In tutte le aree di interazione tra cultura arabo-musulmana e cultura arabo-cristiana le discussioni e le controversie intellettuali e dottrinali furono profondissime e aspre
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:50:47
Il confronto tra cristiani e musulmani non è cosa di oggi. Da parte islamica, esso può dirsi inaugurato dal Corano stesso. Questo Libro, infatti, allude più volte ai cristiani (i nasârâ, i “nazareni” contemporanei del profeta Muhammad) rammentando che essi credevano in Dio e nell’Ultimo Giorno [Corano 5:69] ed erano dotati, per atto divino, di “mitezza e misericordia” [ibidem, 57:27] ma anche, ad esempio, che alcuni di loro erano ingiusti come gli ebrei [ibidem, 5:51] e che, al pari di questi ultimi, credevano di avere diritto esclusivo al Paradiso [ibidem, 2:111]. E soprattutto rammenta che essi incorrevano in errore affermando la figliolanza divina [ibidem, 112] e la Trinità. La sura della Mensa è assai esplicita nel dichiarare lo statuto semplicemente profetico del Cristo quando recita: «Sono empi quelli che dicono: “Il Cristo, figlio di Maria, è Dio”. Mentre il Cristo disse: “O figli di Israele, adorate Dio, mio e vostro Signore”. [..] Sono empi quelli che dicono: “Dio è il terzo di tre”. Non c’è altro dio che un Dio solo [..]. Il Cristo figlio di Maria non era che un messaggero divino come quelli prima di lui»[1][ibidem, 5:72-75]. Il Corano esorta più volte i credenti a discutere “nel modo migliore” [ibidem, 29:46, cfr. 16:125] con i cristiani e con tutta la Gente del Libro cioè i depositari delle Scritture precedenti per chiamarli all’Islam, similmente a quel che essi stessi facevano chiamando alla propria fede [ibidem, 2:135, cfr. 2:120 e 9:32]. A partire da tale esortazione si sviluppò un’amplissima controversistica islamo-cristiana in lingua araba che vide la propria epoca classica tra l’VIII e il XIII secolo, grosso modo dall’avvento alla caduta del Califfato abbaside (750-1258). È questo il periodo in cui si verificò un confronto su temi precisi e non un mero scontro tra affermazioni generali, quello in cui fiorirono opere numerose delle quali si tenterà ora di dare qualche esempio.
La controversistica islamo-cristiana in lingua araba è attestata in tutte le aree di interazione tra la cultura arabo-islamica e la cultura arabo-cristiana, come la Spagna andalusa, ambiente fecondo che ci ha lasciato tra l’altro la nota Epistola del monaco di Francia a Muqtadir bi-llâh, governatore di Saragozza, insieme alla risposta, fornita in vece sua dal teologo e letterato Abû al-Walîd al-Bâjî (m. 1081); ma ebbe a proprio luogo d’elezione Baghdad, la capitale dell’Impero Abbaside. I seguaci di Cristo, che in questo arco di tempo risiedettero nei territori islamici, resero numerosi servigi ai regnanti e ai potenti in campo culturale: cultori delle scienze e spesso medici, ebbero, ad esempio, un ruolo importante nelle molte sedi della cultura patrocinate dai califfi, come la celebre Casa della Sapienza di Baghdad che, insieme ad altre istituzioni simili, contribuì al movimento delle traduzioni dal greco, eventualmente attraverso il siriaco, lingua liturgica della fede nestoriana; e questo contribuisce a spiegare la loro relativa sicurezza in materia controversistica. Grandi apologisti cristiani come Abû Qurra, Abû Râ’ita al-Takrîtî, Hunayn ibn Ishâq, Yahyâ ibn ‘Adî, ‘Abd al-Masîh al-Kindî, Severo ibn al-Muqaffa’ e più tardi Iliyyâ al-Nâsîbî, Yahyâ al-Takrîtî o Paolo Vescovo di Antiochia si cimentarono nell’apologia e si misurarono con l’altra religione. Ebbero interlocutori dotti musulmani del calibro di al-Jâhiz, al-Kindî, Muhammad ibn Zakariyyâ al-Râzî, al-Ash’arî, al-Bâqillânî, al-Juwaynî, al-Bîrûnî, al-Ma’arrî, Ibn Hazm, al-Ghazâlî o al-Shahrastânî. Le opere di questi e altri autori rendono difficile sottovalutare il contributo del dibattito islamo-cristiano nella riflessione e nella definizione di sé operata dai due grandi monoteismi in questa fase della storia.
