Crescono le iniziative che offrono una rilettura dell’Islam secondo una prospettiva di genere. E con esso, aumentano anche i dibattiti
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:20:22
Nell’ultimo decennio è comparso un numero significativo di moschee guidate da donne, come la Inclusive mosque initiative nel Regno Unito, la Moschea aperta in Svizzera, la Moschea Mariam in Danimarca, la Moschea Ibn Rushd-Goethe in Germania e la Moschea Fatima in Francia, solo per ricordarne alcune. Tuttavia, le riletture dell’Islam secondo una prospettiva di genere avvengono anche al di fuori di queste istituzioni.
In un dibattito che ha avuto luogo il 23 marzo 2019, dopo la proiezione de Il riformista – un documentario sull’apertura della Moschea Mariam a Copenhagen – un’attrice e studentessa, Asil al-Asadi, ha manifestato la sua preoccupazione circa l’eventualità di innamorarsi di un non-musulmano:
«Ho raggiunto i 22 anni e ho molta paura di innamorarmi di un non-musulmano, perché questo determinerà se dovrò iniziare una lotta oppure no. Ho dovuto fare delle ricerche in proposito, per capire che posizione prendere nel caso in cui ciò dovesse avvenire»[1]
I musulmani costituiscono poco più del 5% della popolazione danese: c’è dunque una possibilità molto alta che al-Asadi, così come molte altre musulmane europee, si innamori di un non-musulmano ed è per questo che la ragazza ha fatto le sue ricerche sul tema. Ha riletto le norme sul matrimonio islamico e ha concluso che il divieto di sposare un uomo non-musulmano non è più valido nella società contemporanea, dal momento che le circostanze sono cambiate rispetto ai tempi di Muhammad. Questo tipo di interpretazioni è facilmente disponibile su internet e nella sempre più abbondante letteratura femminista islamica, che rilegge il Corano e le tradizioni su Muhammad (gli hadīth) da una prospettiva femminile.
Il tentativo di cambiare la percezione dei matrimoni interreligiosi tra una musulmana e un non-musulmano è molto più urgente in Danimarca che in Egitto
Le opinioni di al-Asadi sul matrimonio interreligioso non sono un caso isolato. In un sondaggio condotto tra i musulmani danesi a partire dal 2015, il 43,7% degli intervistati ha risposto affermativamente alla domanda «Accetteresti che tua figlia sposi un non-musulmano?»[2]. Peraltro il dibattito non è solo europeo: nel 2008, i famosi attori egiziani Adel Emam e Omar Sharif comparivano nel film Hassan e Marcus, nel quale i loro figli, una donna musulmana e un uomo cristiano, s’innamoravano una dell’altro. Il film ha suscitato un dibattito acceso sul matrimonio interreligioso e sulla coesistenza pacifica tra cristiani e musulmani in Egitto.
Gli esempi di al-Asadi e del film egiziano dimostrano una dinamica fondamentale di ogni religione: le credenze sono sempre interpretate in un momento specifico della storia e in un contesto locale. E questo vale anche per le posizioni conservatrici, che mettono l’accento sulla preservazione di determinati valori, considerati minacciati dalla modernità e/o dalla globalizzazione.
Il femminismo islamico è un fenomeno globale, ma non ha un ideale o un obiettivo comune per tutte le donne musulmane del mondo. È prodotto localmente e tratta questioni che sono rilevanti per le donne e per gli uomini che vi sono coinvolti. Il tentativo di cambiare la percezione dei matrimoni interreligiosi tra una musulmana e un non-musulmano, per esempio, è molto più urgente in Danimarca che in Egitto, a causa della composizione demografica delle rispettive popolazioni. Tuttavia, anche nel contesto europeo, il femminismo islamico assume diverse forme.
Un fenomeno eterogeneo
In Europa è piuttosto facile trovare istituzioni legate al femminismo islamico. Prendendo il caso danese, l’utilizzo del titolo di imam non è regolamentato e questo significa che chiunque può rivendicarlo, chiedere la licenza per la celebrazione di matrimoni e cominciare a celebrarli con pieno valore giuridico davanti alla legge danese[3]. Inoltre, il fatto che nell’Islam non ci sia una chiesa implica che gli imam non siano ordinati e che il matrimonio non sia considerato un sacramento. Si tratta di un contratto civile che può essere concluso senza la presenza di un imam. Esso non è dunque invalidato se è celebrato da una donna, dal momento che la celebrazione dell’imam non svolge alcun ruolo nella concezione del matrimonio della tradizione giuridica islamica.
