Il dibattito che è seguito alla vicenda della ragazza pakistana si è concentrato sul ruolo della religione. Per capire questo caso, però, più che al Corano o alla Sunna, bisogna guardare al Paese d’origine della giovane e a episodi simili verificatisi in altri contesti europei

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:35

Come spesso avviene quando i riflettori mediatici si posano su eventi che toccano il rapporto tra Islam e violenza o tra Islam e donne, il dibattito sulla triste vicenda di Saman Abbas, la ragazza pakistana probabilmente uccisa dalla famiglia per essersi opposta al matrimonio combinato con un cugino, è stato intenso ma poco approfondito. Ci si è concentrati sulla dimensione religiosa, confermando la tendenza a discutere di Islam e società musulmane soprattutto in termini di sicurezza e ordine pubblico. Alcuni non hanno esitato a etichettare l’accaduto come un omicidio islamista, senza peraltro fornire argomenti a sostegno di questa conclusione. Come ai tempi degli attentati jihadisti, i musulmani italiani sono stati invitati a rendere conto dell’accaduto, sorvolando sul fatto che la maggior parte di essi è composta da sunniti, mentre la famiglia di Saman era sciita. Le principali organizzazioni islamiche italiane sono prontamente intervenute esprimendo la propria condanna. Per chiarire che l’Islam proibisce i matrimoni forzati è stata addirittura emessa una fatwa, uno strumento forse non del tutto opportuno viste le incomprensioni che lo circondano, ma che intendeva probabilmente segnalare una presa di distanza particolarmente netta.

 

Prima che ai testi sacri dell’Islam, però, per provare a spiegare questa tragedia conviene guardare al Paese d’origine di Saman, il Pakistan. Due dati colpiscono in particolare. Il Paese asiatico detiene infatti il poco invidiabile primato di delitti d’onore commessi sul suo territorio, generalmente contro donne accusate di adulterio o che si sposano senza il consenso della famiglia: più di mille all’anno, un quinto di quelli perpetrati a livello mondiale secondo diverse istituzioni internazionali e organizzazioni non governative. In Pakistan questa fattispecie è stata criminalizzata con alcuni interventi legislativi, ma continua a verificarsi e a essere approvata socialmente soprattutto nelle zone tribali del Paese. In questo contesto, il Consiglio dell’Ideologia Islamica, l’organo costituzionalmente deputato a verificare la conformità islamica della legislazione pakistana, ha svolto un ruolo ambivalente: da un lato si è espresso chiaramente contro il delitto d’onore, affermando che l’innocenza o la colpevolezza di una persona vanno accertati da un tribunale e non possono essere affidati a procedimenti extra-giudiziali; dall’altro ha ostacolato l’adozione di misure tese in generale a impedire la violenza contro le donne. Nel 2016 un altro influente ente religioso pakistano, il Sunni Ittehad Council, ha emesso una fatwa che afferma l’illiceità tanto del matrimonio forzato quanto del delitto d’onore, definito un peccato grave.

 

L’altro elemento da tenere in considerazione è il numero di matrimoni endogamici, cioè fra membri della stessa comunità, compresa quella famigliare, una pratica funzionale al mantenimento della coesione del gruppo. Secondo i dati riportati da Youssef Courbage e Emmanuel Todd nel loro L’incontro di civiltà, un saggio che analizza l’evoluzione del mondo musulmano attraverso la lente delle strutture famigliari e della demografia, all’inizio degli anni ’90 il tasso di endogamia in Pakistan era del 50%. Un livello altissimo, superato nel mondo musulmano soltanto dal Sudan (57%). Si tratterebbe secondo i due studiosi di un portato della cultura araba, in cui il matrimonio ideale, detto appunto “arabo”, è quello con la cugina paterna. Tale consuetudine si sarebbe affermata anche nell’odierno Pakistan sull’onda della prima espansione islamica, grazie al prestigio sociale di cui godevano i conquistatori arabi. Ma la pratica è più antica, trovandosi già nelle civiltà mesopotamiche, da cui probabilmente è poi passata in quella araba. Non sono stati dunque né il Corano né la Sunna a produrre questa cultura, che infatti non si ritrova in altre aree del mondo musulmano, come l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale, in cui l’Islam non è arrivato all’epoca della conquista araba ma in un secondo momento, viaggiando lungo le rotte commerciali. La religione si è piuttosto adattata alle tradizioni locali. A differenza del Cristianesimo, per esempio, che ha sviluppato una definizione piuttosto estesa di incesto, l’Islam, innestatosi su una realtà tribale, non scoraggia il matrimonio tra cugini di primo grado.

 

In tempi più recenti, poi, lo statuto della donna è stato penalizzato dal clima generato dalle politiche d’islamizzazione attuate tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 del generale Zia-ul-Haq. Uno studio sui delitti d’onore nella regione del Sindh suggerisce a questo proposito che lo sviluppo di una vasta rete di madrase e la promulgazione di leggi ispirate alla sharī‘a, tra cui i provvedimenti sulla fornicazione, abbiano contribuito ad alimentare una cultura fortemente patriarcale.