Difendere la Rivelazione
Tra i temi di spicco esplorati dall’apologetica cristiana medievale in lingua araba si conta, ovviamente, la difesa della divinità di Gesù, dell’Incarnazione e della Croce, articoli incompatibili con l’Unicità e la Trascendenza sostenute dal Corano; si pensi alla sura dell’Unicità, anche nota come sura del Culto Sincero o dell’Eterno [Corano 112], quando recita che «Egli, Iddio, è uno, Iddio l’Eterno. Non generò e non fu generato, e nessuno Gli è pari», professione che venne accolta come una sentenza radicale che precludeva ogni possibilità di mediazione con chi professava la presenza di Dio nell’uomo Gesù e, dal punto di vista islamico, macchiava l’Altissimo di generazione e corruzione. La stessa Trinità fu sempre intesa dai musulmani come triteismo, dunque una forma di politeismo, costringendo i cristiani a un’attenta riflessione per definire in lingua araba il mistero delle ipostasi.
Tra i temi di scontro si contano ancora costumi quali la castità e il celibato che corrispondono, nel pensiero coranico e islamico, al rifiuto blasfemo della munificenza del Signore, e l’istituto della Penitenza, che da parte islamica non può che tradursi nell’empia pretesa di sostituirsi a Dio in quel che concerne il premio o il castigo della vita futura.
Sul versante musulmano si trattò di difendere dall’attacco dei cristiani la Rivelazione araba quale precisa Parola di Dio, dono e inimitabile miracolo, e non parola dell’uomo Muhammad, insieme alle virtù morali dello stesso profeta. Si trattò inoltre di evidenziare nelle scritture sacre dagli antagonisti quei passi che sembrano alludere alla venuta di Muhammad, in qualche modo una riedizione dell’annuncio veterotestamentario di Gesù; si pensi, ad esempio, alla dottrina islamica del Paracleto, che nel Consolatore (Paràcletos) annunciato da Gesù in Gv 14, 26 individua piuttosto il Famoso o il Molto degno di lode (Periclutòs), in arabo Ahmad o Muhammad. È una convinzione antica, già presente nel Corano, nella sura dei Ranghi Serrati [ibidem, 61:6]; qui Gesù si rivolge agli ebrei e dice: «Figli di Israele, io sono il Messaggero di Dio inviato a voi, a conferma di quella Torah che fu data prima di me e ad annuncio lieto di un Messaggero che verrà dopo di me il cui nome è Ahmad». Gli apologisti musulmani non ebbero dubbi, le Scritture cristiane contenevano interpolazioni umane che ne minavano alle fondamenta la portata veritativa: è la dottrina dell’alterazione (tahrîf) che i redattori evangelici avrebbero operato sui testi originari; una dottrina della quale, peraltro, i cristiani assimilarono i principi e che ritorsero contro i musulmani, accusando incongruenze nella vulgata coranica quali la piena arabicità dichiarata dal Libro e la presenza contemporanea di termini non arabi, sconosciuti all’uditorio di quella Rivelazione.
Cristiani o musulmani, i polemisti medievali conobbero non solo i dogmi, i riti e l’etica religiosa degli avversari ma soprattutto i loro Libri. Proprio in quanto elemento codificato e saldo, le Scritture si offrirono al dibattito e furono il punto di partenza di ogni ricerca di vicendevole intesa o, meglio, nella realtà dei fatti, di ogni appello proselitista, giacché ognuno individuò esclusivamente nella propria religione il beneficio comune che sta nella comune conoscenza del vero. Se il Corano era comprensibile in lingua araba ai cristiani, invece le Scritture cristiane furono note per lo più in traduzione, attraverso le varie versioni arabe della Bibbia, databili almeno all’inizio del IX secolo sebbene, con buona probabilità, assai più antiche.