Molte moschee femminili non dispongono di una collocazione stabile Nel contesto europeo, la principale sfida per le femministe islamiche è di gran lunga la mancanza di risorse economiche. Delle cinque moschee citate nell’apertura di questo articolo, soltanto la Ibn Rushd-Goethe occupa uno spazio permanente, mentre le altre costituiscono moschee temporanee che – come molte altre moschee e istituzioni legate al femminismo islamico – occupano spazi in affitto o ricevuti in prestito per le ore di cui hanno bisogno. Ciò significa che molte moschee femminili non dispongono di una collocazione stabile. Sono piuttosto reti di musulmane che compiono, negli spazi a loro disposizione, le attività tipiche della moschea, come la preghiera del venerdì. Esse cioè trasformano temporaneamente determinati spazi in moschee, per esempio spostando contro la parete i mobili di una stanza, allestendo la sala con calligrafie e decorazioni e stendendo sui pavimenti tappeti per la preghiera. Dopodiché la moschea viene “smontata” riavvolgendo i tappeti, rimuovendo le calligrafie e spostando nuovamente il mobilio, in modo che lo spazio occupato da questi oggetti torni alla sua funzione ordinaria[4].
È interessante notare che i luoghi di culto temporanei sono generalmente percepiti come moschee e per estensione logica le loro guide sono considerate imam dotate di autorità religiosa. Ciò significa che i musulmani che hanno bisogno di servizi religiosi come l’accompagnamento, la cura spirituale, il divorzio islamico o il matrimonio tra una donna musulmana e un uomo non-musulmano si rivolgono alle guide delle moschee temporanee. Nel caso dell’imam donna danese Sherin Khankan, il solo annuncio della sua intenzione di aprire una moschea femminile a Copenaghen è stato sufficiente per ricevere questo tipo di richieste. Prima ancora di guidare una preghiera del venerdì nella moschea Mariam, Khankan ha celebrato cinque matrimoni islamici, il primo dei quali ha avuto luogo un anno prima dell’apertura della moschea. Qualcosa di simile è avvenuto con i divorzi, il secondo dei quali ha avuto luogo il giorno stesso della prima preghiera del venerdì, il 26 agosto 2016.
Come detto in precedenza, il femminismo islamico è prodotto localmente e tratta questioni che sono rilevanti per le persone impegnate nell’attivismo femminista. È quanto risulta evidente da una comparazione tra la Moschea Mariam e il Consiglio delle Donne Musulmane di Bradford. Quest’ultimo costituiva inizialmente un movimento di donne musulmane stanche di essere rappresentate unicamente da uomini, ma nel 2009 si è istituzionalizzato come ente incaricato di raccogliere fondi per un centro religioso che tra le sue varie strutture comprende una moschea. La fondatrice del Consiglio, Bana Gora, intendeva inizialmente aprire una moschea dove le donne guidassero altre donne nella preghiera, ma ha poi dato la precedenza a una moschea amministrata da donne ma con un imam uomo.
Le moschee femminili sono reti di musulmane che compiono le attività tipiche della moschea Bradford ha una demografia molto diversa da Copenaghen, con circa il 15% della popolazione che si indentifica come pakistana e un alto tasso di segregazione sociale[5]. Si tratta di una città notevolmente omogenea dal punto di vista religioso e la grande maggioranza delle sue moschee sono organizzate nel locale Consiglio delle Moschee. È inusuale che le moschee di Bradford abbiano sezioni per le donne e il Consiglio delle Donne Musulmane ha rotto con la norma quando ha introdotto una moschea per entrambi i generi, con un’ampia sezione femminile e un consiglio d’amministrazione composto unicamente da donne.
