Le reazioni suscitate dalla mossa di Erdoğan riaffermano la linea di demarcazione geopolitica che separa gli Stati filo-islamisti da quelli ostili all’Islam politico. Il mufti dell’Oman, Paese tradizionalmente neutrale, si schiera apertamente con la Turchia
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:05
La decisione turca di riconvertire Santa Sofia in moschea ha sollevato il dibattito in tutto il Medio Oriente e messo in luce come la questione non abbia implicazioni soltanto religiose ma anche e soprattutto geopolitiche. Le reazioni dei Paesi a maggioranza musulmana riflettono infatti le relazioni che ciascuno di essi intrattiene con la Turchia e i blocchi regionali a cui appartengono.
In generale, le autorità qatarine, libiche e iraniane si sono congratulate con Recep Tayyip Erdoğan per la «decisione coraggiosa», accusando i Paesi musulmani ostili di pensare soltanto al proprio tornaconto politico anziché all’interesse di tutti i musulmani. Com’era prevedibile, l’asse emiratino-egiziano-saudita ha invece preso posizione contro la scelta di Erdoğan accusandolo, con toni a volte piuttosto duri, di sfruttare l’Islam per recuperare il consenso dei cittadini che la crisi economica innescata dalla diffusione della pandemia sta via via erodendo, e consolidare il bacino di elettori che strizzano l’occhio all’Islam politico. I quotidiani arabi e le pagine social delle istituzioni islamiche e degli intellettuali hanno ospitato il dibattito, contribuendo ad amplificarlo. Che la questione abbia assunto una dimensione geopolitica è evidente in una battuta pubblicata dal quotidiano qatarino pro-governativo al-Sharq, che scrive: «Ciò che rallegra i musulmani fa arrabbiare gli emirati e viceversa».
A riprova del rafforzamento dell’asse tra Tripoli e Ankara, in un comunicato pubblicato il 17 luglio, la Dār al-Iftā’ libica si è congratulata con la nazione islamica in generale, e con il popolo turco e il suo presidente in particolare «per il glorioso evento storico e il ripristino dell’adhān, la chiamata alla preghiera, nella moschea di Santa Sofia». Citando il versetto 36 della sura della Luce, il comunicato spiega che non è lecito convertire le moschee in musei essendo queste la «casa di Dio». La Dār al-Iftā’ si dice inoltre stupita per la campagna denigratoria condotta da alcune autorità islamiche contro una decisione sovrana in merito a una questione di competenza turca. Il comunicato si conclude con una citazione coranica che promette «ignominia in questo mondo e castigo cocente nell’altro a coloro che impediscono che nei luoghi d’orazione sia menzionato il nome di Dio e anzi tentano di distruggerli» (2,114), e con la supplica a Dio di continuare a benedire la umma islamica liberando la Moschea di al-Aqsa «dalle mani degli usurpatori sionisti».
Meno esasperati ma più sarcastici sono invece i toni in cui si articola la riflessione di Ahmad al-Raysūnī, presidente dell’Unione mondiale degli Ulema – organizzazione di orientamento islamista con sede a Doha. Riflettendo sull’ondata di rabbia e proteste provenienti da Chiese cristiane, Occidente in generale, UNESCO e alcuni Paesi «ipocriti arabi», il giurista marocchino si domanda che cosa infastidisca i cristiani dal momento che la decisione turca non prevede di convertire una chiesa in moschea, ma di trasformare «una moschea inattiva in una moschea attiva». La vena polemica emerge nella domanda provocatoria se le autorità cristiane preferiscano che Santa Sofia resti un luogo turistico anziché riaprirla al culto e alla recitazione del Corano. Al-Raysūnī chiama in causa il versetto 40 della sura del Pellegrinaggio – il passo coranico forse più citato in questa vicenda – sottolineando l’importanza del culto e di riportare l’edificio alla sua funzione originale. Dal piano religioso le considerazioni passano al piano politico: essendo la Turchia uno Stato sovrano e il destino di Santa Sofia un affare di politica interna, gli altri Paesi non sarebbero autorizzati a intervenire. Il suo commento si conclude con un invito a «smetterla di ingannarsi e ammettere che chi è contrario alla decisione è contro l’Islam, contro la preghiera e contro il Corano».
Per l’intellettuale kuwaitiano Hākim Al-Mutayrī l’atto del presidente turco segna la rivincita della Turchia e di Erdoğan, nuovo Mehmet II: «Riconvertendo Santa Sofia in moschea, oggi i turchi hanno completato la seconda conquista di Istanbul, dopo essersi arresi alle condizioni imposte dalla campagna crociata in seguito alla Prima guerra mondiale».
Restando ancora in Kuwait, il direttore del Vision Center for Political and Strategic Consultation, Fāyaz Al-Nashwān ha dichiarato che questa è una bella notizia a prescindere dal fatto che la vicenda sia utilizzata da Erdoğan e dai suoi sostenitori per fini politici, ma – e qui subentra la critica – «non bisogna dimenticare che chi oggi guadagna da Santa Sofia ha rinunciato alla moschea benedetta di al-Aqsa e conserva ancora la pietra nera della Ka‘ba, rubata e mai rimessa al suo posto», in riferimento ai quattro frammenti della pietra nera rubati dal sultano ottomano Solimano il Magnifico, che oggi decorano la moschea Sogululu Mohammed Pasha.
