Nelle prese di posizione dei più autorevoli esponenti della Chiesa la proposta di un coraggioso esame di coscienza e l'indicazione di nuovi cammini. Dalla solidarietà piena all'America al rifiuto della guerra e dello scontro di civiltà, dalla rivendicazione della cittadinanza per l'identità religiosa a quella del rilancio delle lotte contro le ingiustizie: il corpus di un insegnamento profondamente immerso nell'oggi.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:18
Twin Towers, 11 settembre 2001: mai, da parte islamica, era stato concepito un affronto più brutale e sconvolgente ai danni di un mondo sentito radicalmente avverso. I manufatti scelti a bersaglio non potevano infatti lasciare adito a dubbi circa le intenzioni degli attentatori, e anzi finivano per attribuire all'orrida strage un valore trucemente simbolico. Portando l'attacco nel cuore di New York, là dove più emblematicamente pulsa la vita della metropoli per antonomasia, i terroristi islamisti esprimevano in modo più che eloquente il loro disgusto per quello che rappresenta il brulicare intenso e caratteristico della vita moderna come si esprime soprattutto nel Nord del mondo. Che poi non intendessero colpire semplicemente gli Usa ma l'intero Occidente, si sono premurati di dimostrarlo in maniera indubitabile gli attentati che seguirono nelle stagioni successive in Europa, da Madrid a Londra.
L'ipotesi di recente affacciata che si sia qui trattato di iniziative isolate piuttosto che episodi di una strategia più articolata, lungi dall'attenuare il loro valore eversivo, ne rafforza il carattere capillarmente dissacrante verso i modelli occidentali, decretato non da un unico vertice ma da un reticolo diffuso di fedeli assai motivati. All'improvviso erano come saltati i codici di auto-comprensione da parte del mondo occidentale, indotto ad avvertire come rischiosa la propria collocazione geografica e minacciosa ogni presenza islamica all'interno delle proprie società. I ponti di dialogo parvero interrompersi o quanto meno si fecero più difficilmente praticabili: l'enormità dell'evento terroristico, compiuto in nome di una pur deviata e aberrante concezione religiosa, rilanciava la fosca idea di un inevitabile conflitto. Un personaggio di lungo corso, e piuttosto minimalista, come Giulio Andreotti osservò: «Il mondo sta attraversando la crisi più grave della sua storia dopo l'11 settembre 2001 nulla sarà più come prima». Stilava una diagnosi per quanto sintetica, proiettando in avanti gli interrogativi che da lì scaturivano. Papa Giovanni Paolo II dal canto suo rifuggì dalle definizioni apodittiche. Con voce straziata parlò di «giorno buio nella storia dell'umanità», dando subito la cifra specifica del suo dolore: c'era stato «un terribile affronto alla dignità dell'uomo».
Che oggi, a distanza di cinque anni, si cerchi di capire quali direzioni abbia assunto il percorso allora bruscamente interrotto, pare del tutto logico. E sarà anche utile, nella misura in cui ci si accosterà ai fenomeni con tutto il disincanto e la lucidità possibili. Da parte mia, solo pochi spunti. Ci Siamo re-identificati come l'Occidente? L'attentato dell'11 settembre 2001 fu anzitutto uno schiaffo al nostro sentimento universalistico e alle nostre abitudini cosmopolite. L'acquisizione di una coscienza mondiale ci pareva approdo così importante che volentieri tralasciavamo le nostre derivazioni locali, avvertite come schegge di un'identità da ricomporsi a livello alto, planetario. Di colpo invece qualcuno ci colpiva perché occidentali. Il lutto immane in cui sprofondarono gli Usa finì per interpellarci tutti. Capimmo che quel che ci univa a loro era qualcosa di molto profondo in termini non solo di modularità di abitudini ma di concezione della vita stessa. Ciò che gli americani trovavano tanto mostruoso da essere inconcepibile, era tale anche per noi. Le sequenze ravvicinate del loro vissuto, il silenzio attonito nelle loro reazioni, l'inginocchiarsi sul ciglio di Ground Zero per pregare assorti, e poi reagire come nazione consapevole anche nella tragedia circa le proprie responsabilità, tutto questo e altro ancora ci indusse a riconoscere nel loro profilo quello della nostra stessa civiltà, che ha i suoi principali archetipi nella pietas cristiana.