Tuttavia, dal momento che non prevede di trasgredire i confini consolidati delle relazioni di genere, il Consiglio è riuscito a ottenere l’approvazione di due delle più influenti associazioni educative islamiche in Europa e in America. L’imam Zaid Shakir, co-fondatore dello Zaytuna College, ha avallato incondizionatamente il progetto, sottolineando che
«è importante seguire il masjid [la moschea] amministrato da donne […]. Il masjid sarà gestito bene; non si parla di imam donne, o di khutbe [sermoni] del venerdì pronunciati da donne. Si parla di contribuire al masjid con il loro talento, le loro abilità e le loro capacità, in modo che esso sia amministrato come si deve […]. È un progetto che sostengo integralmente e sono sicuro che sarà un grande successo»[6]
Allo stesso modo, il preside del Cambridge Islamic College, Mohammad Akram Nadwi, considera un dovere religioso rispondere ai bisogni delle donne e incoraggiare i musulmani a contribuire al progetto:
«Il bisogno che le donne hanno di andare in moschea per le preghiere quotidiane, di partecipare ai circoli di studio, di incoraggiare ed essere incoraggiate da altri a vivere la propria religione seriamente non è diverso dal bisogno degli uomini. Questo bisogno deve trovare risposta, è un dovere religioso […]. Si tratta di un’iniziativa che merita di essere sostenuta finanziariamente e moralmente sia dagli uomini che dalle donne»[7]
È interessante notare che sono state le donne musulmane di Bradford a chiedere che la moschea fosse tradizionale, con un imam uomo. Il loro impegno puntava all’accesso alla moschea in una città dove un simile spazio era quasi inesistente. Ma non volevano che questo spazio fosse controverso o facesse parte di una battaglia per una diversa interpretazione dell’Islam. Questo dimostra che le richieste delle donne musulmane variano a seconda dei diversi contesti locali. In una città come Londra, 300 chilometri a Sud di Bradford, è possibile assistere a una preghiera del venerdì promiscua e guidata da donne nella Inclusive Mosque Initiative o partecipare con i musulmani queer di Londra a una sessione di meditazione islamica (dhikr) aperta alle persone LGBTQ.
Quale emancipazione?
È importante sottolineare che non è possibile valutare il grado di emancipazione percepita dalle donne musulmane sulla base della loro affiliazione a certe interpretazioni dell’Islam. Ciò è stato dimostrato da diversi studi etnografici, il più famoso dei quali rimane probabilmente il libro di Saba Mahmood Politics of Piety. The Islamic Revival and the Feminist Subject, pubblicato nel 2005, nel quale l’antropologa di origini pakistane ha messo in luce come un segmento di donne cairote partecipasse attivamente a una tradizione devozionale che prevede l’esercizio della timidezza e della pazienza, e in una certa misura dell’obbedienza all’autorità maschile, come caratteristiche della buona musulmana.
Alcune femministe islamiche sono ex-salafite o ex-islamiste o hanno comunque aderito a interpretazioni conservatrici dell’Islam In uno studio simile, The Making of a Salafi Muslim Woman. Paths to Conversion, Anabel Inge ha spiegato come una parte delle donne musulmane di Londra sia attratta dall’Islam salafita e intraprenda in suo nome un percorso pieno di sacrifici:
«L’adesione al salafismo ha opposto molte donne alla maggior parte dei loro amici e parenti più prossimi. Cinque donne intervistate [su venti] hanno detto che diventare salafite ha fatto perdere loro amici – di solito si è trattato di un allontanamento reciproco – e altre sette hanno preso la difficile, e per alcune estremamente sofferta decisione di rompere i legami con gli amici e addirittura con i parenti perché le loro convinzioni e le loro pratiche le avrebbero ostacolate»[8]
Le donne intervistate da Inge concepiscono il loro percorso di conversione e il loro impegno per vivere secondo le prescrizioni salafite come una forma di lotta per l’emancipazione. Tuttavia, tale comprensione contrasta con l’atteggiamento di altre donne che lottano per l’emancipazione all’interno dell’Islam, come l’imam Seyran Ates, secondo la quale le costruzioni di genere dell’Islam salafita sono repressive per il genere femminile. All’inaugurazione della Moschea Ibn Rushd-Goethe, il 16 giugno del 2017, Ates ha proibito il niqab (il velo che copre integralmente il volto), ciò che ha portato la famosa studiosa e femminista islamica Amina Wadud, la quale partecipa anche al movimento islamico LGBTQ, ad annullare la propria visita alla moschea, mentre la leader dei Muslims for Progressive Values, Ani Zonneveld, ha appoggiato la scelta.
Tali diversità evidenziano la difficoltà di fornire una definizione specifica del femminismo islamico, dal momento che le donne musulmane hanno visioni molto differenti su ciò che l’emancipazione significa. E questo è ulteriormente complicato da alcune delle musulmane più liberali, che rifiutano l’etichetta stessa di femministe.