Prendiamo, come esempio della prima ora, la corrispondenza, redatta verosimilmente sotto il califfato di al-Ma’mûn e dunque tra l’813 e l’833, tra il musulmano ‘Abd Allâh al-Hâshimî e il cristiano ‘Abd al-Masîh al-Kindî (da non confondersi con l’altro celebre al-Kindî, musulmano e filosofo ellenizzante)[2]; tale corrispondenza divenne nota in Europa fin dalla prima metà del secolo XII in una traduzione latina dal titolo Epistola Sarraceni ad suam sectam Christiani invitantis commissionata dall’abate di Cluny, Pietro il Venerabile, eseguita da Pietro di Toledo e poi inclusa nella celebre Collectio Toledana. Invitato alla conversione dal suo interlocutore, ‘Abd al-Masîh attacca a chiare lettere l’Islam dichiarandolo una religione falsa e denunciando, su basi appunto scritturali, l’incoerenza del Corano e l’inconsistenza della sua miracolosità, e inoltre criticando duramente la legge musulmana, soprattutto l’istituto del matrimonio e le interdizioni alimentari, e il pellegrinaggio alla Mecca che ridicolizza quale insieme di riti bizzarri; è inoltre interessante la sua digressione sul Jihâd, dichiarato non assimilabile al martirio dei cristiani. Dietro la vena polemica e gli accenti tanto aspri, che contribuirono a veicolare quell’immagine fortemente detrattiva dell’Islam propria del nostro Medioevo, questa piccola opera manifesta comunque una sicura conoscenza delle due fedi da parte di entrambi gli autori.
Un altro esempio eminente di conoscenza dell’altra Scrittura, più tardo e questa volta da parte islamica, è la sezione che Ibn Hazm di Cordova (m. 1012) dedica al Cristianesimo nel Libro della distinzione nelle religioni, nelle eresie e nelle sette. L’autore demolisce l’intera cristologia cristiana passando al vaglio nei Vangeli, capitolo per capitolo, trascuratezze cronologiche, genealogiche e geografiche ed espressioni contraddittorie, prendendo avvio, a quest’ultimo proposito, dall’incongruenza che egli rileva tra le espressioni “figlio di Dio” e “figlio dell’Uomo” variamente applicate a Gesù, e tra la Figliolanza divina a volte riservata a Gesù e a volte estesa ai cristiani tutti come nell’invocazione del Padre nostro, nei primi capitoli del primo Vangelo.
Logica Aristotelica
Una grande caratteristica del dibattito islamo-cristiano di epoca classica fu che esso si volle, fin da subito, fondato sulla ragione: sono eloquenti già nel titolo le anonime Domande e risposte razionali e religiose tra un notabile musulmano di Gerusalemme e un monaco, databili alla fine dell’VIII secolo, fondate sull’argomento razionale oltre che su citazioni bibliche e coraniche. E ben presto si trattò di un dialogo condotto secondo i criteri della logica aristotelica. Una traduzione araba degli Analitici Primi, i libri dell’Organon che studiano la struttura sillogistica dei ragionamenti coerenti e formalmente validi, si collocherebbe poco oltre la metà del IX secolo, mentre edizioni integrali dell’opera si ebbero in Baghdad nel X secolo, grazie a Ishâq ibn Hunayn e poi a Yahyâ ibn ‘Adî. In ambito islamico, come in Occidente, l’autorità religiosa non mise mai davvero in discussione l’importanza dell’Organon; tra i musulmani, non solo i filosofi ellenizzanti ma anche i teologi e i giuristi inclusi non di rado quelli di impostazione tradizionalistica si appellarono più o meno dichiaratamente alla metodologia aristotelica. Tra gli altri va ricordato al-Ash’arî (m. 935), un fondatore dell’ortodossia islamica, che utilizzò con perizia l’arte logica nei propri scritti come pure, e di più, il grande al-Ghazâlî (m. 1111), il “Tommaso dell’Islam”. Pur paventando le insidie della disciplina in questione, al-Ghazâlî la dichiarò una bilancia delle conoscenze e un servitore della verità, e insistette sui precedenti attestati nel Corano; è celebre la sua lapidaria contestazione della divinità di Gesù proprio attraverso un sillogismo in cui egli riassume l’assurdità della posizione cristiana: il Cristo fu crocifisso[3], una divinità non può essere crocifissa, dunque il Cristo non è una divinità, così si legge nella Completa refutazione della divinità di Gesù che gli è attribuita.