Nel nostro Paese si registrò un sentimento diffuso, un'identificazione spontanea con la nazione colpita. E non mancò chi, raccogliendo la mestissima circostanza, invitasse a un disinibito esame di coscienza sul piano culturale. Memorabile l'uscita del Presidente dell'Episcopato italiano, Cardinal Camillo Ruini, che dopo aver ricordato il diritto-dovere di reagire contro il terrorismo, ingiunse: «Occorre smascherare e superare anzitutto a livello etico e culturale quello pseudo-moralismo, presente purtroppo anche nei nostri Paesi e persino tra i cristiani, che tende a vedere negli Stati Uniti la causa e la sintesi dei mali del mondo, ravvisando in essi la massima espressione di una civiltà e di uno sviluppo che sarebbero intrinsecamente e irrimediabilmente mendaci e malvagi». Era una requisitoria in grande stile verso atteggiamenti talora ingenui altre volte ideologizzati, in voga in talune enclave sociali, di più diretta provenienza contestativa. Ma anche verso un certo snobismo intellettualistico che nell'arco degli ultimi quattro decenni aveva prodotto un clima soffuso di contrapposizione nei riguardi degli amici tradizionali, per aprire invece varchi verso culture e paesi alternativi. Naturalmente, nel contesto in cui era concettualmente collocato, questo ragionamento non concedeva sconti ai difetti storicamente riscontrabili in Occidente, Usa compresi. Così come non parve accondiscendere verso letture apocalittiche, allora molto in voga, del conflitto in corso.
La Chiesa cattolica, nei suoi esponenti più illuminati, non ha mai fatto concessioni facili alla teoria del cosiddetto "scontro di civiltà". Se si appellava alla radice comune dell'Occidente, non era per sollevare ulteriori steccati o scavare nuove trincee, ma per trovare la chiave culturalmente più realistica e dunque più efficace rispetto alle nuove sfide che erano drammaticamente comparse. Ma proprio questa posizione tanto netta quanto controcorrente finì per dare notorietà all'appello della Chiesa cattolica, e a caratterizzarla per quella sua pacifica insistenza sull'identità occidentale quale via fruttuosa per l'ormai difficile dialogo con l'Islam. In termini concreti, si trattava da una parte di richiamare a non lasciarsi catturare da facili slogan proprio noi, quegli europei che più volte nel corso del XX secolo avemmo modo di sperimentare concretamente la solidarietà degli Stati Uniti d'America. Dall'altra occorreva mettere le élite culturali dinanzi alle loro responsabilità, affinché non sviluppassero oltre contrapposizioni e allergie, che non hanno giustificazioni reali e nello stesso tempo inquinano i giudizi, alimentando uno spirito oppositivo. Colpì allora che, dinanzi a questo invito palese a voler riscoprire le ragioni di una profonda vicinanza tra Stati Uniti ed Europa, non si levassero pubblicamente voci discordi, neppure da parte di quegli ambienti in cui l'antiamericanismo era più radicato.
Segno forse che le argomentazioni addotte reggevano, ma soprattutto che il momento era davvero coinvolgente. Tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che solo per questa vicenda terroristica si rettificasse d'amblé una mentalità niente affatto marginale. Diciamo tuttavia che la vicenda delle Torri Gemelle diede una scossa poderosa al fascio di sentimenti che storicamente ci legano all'Occidente e in particolare al grande Paese a stelle e strisce. Argomenti diventati più stringenti e una maggior lucidità di giudizio hanno di fatto prodotto un ampio disincanto rispetto a ragionamenti avvertiti come vaghi e pregiudiziali. Abbiamo motivo di pensare che il lavorio allora avviato non si sia interrotto, nonostante che, con la decisione di dichiarare guerra all'Iraq di Saddam Hussein, Bush abbia certo fornito motivo per critiche solo in parte nuove alimentate al tradizionale armamentario anti-Usa. Intanto l'Occidente non era più solo un punto geografico, diventando piuttosto un'appartenenza che esponeva certo a rischi ma che di fatto favoriva una più distinta e caratteristica identificazione. Più Consapevoli di ciò che non Può Mancare? L'orrenda carneficina dell'11 settembre portava in sé, tra gli altri, il segno di un'assurda indifferenza verso la vita umana specificamente intesa.
Il proposito di morte che non trovò ostacoli nel decidere di spezzare migliaia di esistenze doveva necessariamente impressionare. C'è un portato della nostra cultura, anche empiricamente analizzata, che induce a calcolare come ineguagliabile ogni vita umana, che per questo ha dei diritti incomprimibili. Uno degli interpreti più efficaci della cultura europea, Johan Huizinga, ha scritto che la centralità etica della persona è il referente primario e il principio di identificazione di questa identità. Era in qualche modo fatale che, a fronte di una concezione nichilista della vita umana, incarnata dal terrorismo islamista, dovessimo interrogarci sulla comune umanità, ma anche sulla specificità delle differenze culturali. Ed era naturale che sentissimo, come occidentali, il bisogno di estrarre da una memoria confusa l'anima della nostra civiltà, che in ultima analisi è un'anima cristiana. E la enucleassimo meglio, per essere da noi stessi percepita e cullata, e dove necessario difesa.