La posizione dei media
Le donne imam sono allettanti protagoniste di documentari, libri e racconti mediatici, dal momento che assumono posizioni peculiari in uno dei dibattiti più caldi dell’Europa contemporanea. Ciò ha portato a rappresentare alcune di esse in modi molto diversi a seconda dei Paesi. Per esempio Sherin Khankan, di cui abbiamo già parlato, è apparsa in una storia pubblicata il 13 febbraio del 2016 su Breitbart, durante le primarie negli Stati Uniti, e intitolata “La Danimarca costruirà in segreto moschee per sole donne per proteggere i fedeli dagli islamisti radicali”, in cui si spiegava che
«La prima moschea per sole donne è già stata costruita nella capitale danese, Copenaghen, e anche l’imam è una donna. Ciò ha portato la moschea a essere gestita in segreto, perché il progetto è minacciato dagli islamisti radicali, che hanno poco rispetto per le opinioni o i diritti delle donne»[9]
Benché questa citazione contenga soltanto due informazioni corrette – Copenaghen è la capitale danese e Khankan è una donna – l’articolo dimostra come la storia della Moschea Mariam possa essere utilizzata per raffigurare gli altri musulmani come radicali.
È inimmaginabile che lo Stato danese paghi per la costruzione di una moschea ed è un’ironia della sorte che in realtà tre deputati danesi abbiano provato a tagliare i fondi alla ONG di Khankan, Exitcirklen, che aiuta le donne a uscire da relazioni violente, affermando che la donna imam approvava la flagellazione e la sharī‘a[10]. Sebbene in Danimarca alcuni settori dell’estrema destra e dell’estrema sinistra abbiano ripetutamente affermato che Khankan era in realtà un’islamista radicale, è stato solo nell’autunno del 2017, quando i tre deputati hanno tentato di intervenire direttamente nell’allocazione di risorse statali alla ONG di Khankan, che questa storia è finita sulle prime pagine dei giornali danesi. Alla fine, Khankan ha querelato i tre deputati per diffamazione.
Alcune donne si muovono tra femminismo e salafismo mantenendo la propria iniziativa e la propria indipendenza Durante questa tempesta mediatica, Khankan ha pubblicato in Francia la sua biografia, La femme est l’avenir de l’islam. Le combat d’une imame [11], prendendo parte in questo modo al dibattito. Sin dall’annuncio dell’apertura della Moschea Mariam nel 2015, i giornalisti francesi si sono molto interessati a Khankan, ritraendola come una leader musulmana influente e progressista. Ciò ha prodotto un invito all’Eliseo a prendere un tè con il presidente Macron, in netto contrasto con le accuse che erano state rivolte a Khankan dai deputati danesi.
In quell’occasione, un solo giornalista danese si presentò per intervistare Khankan fuori dal palazzo presidenziale e la riposta della donna alla prima domanda – «Cosa prova a essere invitata, come imam danese, a parlare con un presidente?» – è la dimostrazione dello scarto tra narrazioni:
«È piuttosto paradossale, visto che ho querelato per diffamazione tre importanti politici danesi che mi hanno accusata di essere un’islamista radicale […]. È paradossale che io sia considerata una rappresentante dell’Islam progressista in Francia, mentre in Danimarca devo lottare per non essere considerata all’opposto»
Khankan è oggetto di raffigurazioni molto diverse nei media, ma il punto è che per le donne musulmane può essere difficile parlare nei media europei se esse non si attengono ai pregiudizi esistenti sui musulmani, ed è questa la ragione per cui molte attiviste femministe non si impegnano nel dibattito pubblico[12]. Molte di loro infatti rifiutano di partecipare a una battaglia che segue la logica della contrapposizione tra musulmani buoni e musulmani cattivi.
Tra salafismo e femminismo
Le femministe islamiche spesso lottano per la propria emancipazione e non hanno alcuna intenzione, per esempio, di prendere di mira come nemiche le donne salafite. Di fatto alcune femministe islamiche sono ex-salafite o ex-islamiste o hanno comunque aderito a interpretazioni conservatrici dell’Islam. Alcune donne si muovono tra queste posizioni mantenendo la propria iniziativa e la propria indipendenza. Ciò è dimostrato da Maryam Trine Skogen, che dopo essere stata una musulmana molto conservatrice è diventata una donna imam con posizioni pro-LGBTQ.
Poco dopo la sua conversione, nel 2006, Skogen ha sposato un imam. Ha studiato molto, sviluppando tendenze salafite, con l’applicazione rigorosa delle interpretazioni più intransigenti delle norme islamiche: non ridere in pubblico, non stare su Facebook, stringere la mano agli uomini soltanto indossando guanti, non festeggiare le festività non musulmane. Si è allontanata dai suoi amici per seguire il suo percorso spirituale, che alla fine l’ha portata a una crisi esistenziale e al divorzio. Successivamente ha sposato un uomo agnostico, ha ripreso i contatti con la famiglia e gli amici e ha smesso di portare lo hijab, per poi tornare a indossarlo per protesta contro l’islamofobia dopo gli attacchi di Parigi del 2015. Nel 2017 Skogen ha partecipato a un gay pride e guidato una preghiera del venerdì in una moschea temporanea aperta ai musulmani LGBTQ[13].