Com’era prevedibile, la lista dei Paesi critici è cappeggiata dagli Emirati Arabi Uniti, che dal 2011 si trovano in rotta di collisione con la Turchia. ‘Abdulkhaleq ‘Abdullah, consigliere del Principe ereditario di Abu Dhabi e politologo di fama, ha twittato dal suo account che «gli unici a rallegrarsi e applaudire la conversione del museo di Santa Sofia in moschea sono un gruppetto di fanatici e di seguaci megalomani di Erdoğan».
Anche il ministro della Cultura degli Emirati, Noura bint Mohamed Al Kaabi, ritiene che la decisione sia inopportuna, sulla base però del significato culturale di Santa Sofia che, in quanto patrimonio comune di tutti i popoli e di tutte le culture non dovrebbe essere usata in maniera impropria né alterata nella sua essenza.
Non molto diverse sono state le reazioni in Arabia Saudita. In un Paese in cui non è consentito discostarsi dalla narrazione ufficiale, soprattutto quando si tratta dell’Islam politico, la mossa di Erdoğan non poteva che suscitare il disappunto. Secondo Arab News, Erdoğan «favorisce il conflitto tra le civiltà e l’islamofobia riproducendo i comportamenti provocatori dei gruppi estremisti e terroristi che giocano la carta dei monumenti storici». La decisione del Presidente turco viene definita «un atto di opportunismo ideologizzato», in contrasto con la tolleranza che l’Islam ha manifestato nel corso della storia preservando i luoghi di culto delle altre religioni e mantenendo un atteggiamento positivo nei confronti dei monumenti: «Durante le conquiste, i nostri pii predecessori e i primi musulmani hanno salvaguardato le icone culturali delle altre civiltà».
Il giornalista e scrittore saudita Turkī al-Hamad ha invece posto l’accento sulla dimensione politica della decisione e la crisi di credibilità che sta attraversando il presidente turco: «Aya Sofia è una chiesa bizantina costruita nel III secolo, poi convertita in moschea nel XV secolo, in seguito alla conquista di Costantinopoli per mano di Muhammad il Conquistatore (il Sultano ottomano Mehmet II, NdR), e infine trasformata in museo nel 1934 da Mustafa Kemal. Oggi Erdoğan rende nota l’intenzione di farne una moschea, in un gioco politico teso a ottenere il consenso dei turchi nel momento in cui il castello di carte sta crollando».
Della stessa idea è l’intellettuale libanese Ridwān al-Sayyid, che su al-Sharq al-Awsat definisce la decisione di Erdoğan una mossa politica fatta non nell’interesse dell’Islam o dei musulmani ma per alimentare il consenso popolare, messo a dura prova dalla recessione economica e dalle difficoltà che sta attraversando la lira turca. «Il comportamento del presidente Erdoğan in merito a Santa Sofia è dannoso per la Turchia laica, per la Turchia musulmana e per l’Islam. Questo non è un atto di politica giudiziosa e ponderata» ma la mossa di chi pensa di essere Muhammad il Conquistatore o Solimano il Magnifico. Dal punto di vista islamico, inoltre, almeno fino all’epoca medievale la decisione di trasformare una chiesa in moschea o distruggerla non era considerata un atto religioso. L’intellettuale libanese fonda questa affermazione sul già citato versetto coranico 22,40: «E certo, se Dio non respingesse alcuni uomini per mezzo d’altri, sarebbero ora distrutti monasteri e sinagoghe, e oratori e tempi nei quali si menziona il nome di Dio di frequente». Questo passo sarebbe garanzia di pluralità e libertà di culto. La decisione del presidente turco risulterebbe tanto più illogica in questo momento storico, in cui molte autorità musulmane fanno della protezione dei luoghi di culto altrui la loro bandiera. In questa direzione, ricorda al-Sayyid, vanno il Documento sulla Fratellanza umana, la Dichiarazione della Mecca (ratificata il 31 maggio 2019 da 139 Paesi a maggioranza musulmana al termine della XIV sessione ordinaria dell’Organizzazione della Cooperazione islamica) e la Carta della Nuova alleanza delle Virtù.
Benché il Corano proibisca di distruggere i luoghi di culto altrui questo, spiega l’autore, nella storia è accaduto spesso e dev’essere inteso come atto di conquista, non religioso. A riprova del fatto che l’Islam di per sé non prevede la distruzione o la trasformazione dei luoghi di culto, al-Sayyid cita un paio di episodi storici. Il primo riguarda il secondo califfo ben guidato, ‘Umar ibn al-Khattāb, che, invitato dal vescovo Sofronio a pregare nella Chiesa del Santo Sepolcro, oppose un netto rifiutò per timore che i musulmani potessero appellarsi a questa vicenda per trasformare la chiesa in moschea.