Definire la Divinità
Usò ampiamente delle categorie aristoteliche Fakhr al-Dîn al-Râzî (m. 1209), che richiamò il suo lettore appunto sulla scienza logica e sulla teoria della conoscenza a introduzione del celebre Sunto delle opinioni dei più antichi e dei posteriori. Questo eminente teologo avrebbe condotto, tra le altre, una Disputa con un anonimo studioso cristiano[4] il cui fondamento è la salda plausibilità della prova che sola può fornire validità a quel che si intende affermare per suo tramite. Tale Disputa guarda in particolare alle discordi attribuzioni di statuto che le due religioni attribuiscono ai rispettivi fondatori (la profezia a Muhammad e la divinità a Gesù), a un numero di erronee convinzioni cristiane a proposito dell’Islam (ad esempio la diffusione della religione con la spada), e ad altre questioni meno esplorate quali l’eccellenza della sepoltura in terra, data a Muhammad, contro l’elevazione al cielo che anche la fede musulmana attribuisce a Gesù: guardando al bene della comunità, osserva al-Râzî, la sepoltura in terra che Dio accordò a Muhammad fu indubitabilmente migliore, perché trattenne i credenti dalla tentazione di divinizzare il loro profeta, errore in cui, al contrario, caddero i cristiani. In questa piccola opera, i due dotti stanno continuamente l’uno di fronte all’altro, ciascuno con le proprie domande e risposte, e, quel che più interessa, ciascuno è teso a risalire a monte dei dogmi altrui fino alla piena intesa razionale sugli enunciati di fondo. Per dare un esempio della discussione, quando il dotto cristiano perora il rango divino e non meramente profetico di Gesù, il musulmano chiede di partire nuovamente dalla definizione di divinità, osserva che essa prescinde dalla corporeità e dall’appartenenza spaziale e temporale, e oppone al cristiano il paradosso di un Cristo Dio che pure nacque in un luogo e in un luogo fu ucciso, che fu neonato, bambino e poi adulto, quando ciò che è nuovo non può essere vecchio o ciò che muta non può essere stabile, in virtù del principio condiviso di non contraddizione. Sulla base dello stesso principio, il cristiano ribatte che Gesù fu umano veramente e senza dubbio, ma richiama a sua volta il musulmano su affermazioni che costui non può avversare, cioè che il Creatore del mondo, Chi non ha modalità né eguali, ha certo la capacità di manifestarsi in qualunque forma Egli voglia, la quale non sarebbe per necessità identica a Lui; e ancora, mentre conferma all’avversario il dibattito a questo proposito tra le stesse fila dei propri confratelli cristiani, gli ricorda l’analogo dibattito sulla corporeità di Dio tra le fila dei musulmani, nonché l’inabitazione divina pretesa da alcuni mistici dell’Islam. A questo discorso il musulmano obbietterà che, una volta ammessa quella presenza di Dio nel corpo di Gesù, non vi è certezza razionale che lo stesso evento non abbia toccato altri, uomini, animali, piante o perfino esseri inanimati.
Intende utilizzare il sillogismo senza soluzione di continuità una corrispondenza epistolare piuttosto nota, quella tra Ibn al-Munajjim, di un’importante famiglia mazdea convertitasi all’Islam, e Qustâ ibn Lûqâ, cristiano melchita nato in Libano, a Baalbek, vissuto a Baghdad e morto in Armenia attorno al 912, traduttore e revisore di traduzioni precedenti. Ibn al-Munajjim apre la sua Epistola, che definisce appunto una dimostrazione, avvertendo che ogni premessa è un assunto universalmente accettato e conforme alla natura originaria, e che dunque ogni conclusione sarà incontestabile per chi si conduce razionalmente; l’accettazione del suo discorso, egli osserva, non potrà che comportare la conversione del cristiano all’Islam. L’autore fornisce alcune argomentazioni logiche volte a provare la veridicità del profeta Muhammad e il carattere miracoloso del Libro arabo. Tra queste, la seguente: solo Dio, il Creatore, ha conoscenza del Mistero; anche Muhammad, pur essendo un essere umano creato, ne ebbe conoscenza, in quanto sfidò gli arabi a imitare la perfezione formale e sapienziale del Corano ben sapendo che non lo avrebbero fatto; quindi, egli dovette apprendere da Dio tale conoscenza del Mistero, e ciò comporta il suo statuto di profeta. Qustâ ibn Lûqâ obbietta che Muhammad, da uomo intelligente e giudizioso quale fu, dovette invece lanciare la propria sfida all’imitazione del Libro perché certo delle proprie umanissime capacità e solo dopo un’attenta valutazione delle probabilità di riuscita. E all’inimitabilità del Corano, la quale equivale, nel pensiero islamico, alla miracolosità che ne conferma l’origine divina, egli applica il principio logico della convertibilità dei termini: può dirsi che un miracolo è un atto inimitabile solo e soltanto se ogni atto inimitabile può dirsi un miracolo; quindi ricorda alcune opere umane le Piramidi d’Egitto, il Faro di Alessandria, oggetti quotidiani dalla mirabile fattura o le opere di Omero che per grandiosità o bellezza o genialità risultarono effettivamente irripetibili ad altri, senza con ciò comportare una missione per conto di Dio o un ruolo profetico da attribuire ai loro autori.