La traiettoria di Skogen non è affatto unica. Come Inge ha dimostrato, le donne salafite presentano spesso un alto livello d’iniziativa, facendo grossi sacrifici per il loro impegno spirituale, e il passaggio, nel giro di un decennio, dal salafismo al femminismo o a posizioni antagoniste simili non è infrequente. Lo confermano diversi studi etnografici, il più recente dei quali, Egypt in the Future Tense, di Samuli Schielke, presenta tre casi di persone che si sono coinvolte con il salafismo. Una passa dal sufismo al salafismo, per finire sciita; la seconda entra ed esce dal salafismo quattro volte e diventa infine un’attivista di sinistra che combatte il fondamentalismo; la terza continua a ispirarsi ideologicamente al salafismo, ma smette allo stesso tempo di praticarlo. In altre parole, se salafismo e femminismo possono sembrare antagonisti dal punto di vista del dogma, essi sono simili da altri punti di vista, come il fascino emancipatorio e la posizione controcorrente rispetto alle interpretazioni più diffuse dell’Islam. Come spiega Inge, ricevere una formazione nell’Islam salafita invece di affidarsi all’autorità maschile può essere una sensazione liberante. Skogen che torna a indossare lo hijab dopo averlo abbandonato, mette in luce un altro punto importante: l’emancipazione delle donne musulmane può essere una lotta allo stesso tempo contro le interpretazioni patriarcali dell’Islam e contro l’islamofobia.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Abbiamo bisogno di te
Dal 2004 lavoriamo per favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani e studiamo il modo in cui essi vivono e interpretano le grandi sfide del mondo contemporaneo.
Chiediamo il contributo di chi, come te, ha a cuore la nostra missione, condivide i nostri valori e cerca approfondimenti seri ma accessibili sul mondo islamico e sui suoi rapporti con l’Occidente.
Il tuo aiuto è prezioso per garantire la continuità, la qualità e l’indipendenza del nostro lavoro. Grazie!
[1] Dibattito al Bremen Theateron del 23 marzo 2019, intitolato Er troen stopklods for kønnenes ligestilling (“La fede impedisce l’uguaglianza di genere?”).
[2] Sondaggio realizzato da Wilke. Si veda https://jyllands-posten.dk/premium/indland/ECE8145237/Muslimske-stemmer-Alle-meningsm%C3%A5lingerne (consultato il 17 agosto 2019).
[3] In Danimarca, basta che un’associazione religiosa abbia cinquanta membri per chiedere il riconoscimento come comunità religiosa e quindi ottenere la licenza per celebrare matrimoni.
[4] Jesper Petersen, Pop-up Mosques, Social Media Adhan and the Making of Female and LGBTQ-Inclusive Imams, «Journal of Muslims in Europe», vol. 8, n. 2 (2019), pp. 178-196.
[5] John Bowen, On British Islam: Religion, Law and Everyday Practice in Shari‘a Councils, Princeton University Press, Princeton 2016.
[6] Si veda www.womenledmosque.co.uk/testimonials (consultato il 10 settembre 2019).
[7] Ibid.
[8] Anabel Inge, The Making of a Salafi Woman. Paths to Conversion, Oxford University Press, New York 2017, p. 89.
[9] Oliver Lane e Chris Tomlison, Denmark Will Build Secret Women’s Only Mosques to Protect Worshippers from Radicals Islamist, «Breitbart», 13 febbraio 2016, https://bit.ly/2MFpwud
[10] Martin Borre, Blå Profiler Beskyldes for Groft Karaktermord på to Muslimske Kvinder, «Berlingske Tidende», 29 settembre 2017.
[11] Sherin Khankan, La femme est l’avenir de l’islam. Le combat d’une imame, Stock, Paris 2017.
[12] Jesper Petersen, Media and the Female Imam, «Religions», vol. 10, n. 159 (2019), https://www.mdpi.com/2077-1444/10/3/159 (consultato il 10 settembre 2019).
[13] Emma Tollersrud e Katinka Hustad, Imamen med leppestift, «Morgenbladet», 11 agosto 2017.