Ma anche per farla conoscere e possibilmente apprezzare pure ai nostri nuovi in realtà antichi interlocutori che il divenire storico ci pone accanto. Nessuno evidentemente vuole qui negare i processi di secolarizzazione da molto tempo in atto in Occidente, e oggi per vari aspetti più radicali che nel passato. Così come nessuno può negare l'indole spiccatamente universalistica del Cristianesimo stesso, come messaggio di salvezza rivolto concretamente a tutte le genti e capace di incarnarsi nelle culture più diverse. E, d'altra parte, gli eventi tragici di cinque anni fa non potevano non porre con evidenza nuova la questione del rapporto specifico tra Occidente moderno e Cristianesimo. Proprio perché la coscienza di questo rapporto aiuta a cogliere e meglio riconoscere anche i tratti di altre civiltà, diverse dalla nostra eppure vitali, dobbiamo evitare di pensare che solo da un livellamento religioso possano partire le strade del futuro. Certo l'11 settembre ha approfondito la distinzione tra chi ha una visione della religione distinta dalla politica, e chi auspica un legame troppo stretto tra i due livelli di esperienza umana. Tuttavia sarebbe un tragico errore pensare che all'Islam serva una cura forzosa di laicizzazione sul modello occidentale. Si è ad esempio utilmente sottolineato che proporre alle donne islamiche un modello di emancipazione basato sulle battaglie femministe tipicamente occidentali, incentrate su superamento del matrimonio, contraccezione e aborto, sortisca l'effetto contrario a quello desiderato, perché tra l'altro rafforza l'immagine di un Occidente corrotto, moralmente squalificato, che contagia con i suoi costumi l'integrità islamica. Conseguenza diretta di una simile evoluzione è, da parte delle comunità islamiche, un arroccamento ancora più marcato e più ostile. Una presenza etnica molto segnata dal proprio credo come quella islamica ha in genere posto il problema del corrispettivo occidentale. Sarà un caso ma dopo l'11 settembre è stato rilevato un aumento della pratica religiosa negli Stati Uniti, dove essa è già complessivamente più alta rispetto alle medie europee. Difficile dire oggi quanto resti di quella intensificazione cultuale. Sicuramente però l'attacco di Al-Qaida ha rafforzato le tendenze politico-culturali dette neo-conservatrici e il ruolo della religione sulla scena pubblica. Ricadute di questa evoluzione sono facilmente registrabili anche in Europa, e in particolare in Italia. I teo-cons, fenomeno assai meno eccentrico di quanto i vecchi schemi progressisti vorrebbero far credere, rappresentano oggi un'esperienza interessante in sé e corroborante per le componenti cattoliche, che sul piano dei valori razionali si trovano ora meno sole e marginali rispetto a un recente passato. Tuttavia, le onde concentriche che si sono via via allargate a partire dal Ground Zero hanno da noi prodotto consapevolezze nuove anche sul fronte più squisitamente religioso.
È risultato molto più chiaro che l'eredità culturale di una religione in special modo di una religione incentrata su una precisa fede, come il Cristianesimo non può durare, o meglio è fatalmente destinata a estinguersi là dove essa non sia più creduta e praticata. Si annida qui una coscienza più vigile da parte delle comunità cristiane, crogiuolo irrinunciabile di fede e di cultura, di identità e accoglienza. Oggi infatti si è ragionevolmente più propensi a ritenere che una società laica non sia fatalmente avvantaggiata dai moduli dell'irrilevanza religiosa. Si intuisce che nella società multirazziale si vivrà meglio non adottando gli schemi dell'indifferenza culturale, ma piuttosto dall'adozione di comportamenti rispettosi delle specifiche sensibilità, a partire dallo scambio capillare delle ricchezze di ciascun credo. Le "feste dei popoli" che a macchia d'olio si stanno propagando nelle nostre città, lungi dall'essere solo un'occasione di spettacolo etnico, in realtà insinuano nelle psicologie e nei comportamenti quotidiani una nuova mentalità giocata sull'accoglienza e l'integrazione possibili. In questo scenario inedito, anche la posizione di quelli chiamati "laici" dovrà essere riconsiderata da loro stessi anzitutto, grazie alla percezione sempre più diffusa che le appartenenze religiose non sono il residuato di vissuti stanchi ma irrigazione di comportamenti virtuosi, chiamati alla convivialità. Meglio Disposti al Cambiamento? Dove però lo spartiacque dell'11 settembre è convocato per analisi più intrusive, è sul piano dei conseguenti mutamenti pubblici e politici, i soli in grado di documentare un'assimilazione concreta e partecipata degli input desumibili dalla storia. Si registrerebbero qui, in questo ambito, le scelte destinate a incidere di più, in quanto proiezione intensificata delle opzioni operate da tanti singoli cittadini. Come negare infatti che davanti a simili tragedie venga messa a nudo l'inconsistenza di tanti aspetti banali e inautentici del nostro stile di vita, personale sì, ma anche collettivo? Non è un caso che si siano collocati lungo questo orizzonte anche i messaggi più significativi provenienti dal magistero cattolico. In particolare quelli lanciati da Giovanni Paolo II, che all'indomani della tragedia già suggeriva di guardare alle condizioni di ingiustizia come all'ambito risolutivo anche per tanta violenza presente nel mondo, compreso il terrorismo.