Il secondo episodio riguarda invece la costruzione della Moschea omayyade a Damasco, ordinata dal terzo califfo omayyade al-Walīd bin ‘Abdul-Malik. L’edificio fu eretto su una parte del territorio della Chiesa di San Giovanni Battista, ragione per cui il califfo ‘Umar bin Abdul-‘Azīz dovette trattare a lungo con le autorità ortodosse. L’accordo raggiunto prevedeva la costruzione di una chiesa nelle vicinanze e di quattordici chiese nella zona della Ghouta, a sud di Damasco. Secondo la tradizione, ‘Umar bin Abdul-‘Azīz avrebbe detto riferendosi ai cristiani: «Giuro che se non fossero stati soddisfatti, avrei distrutto la moschea, perché la preghiera eseguita su una terra usurpata non è valida!»
L’episodio della Chiesa del Santo Sepolcro è citato anche dal Gran muftì egiziano Shawkī ‘Allām, che si è detto contrario alla possibilità di trasformare una chiesa in moschea e viceversa perché «il Profeta, la pace sia su di lui, ci ha raccomandato di non distruggere i luoghi di culto e non uccidere i monaci durante le guerre. L’Islam ci ha comandato di preservare le leggi delle altre religioni».
Contestualmente la Dār al-‘iftā’ egiziana che ‘Allām presiede accusava Erdoğan di utilizzare le fatwe come strumento per consolidare la tirannia nel suo Paese e giustificare le sue ambizioni in nome della religione. Inoltre, finivano sotto la lente le sue manie di grandezza: «Per quanto attiene alla conquista di Costantinopoli, essa fu una grande conquista islamica annunciata dal Profeta, la preghiera e la pace siano su di lui, ad opera dal grande sultano ottomano sufi Muhammad il Conquistatore. Erdoğan però non ha nulla a che vedere con Muhammad il Conquistatore».
Il Presidente turco è stato inoltre oggetto di studio del Global Fatwa Index, una sezione della Dār al-iftā’ egiziana incaricata di svolgere ricerche sulle fatwe emesse dalle istituzioni islamiche a livello globale. La relazione finale in merito al discorso religioso prodotto in Turchia metteva in luce come il 92% delle fatwe emesse dagli ulema turchi fosse finalizzato a rafforzare la dittatura di Erdoğan e mettere all’angolo gli oppositori del regime, spesso definiti «infedeli» o «nemici dell’Islam». L’uso che Erdoğan fa dell’Islam sarebbe dunque finalizzato a raggiungere la stabilità interna e acquisire nuovi elettori, mentre la riconversione di Santa Sofia sarebbe tesa a conquistare il consenso della comunità religiosa turca. Sulla capacità del presidente di manovrare il discorso religioso l’Indice citava un episodio accaduto a ridosso delle elezioni di marzo 2019. Temendo la sconfitta, Erdoğan aveva reclutato una serie di chierici per impedire ai conservatori di allontanarsi dal suo partito. Durante un comizio, aveva mostrato alla folla inneggiante al suo partito un video degli attentati di Christchurch, in cui alla fine si presentava nelle vesti del difensore dei musulmani e dell’Islam.
Se le reazioni della maggior parte dei Paesi arabi sono abbastanza scontate, le dichiarazioni provenienti dal sultanato dell’Oman sono forse quelle che hanno destato più scalpore.
Shaykh Ahmad al-Khalīlī, Gran Muftì ibadita del sultanato e vice-Presidente dell’Unione mondiale degli Ulema, si è infatti congratulato con la comunità islamica, il popolo turco ed Erdoğan per la decisione di riaprire al culto Santa Sofia dopo 86 anni, e ha definito il presidente turco «avveduto» e «audace». Com’era prevedibile, le congratulazioni di al-Khalīlī hanno aperto il dibattito sulle intenzioni dell’Oman, un Paese noto per la sua neutralità, sollevando il dubbio se si tratti semplicemente di un messaggio rivolto a un Paese fratello nella fede, o sia invece un messaggio politico lanciato da Muscat ad Ankara per rafforzare le relazioni tra i due Stati.
C’è chi ritiene che queste dichiarazioni nascondano delle implicazioni politiche importanti. Il giornalista turco Ismail Yasha, per esempio, crede che il comunicato di Shaykh Ahmad al-Khalīlī non rifletta una posizione personale perché «il Gran Mufti è il capo della parte religiosa del suo Paese e, in quanto tale, il suo discorso non può discostarsi da quello dell’autorità ufficiale». La dichiarazione del Gran muftì lascerebbe inoltre intendere una certa indipendenza dell’Oman dai Paesi limitrofi in fatto di politica estera.
Dello stesso avviso è il politologo Ahmad Abū ‘Alī secondo il quale la dichiarazione del Mufti «è coerente con la politica soft perseguita da Muscat sulle questioni estere ed è certamente espressione di una posizione politica ufficiale, sebbene sia stata resa esplicita dalla parte religiosa».
La battaglia sull’ex basilica di Santa Sofia, da oggi nuovamente moschea, conferma la tendenza a mobilitare l’Islam quale risorsa politica e riafferma la linea di demarcazione geopolitica che separa i Paesi filo-islamisti da quelli che all’Islam politico preferiscono altre, seppur autocratiche, forme di governo.
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