Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:43:07
Il 19 aprile scorso la Corte costituzionale indonesiana ha pronunciato la sentenza tanto attesa: dopo quasi due mesi di udienze ha respinto il ricorso, presentato da alcune organizzazioni non-governative, per ottenere la dichiarazione di incostituzionalità della legge sulla blasfemia del 1965.
Tra i ricorrenti figurava la Commissione nazionale dei diritti umani, ma la petizione era sostenuta anche dalla Conferenza Episcopale Indonesiana e dal Consiglio delle Chiese protestanti. Contro di loro si sono coalizzati il governo e organizzazioni musulmane di varie tendenze. Mentre i ricorrenti sostenevano che la legge trasgredisce la libertà religiosa così come questa è formulata nella Costituzione, i fautori della legge hanno voluto mettere in guardia dalle conseguenze nefaste che potrebbero far seguito alla sua dichiarazione di nullità. In sua assenza, affermano, le persone – cioè i musulmani – potrebbero decidere di farsi giustizia da soli, ciò che finirebbe prevedibilmente per innescare violenze contro le minoranze.
Benché i ricorrenti abbiano schierato dalla loro un cospicuo gruppo di esperti, tra cui alcuni stimati intellettuali musulmani, la loro posizione è stata indebolita dal fatto che indù, buddisti e confuciani si sono uniti agli oppositori, affermando che senza la legge essi si troverebbero completamente privi di protezione legale.
Ma di cosa si trattava? Nel 1965, mentre crescevano le tensioni tra musulmani e comunisti, per guadagnarsi il consenso dei musulmani l’allora Presidente Sukarno, emise un decreto, successivamente convertito in legge, che non solo proibiva le offese alle religioni, ma metteva fuori legge tutte le fedi e movimenti religiosi non inclusi nelle cinque religioni ufficialmente riconosciute (Islam, Protestantesimo, Cattolicesimo, Induismo e Buddismo, ai quali è stato più tardi aggiunto il Confucianesimo). Il decreto era rivolto innanzitutto contro i cosiddetti movimenti della vita interiore, comunità mistiche molto popolari tra i giavanesi e che i musulmani ortodossi consideravano una minaccia nei confronti dell’Islam.
Da allora diversi movimenti musulmani eterodossi, tra i quali la setta Achmadiyah, sono stati proibiti. La Achmadiyya vive pacificamente in Indonesia dal 1920, ma da cinque anni a questa parte è diventata vittima di attacchi brutali da parte di folle islamiche. La legge implica anche che gli aderenti alle religioni indigene, come la religione Marapu dell’Isola di Sumba, non possono sposarsi legalmente, con la conseguenza che i loro figli non possono essere considerati eredi legali.
Gli oppositori della legge hanno affermato che avere un credo diverso da quello di una religione prevalente non rientra in un caso di blasfemia, che lo Stato non è nella posizione per decidere se un credo religioso è eterodosso e che il riconoscimento di sole sei religioni trasgredisce la libertà religiosa così come contenuta nella Costituzione indonesiana.
La decisione della Corte costituzionale è un’altra vittoria dei musulmani più rigoristi e un segno della remissività dello Stato. Essa non riguarda direttamente le minoranze religiose ufficialmente riconosciute, ma apre ulteriormente le porte alla pressione islamica contro i gruppi islamici minoritari e le sette mistiche.