Di fare cioè un esame di coscienza personale e collettivo. E nel viaggio apostolico in Armenia, che volle mantenere nella data fissata benché fosse a ridosso alla fine dello stesso mese di settembre della tragedia newyorkese, insistette sulla consapevolezza che: «La pace può nascere solo dalla giustizia». Tema che sarà ampiamente sviluppato poi nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace del 1° gennaio 2002, pubblicato con un titolo assai eloquente: Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono. In questo senso si esprimeva pure la lettera pastorale dei vescovi americani Vivere con fede e speranza dopo l'11 settembre pubblicata appena qualche giorno dopo il tragico evento. Particolarmente esplicito il pensiero papale a un anno di distanza dall'11 settembre 2001. Chiarito che il terrorismo è comunque una manifestazione di disumana violenza, che come tale non potrà mai risolvere i conflitti tra gli esseri umani, Giovanni Paolo II avvertiva: «È tuttavia necessario ed urgente uno sforzo concorde e risoluto per avviare nuove iniziative politiche ed economiche capaci di risolvere le scandalose situazioni di ingiustizia e di oppressione, che continuano ad affliggere tanti membri della famiglia umana, creando condizioni favorevoli all'esplosione incontrollabile del desiderio di vendetta. Quando i diritti fondamentali sono violati è facile cadere preda delle tentazioni dell'odio e della violenza». E concludeva: «Bisogna costruire insieme una cultura globale della solidarietà, che ridia ai giovani la speranza nel futuro». In altre parole, la tragica spirale del terrorismo, alimentata dall'odio, dall'isolamento e dalla sfiducia, può essere spezzata solo con un cambio di registro nella politica internazionale, con un diverso rapporto tra le nazioni ricche e quelle povere. «Non è possibile dirà ancora Papa Wojtyla ignorare ulteriormente le cause che spingono giovani in condizioni disperate a cadere preda delle tentazioni della violenza e dell'odio con il desiderio della vendetta ad ogni costo».
È il messaggio fondamentale che le Chiese cristiane hanno sviluppato nel corso di questi anni, un messaggio tanto generale a giudizio di taluni da sembrare un'esortazione di tipo pre-politico. E invece siamo qui in presenza di un'indicazione che ha in sé il massimo della densità etica e politica insieme. Tra i cambiamenti auspicabili, da parte dell'Occidente, c'è una nuova definizione delle priorità della vita sociale. Il sottosviluppo e la povertà oggi costituiscono infatti l'altra faccia dell'opulenza occidentale, e sono quindi uno snodo ineludibile, al pari dell'abbattimento dei dazi e delle condizioni di pagamento del debito pubblico. In sostanza, di fronte alla gravità, alle dimensioni e alle implicanze di ciò che era accaduto, non potevano non ricevere un forte impulso a riemergere quei contenuti di senso di una comune appartenenza e di un comune destino tra tutti i popoli della terra, quei contenuti di solidarietà e di coraggio che solo possono determinare una svolta nella vita delle nazioni. C'è un problema di serietà circa la vita e la morte su cui non solo si può costruire una possibile "sicurezza" interna alle nazioni ma anche una migliore, più realistica capacità di affrontare le sfide comuni. Quanto di questi inviti è stato raccolto e metabolizzato dai popoli dell'Occidente, dai loro politici, dai loro media? Difficile dirlo. Si tratta pur sempre di processi che, anche quando effettivamente si dispiegano, possono non dare immediati segnali di cambiamento. Ma dobbiamo augurarci che qualcosa di importante stia avvenendo oltre la visibilità di superficie, nell'effettiva realtà delle cose, quale è per esempio il piano educativo. A occhio nudo è dato di cogliere che c'è oggi un'inquietudine inedita e una sensibilità nuova, anche nella comunità cristiana, verso le questioni relative all'equità mondiale. Verso la ricerca di soluzioni sociali ed economiche, di commercio e di credito, effettivamente declinate secondo i criteri di una maggior giustizia. Se sarà così, se cioè registreremo a partire da questi segnali e dal contagio che può nascerne una rinnovata assunzione di responsabilità a livello sia nazionale che internazionale, allora potremo dire annotava il 23 settembre 2001 il Cardinal Ruini che «la provvidenza misericordiosa di Dio avrà ricavato un bene anche da questo enorme male», che sulla faccia della terra si scatenò l'11 settembre 2001.