Il Corano contiene il racconto del sacrificio del figlio di Abramo. Questo episodio, che ha attirato l’attenzione di numerosi commentatori, tra cui il celebre al-Tabarī, si presta a essere letto alla luce delle categorie antropologiche elaborate dallo studioso francese René Girard
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:00
Questo articolo fa parte della serie “L’angolo dei giovani studiosi”, che raccoglie contributi scritti da promettenti neo-laureati a partire dalle loro tesi.
Maria Malacrida ha conseguito la laurea triennale in Scienze linguistiche per le Relazioni internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, con una tesi sull'esegesi di al-Tabarī del sacrificio del figlio di Abramo, relatore: prof. Martino Diez.
Ogni anno il decimo giorno del mese islamico di Dhū al-Hijja, milioni di fedeli musulmani in tutto il mondo si radunano per celebrare una delle feste più importanti e partecipate nell’Islam, la Festa dei Sacrifici (‘Īd al-Adhā). Il fulcro delle celebrazioni, che s’inseriscono nei riti del pellegrinaggio, è la macellazione rituale di un animale da parte del capo famiglia, che poi distribuisce la carne dell’animale tra la famiglia e i vicini per banchettarne insieme, dando vita a un momento di intensa convivialità.
Sebbene questa festività non abbia corrispettivi nella tradizione cristiana e possa immediatamente apparire lontana dalla nostra sensibilità, l’episodio da cui lo ‘Īd al-Adhā prende le mosse è l’omologo coranico della narrazione del sacrificio del figlio di Abramo, che la tradizione musulmana ha progressivamente identificato con Ismaele. L’episodio, raccontato nella sura 37[1], verrà ripreso nei tafsīr (commentari coranici) di numerosi esegeti musulmani, che lo spesso lo interpreteranno alla luce del racconto della Genesi (22,1-13).
Un evento tragico
Tra gli esegeti più famosi dei primi secoli spicca senza dubbio l’arabo-persiano Muhammad Ibn Jarīr al-Tabarī (Amūl 839 - Baghdad 923)[2]. Studioso di incredibile erudizione, la sua conoscenza delle discipline religiose comprendeva, oltre all’esegesi coranica, la giurisprudenza islamica (fiqh), in cui diede vita a una propria scuola giuridica (madhhab) oggi estinta, e lo studio degli hadīth, spaziando fino alla medicina, alla storia e alla poesia araba. Nel suo celebre Tafsīr, in cui si trova il racconto dell’episodio del sacrificio, l’autore identifica il figlio immolato in Isacco, distanziandosi in questo dalla tradizione maggioritaria nell’Islam:
Quando Isacco crebbe, Abramo ricevette una visione nel sonno e gli fu detto: «Porta a compimento il voto che hai fatto. Dio ti ha dato in dono un giovane da Sara perché tu lo immolassi». Allora Abramo disse a Isacco: «Andiamo a presentare la nostra offerta a Dio» poi prese un coltello e una corda. Quindi, arrivati tra le montagne, il figlio gli disse: «Padre mio, dov’è la tua offerta?». «Gli disse: “Figlio mio, ho visto in sogno che ti sacrificavo; considera tu cosa ne pensi”. Rispose: “Padre mio, fa’ quel che ti è ordinato e, se Dio vuole, mi troverai paziente”» (37,102). Isacco gli disse: «Padre mio, stringi i miei legacci, così da non permettermi di muovermi, e tienimi lontano dalla tua veste, affinché non si imbratti di una sola goccia del mio sangue, altrimenti Sara potrebbe vederlo e rattristarsi. Affrettati a passare il coltello sulla mia gola, così che la morte arrivi più veloce su di me, e quando sarai arrivato da Sara portale il mio saluto». Abramo prese a baciarlo dopo averlo legato e piangeva, e Isacco piangeva insieme a lui, fino al punto che le lacrime sotto la guancia di Isacco si inzupparono[3].
Tabarī descrive la scena con grande partecipazione emotiva, soffermando la narrazione sull’immenso dolore del patriarca e del figlio di fronte all’incomprensibile comando di Dio. Attraverso l’abile intreccio dei versetti coranici, il commentatore riesce a creare una scena potentemente tragica e letterariamente convincente.
