Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:40
È evidente che, se vogliamo evitare questa deriva [proceduralista], non possiamo considerare il piano deliberativo come l’unica modalità di espressione del “civile”. Bisogna fare un passo in più e considerare, come spiegano Donati e Colozzi, che una società è civile se e nella misura in cui favorisce il fatto che le persone umane, al di là delle loro diversità fisiche, sociali, economiche, politiche e culturali, «pratichino il reciproco riconoscimento di una comune e unica dignità, nella sfera pubblica come in quella privata». In questo le religioni devono giocare un ruolo fondamentale. In che senso? Occorre essere precisi: dal momento che oggi le democrazie sono in deficit di solidarietà, c’è la tendenza a ripescare la religione come puntello motivazionale, riducendola cioè a supporto psicologico di un’etica pubblica in crisi. […]
Ora, quando parliamo di ruolo pubblico delle religioni non intendiamo avallare la concezione pragmatistica. È chiaro, infatti, che la riduzione funzionalistica del religioso al politico comporta una deriva immanentistica: ridotta a mero collante sociale, alla religione viene negato il suo contenuto più proprio, cioè l’essere – come sostiene Donati ¬– «capace di trascendenza, nel rapporto con la realtà e con la verità sull’essere umano». […] Ciò determinerebbe l’impossibilità di garantire ontologicamente l’esperienza dell’alterità come esperienza di una distanza: a quel punto, non ci sarebbe limite all’uso che possiamo fare dei nostri simili, persino quando abbiamo la buona intenzione di riconoscerli. Come ha mostrato bene Badiou, se eliminiamo la dimensione religiosa come condizione della relazione, il riconoscimento reciproco si trasforma nel “diventa come me e io rispetterò la tua differenza”. Ecco perché Donati afferma che «il requisito della capacità di trascendenza è indispensabile per il riconoscimento e la salvaguardia della dignità umana».
Che senso ha, allora, attribuire un ruolo pubblico alle religioni, tenendo conto di tale requisito? Ci sembra necessario andare oltre il semplice contributo motivazionale, per affermare il potenziale cognitivo del religioso: bisogna - cioè - misurarsi con i contenuti e i significati interni alle religioni, non negando a priori il contributo che può derivarne nell’elaborare quella “comune e unica dignità” che costituisce la vita buona. Naturalmente, questo non può significare che i contenuti e i significati religiosi possano essere riproposti come tali nella sfera pubblica: c’è una questione di traduzione da mettere in conto, sulla quale dovremo riflettere.
Ma - prima ancora di questo -, dobbiamo mettere in discussione due luoghi comuni, condivisi da buona parte della cultura liberale:
(1) i contenuti delle religioni, essendo contenuti di fede, sono opposti alla dimensione del sapere. Dunque, ciò che una religione dice vale solo per chi si riconosce in essa;
(2) l’autoreferenzialità delle religioni, dovuta alla loro intrinseca irrazionalità, conduce a un’idea di laicità intesa come negazione di ogni riferimento religioso: sono ammesse solo quelle forme di sapere in grado di farsi capire potenzialmente da tutti.
Ora, contro (1), è necessario tratta di ammettere - come fa ad esempio Habermas - che le religioni hanno «uno status epistemico che non è irrazionale in modo assoluto». Solo ammettendo questo punto, siamo in grado di stabilire - contro (2) - la possibilità di un «recupero di contenuti cognitivi dalle tradizioni religiose», vale a dire di «contenuti semantici che si possono tradurre in un discorso affrancato dall’effetto bloccante delle verità rivelate». Vediamo meglio in che senso.
C’è una differenza tra il piano della dogmatica interna a una singola religione (che resta una questione “privata” di ortodossia) e il piano pubblico del dialogo con le altre religioni, che invece implica l’onere di riformulare i propri codici simbolici in codici che siano comprensibili anche per altri. Il fatto che questa riformulazione pubblica sia possibile dipende dallo status epistemico non irrazionale; detto in termini rawlsiani, dipende dalla ragionevolezza delle “dottrine comprensive religiose”, cioè dalla loro capacità di introdurre nella discussione pubblica delle «ragioni propriamente politiche - e dunque non ragioni date esclusivamente da dottrine comprensive - sufficienti a sostenere ciò che si dice sostenuto dalle dottrine comprensive». Che questa riformulazione pubblica sia anche necessaria - a dispetto dell’idea di laicità come neutralizzazione del religioso - lo dimostrano i tempi che stiamo vivendo: «è ormai un dato consolidato - fa notare giustamente Scola - che l’emarginazione della religione dalla sfera sociale non è accettabile da quelle culture non europee in cui la religione è essenzialmente un fatto pubblico».
Da tutto ciò consegue che parlare di ruolo pubblico delle religioni significa pensare l’idea di una sfera pubblica religiosamente qualificata: si tratta - come spiega ancora Donati - della società civile definita come «il campo di incontro fra soggetti che entrano in scambi sociali (di mercato e di integrazione sociale) non già privati delle proprie appartenenze religiose, ma invece qualificati da tali appartenenze […]. È il luogo della relazionalità civile elaborata dalle stesse religioni nel momento in cui agiscono fuori di se stesse, attraverso l’influenza che hanno sugli attori sociali».
Pensiamo, ad esempio, al mistero - in radice cristiano - della Trinità: abbiamo visto - con Rosmini - che tale verità è esigita per pensare fino in fondo la relazionalità/filialità umana. Ma come può questo riferimento trinitario, questo principio della differenza nell’unità, diventare anche pubblicamente rilevante? Il punto è che questo principio - come spiega Scola - «trapassa, in forza dell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, nella storia per diventare, secondo la legge dell’analogia, principio di comprensione e valorizzazione di ogni differenza. Questa, sia a livello personale che comunitario, non viene solo tollerata, ma esaltata, perché trattenuta in unità da quella Verità […] che giunge fino all’estrema Thule dell’umana esperienza, impedendo che la differenza, anche la più radicale, degeneri in fattore di dissoluzione più o meno violenta».
È, dunque, la legge dell’analogia a regolare la traducibilità del riferimento trinitario in principio pubblico di convivenza, evitando sia il rischio di fondamentalismo, sia la deriva pragmatista: non si tratta, infatti, di proporre un dogma, né di approdare all’idea di una religione civile; si tratta invece di elaborare il potenziale di verità sull’umano racchiuso in un significato religioso, al fine di rendere possibile «una sfera di laicità religiosamente ispirata» (Donati).
Al di là di tutte le «chiacchiere postmoderne» - così le definisce Habermas -, questo è ciò che è accaduto nella storia dell’Occidente: «Per l’autocomprensione normativa della modernità, il cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L’universalismo egualitario - da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, autonoma condotta di vita ed emancipazione, coscienza morale individuale, diritti dell’uomo e democrazia - è una diretta eredità dell’etica ebraica della giustizia e dell’etica cristiana dell’amore».
* Estratto del libro di Paolo Gomarasca,
Meticciato: convivenza o confusione?, (Marcianum Press, Venezia 2009)Capitolo VI, pp. 177-181
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