governo; voto di fiducia del parlamento al governo etc... Vorrei qui sintetizzare qualche insegnamento che si può trarre da quest'esperienza. Lo farò in alcuni punti. Il Superamento dei Partiti Durante le settimane che vanno dalla metà di febbraio a fine aprile il popolo libanese si è ritrovato un po' come prima della guerra del 1975. Per la prima volta da 30 anni a questa parte le divisioni confessionali sembravano scomparse. La rivoluzione è partita dai cristiani, solidali con il Patriarca maronita Nasrallah Sfeir che da anni non cessava di ripetere la necessità d'applicare gli accordi di Ta'if che prevedevano il ritiro dei siriani. A loro si sono uniti i drusi nella persona di Walid Jumblat ed infine i sunniti dopo l'assassinio di Rafiq Hariri. Anche qualche sciita si è unito a questo movimento, ma i due grandi partiti sciiti (Hezbollah e Amal) hanno opposto il loro rifiuto. L'unione si è manifestata in primo luogo sulla tomba di Hariri; tutti vi andavano a pregare secondo la propria tradizione, recitando le preghiere più adatte. I cristiani facevano il segno della croce, mentre i musulmani si passavano le mani sul viso; chi deponeva candele o rosari, chi rosari musulmani; alcuni sfoggiavano la croce in una mano ed il Corano nell'altra e talvolta il copricapo tipico dei drusi in testa. A tutti la famiglia Hariri ha distribuito copie del Corano. Migliaia di persone sono sfilate ogni sera davanti alle spoglie del Primo Ministro, in mezzo a musica e canti, firmando petizioni e intrattenendosi reciprocamente, in un'atmosfera di gioia e di grande fratellanza. Questa "rivoluzione" si è compiuta in larga misura ad opera della gioventù del paese, guidata da leader saggi e con le idee chiare. Mai è sconfinata nella violenza, in nessun momento. L'esercito che vegliava sull'ordine pubblico simpatizzava in fondo con i manifestanti e non ha fatto uso della forza. Tutti si salutavano per strada e scambiavano battute con i militari. Il governo filosiriano, constatando che non godeva dell'appoggio della popolazione, ha cercato qualche compromesso su questioni di secondaria importanza. Ma l'opposizione ha mantenuto immutate le proprie richieste, senza abbassare il prezzo, ed il popolo ha rifiutato il governo che è stato infine costretto a presentare le proprie dimissioni. Si è trattato di una grande vittoria per l'opposizione ed ancora di più per la nazione libanese. Vittoria che è stata il frutto di un movimento nazionale, di un movimento di ritrovata identità nazionale. Da quei giorni migliaia di bandiere libanesi sventolano ovunque e comunque, negli autobus come sulle automobili, nei luoghi pubblici come nelle case private. La rivoluzione, più che un movimento antisiriano (si dice che in Libano ci siano quasi un milione di lavoratori siriani su un paese che conta soltanto tre milioni e mezzo di abitanti), è stata prevalentemente l'affermazione della ritrovata identità libanese. Se è vero che nei primi giorni dell'intifada si sono verificate alcune aggressioni a siriani, si è trattato sicuramente di una dolorosa eccezione. Quasi sempre, nelle conversazioni, la gente distingue tra il popolo siriano, innocente, ed i suoi dirigenti responsabili dell'occupazione. Non è escluso che in un prossimo avvenire libanesi e siriani collaborino in progetti commerciali ed industriali. Dialogo Nazionale e Confessionalismo Si poteva temere che il Libano si scindesse in due: sciiti filosiriani contro opposizione antisiriana. Fortunatamente l'opposizione vittoriosa ha compreso di dover giocare la carta dell'unità nazionale e dialogare con tutti per affrontare insieme i problemi del Libano. è normale che ogni gruppo s'appoggi ad una potenza straniera: i cristiani alla Francia o all'Occidente, i sunniti all'Arabia Saudita, gli sciiti all'Iran ed i drusi sul più forte del momento? Una volta partiti i siriani, è stato necessario preparare le liste per le elezioni, tenute secondo un sistema elaborato in Siria nel 2000, a svantaggio dei gruppi