L’innocenza della vittima
È proprio in forza di questa dimensione tragica che sembra possibile applicare al racconto di Tabarī (e al suo archetipo coranico) le teorie antropologiche dello studioso francese René Girard, riconvertitosi al Cristianesimo nel 1979[4]. Nei suoi studi del religioso primitivo, in particolare quello greco, Girard rileva nell’assassinio del «capro espiatorio» il meccanismo messo in atto dal mito per dirottare la rivalità violenta sempre presente nella comunità verso una vittima innocente, la cui uccisione contribuisce a ristabilire l’ordine culturale mediante l’istituzione di nuove pratiche rituali. Girard osserva come, nella storia umana, la tradizione biblica sia stata la prima a schierarsi dalla parte della vittima, condannando apertamente i sacrifici umani[5], messi in atto dagli uomini per sacralizzare la propria stessa violenza. Nelle figure degli innocenti che popolano le pagine della Bibbia, Dio, mettendosi dalla parte della vittima, rimarca l’autenticità della sua trascendenza e la statura della sua divinità, altra cosa rispetto alla violenza sacrificale del mito.
Questa prospettiva è presente anche nella narrazione coranica. Così, nel risparmiare il figlio, Dio stesso si rivela a Abramo introducendolo a un rapporto autentico con la divinità. Nella parole di Tabarī:
Poi Abramo mise il coltello sulla gola di Isacco, ma non fece in tempo a farlo scorrere perché Dio scaraventò una tavola di rame sulla gola di Isacco. Allora cercò di inciderlo dalla nuca e a questo si riferiscono le parole: «Quando si furono rassegnati – cioè: si furono sottomessi alla disposizione di Dio – egli lo distese con la fronte a terra – poi una voce lo chiamò: – “Abramo, hai avverato il tuo sogno”» (37,105). Abramo si voltò, ed ecco, c’era un montone. Egli lo prese, lo diede al posto di suo figlio, e si chinò a baciarlo dicendo: «Oggi, figlio mio, mi sei stato ridonato». Per questo motivo Dio disse: «Lo abbiamo riscattato al prezzo di un sacrificio enorme» (37,107).
La vicenda del sacrificio e la sua commemorazione nella festa di ‘Īd al-Adhā sono dunque occasioni per i musulmani per ricordare l’alleanza tra il Dio Misericordioso e i suoi fedeli, iniziata in maniera singolare nella rivelazione sul monte al profeta Abramo.
La consuetudine mitica di riabilitare le vittime sacrificali dopo la loro morte, divinizzandole come sacri protettori del nuovo ordine culturale, è per Girard lo specchio di un processo perverso: venerando la vittima sacrificale, gli uomini venerano la loro stessa violenza. A questo livello si inserisce la forza rivoluzionaria del testo biblico, che nel bandire i sacrifici umani sta in realtà proibendo la divinizzazione delle vittime, una pratica che, in un’ottica monoteistica, ha una radice fondamentalmente menzognera.
In questo senso quindi la Bibbia, condannando il sacrificio, non solo si fa portatrice di una nuova prospettiva nel rapporto vittima-carnefice che, svelando l’innocenza della vittima espiatoria, ha una portata rivoluzionaria a livello antropologico e morale – Girard stesso afferma che la vera caratteristica che distingue la cultura occidentale è la cura per le vittime, nata nell’alveo della rivelazione giudaico-cristiana[6] –, ma rimarca ancora una volta l’unicità assoluta e l’assoluta trascendenza della divinità, che non può essere in alcun modo assimilata alla violenza umana. La Bibbia, opponendosi a quel politeismo che genera tanti nuovi dèi quanti sono gli assassini fondatori, condanna i culti tradizionali come fondamentalmente idolatrici, poiché gli uomini, sacralizzando la violenza, venerano loro stessi, invece di rivolgersi all’Unico che è veramente sacro e trascendente:
La critica al mimetismo collettivo è una critica al congegno capace di produrre divinità. Il meccanismo vittimario è un abominio puramente umano, ma ciò non vuol dire che il divino scompaia o si indebolisca. La rivelazione biblica è innanzi tutto scoperta di una dimensione divina che non è più quella degli idoli della violenza collettiva. Il divino non si indebolisce separandosi dalla violenza, ma acquista più importanza che mai nella persona del Dio unico, Yahweh, che lo monopolizza completamente, e in nessun modo dipende da quanto avviene fra gli uomini[7].
Ciò che libera l’uomo dalla violenza senza fine è dunque, ieri come oggi, l’adesione ad un sacro autentico, quello del Dio unico delle religioni monoteiste che alla cieca violenza umana risponde in una maniera radicalmente diversa, «rimproverando agli uomini la loro violenza e provando pietà per le loro vittime[8]». Anche l’Abramo del Corano s’iscrive in questa dinamica.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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