Il cristiano mette in discussione la stessa conoscenza del Mistero come prerogativa di Dio e Suo dono alle creature e ne oppone una definizione del tutto secolarizzata: Mistero è ciò che sfugge all’immediata percezione sensibile, come la malattia che si nasconde nel corpo ma che un medico abile saprà individuare, o il temporale in arrivo che ancora sfugge alla vista ma che un buon marinaio saprà prevedere. Quel che il cristiano chiede al suo interlocutore è un pensiero libero dai condizionamenti imposti dal Corano: nel caso del Mistero, chiede a Ibn al Munajjim di prescindere dalle definizioni che il Libro ne dà quando afferma che «il Mistero è di Dio» [Corano 10:20], che «nessuno, nei cieli e sulla terra conosce il Mistero, nessuno tranne Dio» [27:65] o che «presso di Lui sono le chiavi del Mistero» [6:59]; nel caso della miracolosità del Corano data dalla sua inimitabilità, gli chiede di dimenticare che il Corano si dice inimitabile da sé [cfr. ad esempio 2:23-24, 10:38-39 e 17:88], e che la definizione di miracolo quale atto inimitabile e prova della veridicità di un profeta poggia sull’inimitabilità dell’operato divino e in prima istanza sulla dichiarata inimitabilità della Sua Parola rivelata.
La Risposta di Qustâ ibn Lûqâ all’Epistola di Ibn al-Munajjim segna senz’altro un momento notevole, non tanto nella storia del dialogo interreligioso quanto nella storia del pensiero umano: è in fondo un appello alla pura e semplice ragionevolezza e all’abbandono del discorso confessionale, la cui portata e le cui possibili conseguenze sfuggirono, forse, all’autore stesso.
[Questo articolo è tratto da I. Zilio-Grandi, Le opere di controversia islamo-cristiana nella formazione di una letteratura filosofica araba, in C. D’Ancona (a cura di), Storia della filosofia nell’Islam medievale, Einaudi, Torino 2005, vol. I, pp. 101-136; e da Una corrispondenza islamo-cristiana sull’origine divina dell’Islam (trad., intr. e note a cura di I. Zilio-Grandi, testo arabo a cura di S. Khalil Samir), Patrimonio Culturale Arabo Cristiano (PCAC) 8, Silvio Zamorani Editore, Torino 2004].
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
1. La traduzione italiana del Corano è di A. Bausani, Il Corano, Sansoni, Firenze 1975 (in seguito Rizzoli), a volte con trascurabili variazioni.
2. Cfr. Al-Kindî, Apologia del Cristianesimo (trad., intr., note e indici a cura di L. Bottini), Patrimonio Culturale Arabo Cristiano (PCAC) 3, Zamorani, Torino 1998.
3. Com’è noto, la dottrina islamica nega la crocifissione di Gesù ammettendone invece l’ascensione a partire da Corano, 4:157-159.
4. La cui autenticità è stata confermata dal suo editore libanese; cfr. anche per quanto segue, Fakhr AlDîn Al-Râzî, Munâzara fi al-radd ‘alâ al-nasâra (a cura di ‘Abd Al-Majîd Al-Najjâr), Dâr al-Gharb, Beirut 1986.
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Ida Zilio-Grandi, Quelle dispute medievali a colpi di Aristotele, «Oasis», anno III, n. 5, marzo 2007, pp. 88-92.
Riferimento al formato digitale:
Ida Zilio-Grandi, Quelle dispute medievali a colpi di Aristotele, «Oasis» [online], pubblicato il 1 marzo 2007, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/quelle-dispute-medievali-a-colpi-di-aristotele.