più piccoli. Occorreva perciò creare alleanze tra tutte le tendenze. Si è dunque assistito, nelle quattro grandi zone elettorali (Beirut, il Sud, la Montagna e la Beqa'a, il Nord) alla formazione di liste che riunivano tutte le confessioni: sunniti, sciiti, drusi e cristiani. Il ritorno del Generale Aoun, che si trovava in esilio in Francia a motivo della sua opposizione accanita alla presenza siriana, ha un po' "turbato" il sistema. Il suo movimento aveva numerosi adepti, soprattutto tra la gioventù. Al momento delle elezioni parlamentari non si è accordato con gli altri gruppi d'opposizione e ne ha creato uno proprio. Malgrado i veementi attacchi portati dai suoi oppositori, ha ottenuto un successo abbastanza considerevole ed in qualche misura inatteso. Alcuni libanesi, soprattutto tra gli intellettuali, hanno criticato questa scelta politica, vedendovi un ritorno al confessionalismo (la Ta'ifiyya) dal momento che molti di quanti hanno votato per questa lista erano cristiani. Questo fenomeno mi sembra comprensibile, se non addirittura inevitabile e forse necessario. In effetti, dopo la fine della guerra, i cristiani non hanno più avuto alcun leader: Aoun in esilio, Samir Geagea in prigione, gli altri capi tradizionali scomparsi, mentre sunniti, sciiti e drusi hanno sempre conservato i loro leader tradizionali. Presso alcuni cristiani si avvertiva il bisogno di ritrovare un capo e per molti il Generale Aoun ha giocato questo ruolo. Inoltre non era possibile superare il confessionalismo, a meno che tutte le confessioni non si mettessero d'accordo simultaneamente. Ora, precisamente a causa della presenza di capi tradizionali per tutte le confessioni eccetto che per i cristiani, questi ultimi hanno reagito confessionalmente, pur dichiarando di voler superare questa tappa. La deconfessionalizzazione si deve realizzare, ma presuppone una volontà comune di cambiare il tipo di relazioni reciproche a tutti i livelli e non soltanto ai vertici. Tuttavia è probabile che questa rivoluzione non avrebbe avuto successo se non ci fossero state, nello stesso tempo, pressioni internazionali (particolarmente americane e francesi) sulla Siria. In effetti che cosa può fare un paese come il Libano di fronte alla Siria? Sarebbe ora che l'Occidente prendesse coscienza della sua responsabilità nel mantenimento della giustizia e della pace mondiali. Ma c'è di più: in questo caso non si è fatto ricorso alla forza militare, ma alla pressione diplomatica. E questo è un punto essenziale: è necessario che le potenze esercitino il loro ruolo per il mantenimento della pace, ma è ancora più necessario che lo facciano con mezzi pacifici (pressioni diplomatiche ed economiche). Proprio quello che non è successo in Iraq e che senza dubbio spiega perché lì la situazione richiederà ancora molto tempo per normalizzarsi. L'Occidente non può essere "neutro" nel senso di passivo, lasciando correre le ingiustizie internazionali; neppure può essere aggressivo al punto da creare nuove ingiustizie. Alla fin fine, l'esempio del Libano ha dimostrato l'efficacia della collaborazione tra Stati Uniti ed Europa. A mio avviso, non è bene che la pace in Medio Oriente dipenda totalmente dalle scelte politiche USA. Il mondo arabo ha maggiore fiducia nell'Europa, più vicina e conciliante. Indipendenza e Autonomia del Libano Il Libano non ha ancora assolutamente ritrovato la propria autonomia. Fino a quando la Siria non scambierà gli ambasciatori con il Libano non ci sarà un vero riconoscimento, perché essa, come 60 anni fa, continua a considerare il Libano parte della "Grande Siria". Per sottolineare bene che i due paesi non ne costituiscono in verità che uno solo, la rete telefonica, una dozzina d'anni fa, è stata unificata: da allora, si può telefonare dalla Siria in Libano e viceversa senza prefisso internazionale. Ma come si può esigere dalla Siria che riconosca le frontiere internazionali con il Libano (frontiere imposte dalla potenza mandataria) se non si esige