 

Ciò non consente però di stabilire un rapporto di causalità diretta tra norme islamiche e delitto d’onore. Come ha evidenziato lo studioso musulmano americano Jonathan Brown, è vero che nel codice penale di molti Paesi musulmani, e in particolare di quelli arabi, tale fattispecie non costituisce un reato o beneficia di sostanziali attenuanti. Ma questi codici s’ispirano al codice penale ottomano del 1858, che a sua volta replica il codice penale francese del 1832. E la legislazione pakistana che ha criminalizzato il delitto d’onore ha corretto il codice introdotto dai britannici nel 1860 in India, che stabiliva invece delle attenuanti per il marito che avesse ucciso la moglie in seguito a «improvvise e gravi provocazioni». Ancora Brown riporta l’opinione di diverse autorità musulmane che, nonostante le differenze di epoca, confessione e orientamento, concordano nel denunciare questo crimine come contrario all’Islam.

 

Non si tratta peraltro di una prerogativa delle comunità musulmane. Solo per fare qualche esempio, in India il numero dei delitti d’onore è simile a quello che si registra in Pakistan; nell’Alto Egitto, la sua frequenza statistica non conosce differenze tra famiglie cristiane copte e famiglie musulmane; tra i curdi, il fenomeno non è limitato ai musulmani ma coinvolge anche gli yazidi.

 

È vero invece che la violenza motivata dalla preservazione dell’onore del gruppo può crescere nei contesti in cui i processi di modernizzazione e l’evoluzione dei costumi generano una tensione tra valori tradizionali, fondati sul primato della comunità, e valori della modernità, incentrati invece sul primato della coscienza individuale. È quanto sembra essersi verificato negli ultimi anni in Pakistan e si può osservare nel contesto dell’immigrazione, dove più facilmente si producono conflitti generazionali tra genitori legati alla cultura d’origine e figli che vogliono invece emanciparsi dai codici ancestrali.

 

A questo proposito, uno studio condotto del 2013 in comunità musulmane, indù e sikh del Regno Unito in cui si erano verificati delitti d’onore mostra che questa pratica non solo non riguarda specificamente l’Islam, ma tende a perpetuarsi anche fuori dal contesto di origine, perché legittimata da visioni del mondo che resistono ai cambiamenti più immediati, come la scolarizzazione delle ragazze o l’adozione di nuove forme di vestiario. Ciò significa per esempio che se in linea teorica l’istruzione è fondamentale per migliorare la condizione delle donne, non è detto che essa modifichi la loro posizione all’interno delle comunità di origine, dove le aspettative collegate ai ruoli ascritti (figlia, moglie, madre) possono prevalere sul valore assegnato ai ruoli acquisiti. Emblematico è il caso di Afsheen Musaratt, una ragazza pakistana di 22 anni, studentessa di informatica, strangolata nel 2003 dal padre avvocato perché questi considerava troppo disonorevole che la figlia avesse una relazione sentimentale non approvata dalla famiglia.

 

Non esistono dunque soluzioni immediate al problema. Occorre piuttosto mettere in campo uno sforzo congiunto, che contempli una precoce azione di tutela delle potenziali vittime e interventi culturali di più ampio respiro. È su questo sfondo che può essere invocato un impegno delle comunità musulmane europee, chiamate a svolgere un’importante opera di mediazione ed educazione, sottoponendo eventualmente a revisione quelle interpretazioni che, come ha scritto la femminista marocchina Asma Lamrabet, costringono le donne nel ruolo di «ultime guardiane del tempio della tradizione».

 

La vicenda di Saman Abbas ci riporta drammaticamente a un tema su cui Oasis riflette sin dai suoi esordi, delineato dal Cardinal Scola in un editoriale dei primi numeri della nostra rivista: «i processi storici sono anzitutto dell’ordine degli accadimenti e pertanto ultimamente imprevedibili e non dominabili. Tuttavia, per l’interazione e la durata dei fattori da cui sono costituiti, non solo possono essere sempre meglio conosciuti, ma anche, entro limiti non certo stabiliti a priori, orientati. Anche il processo di meticciato di civiltà e di culture, pur nel suo tumultuoso e spesso violento attuarsi, chiede di essere affrontato con questa positiva attitudine critica».

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 
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Per approfondire

 

Shahnaz Begum Laghari, Honour Killing in Sindh. Men's and Women's Divergent Accounts, University of York, York 2016.

Jonathan Brown, Islam is not the Cause of Honor Killings. It's Part of the Solution, Yaqeen Institute for Islamic Research, Irving 2016.

Youssef Courbage, Emmanuel Todd, Le rendez-vous des civilisations, Seuil, Paris 2007.

Recep Doğan, Is Honor Killing a "Muslim Phenomenon"? Textual Interpretations and Cultural Representations, «Journal of Muslim Minority Affairs» 31:3 (2011), pp. 423-440.

Recep Doğan, Honour Killings in the UK Communities: Adherence to Tradition and Resistance to Change, «Journal of Muslim Minority Affairs» 33:3 (2013) pp. 401-417.

Sujay Patel, Amin Muhammad Gadit, Karo-kari: a form of honour killing in pakistan, «Transcult Psychiatry» 45:4 (2008), pp. 683-94. 

 

 

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