da Israele il riconoscimento dei confini internazionali con la Palestina, fissati nel 1949 ed in seguito mai modificati? Per ogni persona che voglia essere equa, vi è in questo un'ingiustizia flagrante. Fino a quando Israele occuperà impunemente larghe fette di Palestina e Siria e qualche villaggio libanese? Fino a quando le grandi potenze (ed in particolare gli Stati Uniti) sosterranno questa ingiustizia? E come i Paesi arabi in particolare potranno credere alla giustizia ed alla democrazia quando constatano il silenzio dell'Occidente? La richiesta del popolo libanese per l'allontanamento dei siriani, sostenuta dall'ONU e dalle grandi potenze occidentali, conduce necessariamente a porre la questione dell'atteggiamento di Israele che occupa la Palestina (e la Siria) ben più violentemente di quanto mai abbia fatto la Siria con il Libano. La pace passa di necessità per il rispetto delle frontiere internazionalmente riconosciute, e delle leggi e decisioni internazionali. Fino a quando un solo paese (Siria, Israele o Iraq) non rinuncerà definitivamente ad occupare anche solo un metro quadrato di territorio del vicino non ci sarà né pace né non-violenza! Chi vuole la pace deve volere ed amare la legalità, perché l'illegalità non potrà mai produrre la pace, ma soltanto il desiderio di vendetta. Imparare la legalità è il primo passo verso la democrazia ed il nostro mondo arabo ha bisogno di un grande sforzo per raggiungere questo duplice obiettivo: il senso del diritto al di sopra di tutto e tutti ed il senso della democrazia. L'Occidente rappresentava un po' il modello in questi due campi, ma sempre di più quest'immagine va offuscandosi: corruzione, favoritismo e tendenza alla dominazione degli altri si sono largamente diffusi. La pretesa degli Stati Uniti di "insegnare il bene", di essere il "gendarme del mondo", pur non rispettando spesso i propri impegni internazionali e rifiutando di sottomettersi agli accordi internazionali, ne ha fatto spesso un modello in negativo. L'immagine che i media veicolano mostra un Occidente forte e potente, ma anche poco morale, con il rischio così di confermare l'idea per cui chi voglia il successo deve fare astrazione dai grandi principi etici. Il Libano potrebbe rappresentare un modello d'evoluzione per la regione. Il suo sistema politico basato su un equilibrio religioso che l'ha fino ad oggi protetto dall'estremismo religioso che tende ad invadere tutto il mondo arabo, il suo liberalismo economico che gli ha assicurato una certa prosperità, il suo livello d'istruzione universitaria che ha sempre conservato al paese una capacità di esercizio di uno spirito critico a tutti i livelli, questi sono tutti innegabili assi nella manica. Ma c'è anche il rovescio della medaglia: il sistema di clientelismo generalizzato apre facilmente la strada alla corruzione ed al favoritismo e lo apparenta talora al feudalesimo. L'equilibrio religioso può facilmente condurre ad un confessionalismo esacerbato, generando monopoli "religiosi" nel commercio come nella politica. Il liberalismo estremo rafforza le ingiustizie sociali se non è controbilanciato da leggi sociali a difesa delle categorie più deboli, evitando però di cadere in un regime assistenzialista come è spesso il caso in Europa. Tante sono le deviazioni da raddrizzare e non si può attribuire la colpa alla "ingerenza straniera". Nondimeno, già a partire dalla sua concezione, praticamente unica nel Medio Oriente, il Libano resta un modello per la regione, non foss'altro perché è un paese arabo, ma dalla cultura largamente influenzata dall'Europa e dall'America, un paese che non è né musulmano né cristiano (anche se il Presidente della Repubblica è cristiano in virtù della Costituzione), ma che non è nemmeno laico, un paese che offre grande spazio alla religione e che riconosce ufficialmente 18 comunità, tutte rappresentate in seno al parlamento. L'eccezione libanese potrebbe realmente servire da modello, se si liberasse delle proprie scorie.