Egemen Bağiş spiega la sua Turchia: il desiderio di entrare in un’Unione Europea che pure appare piuttosto fredda nei suoi confronti; la corsa verso uno sviluppo economico straordinario; il nuovo ruolo di modello ispiratore per alcuni Paesi arabi che ne vorrebbero riprodurre la combinazione islam-democrazia
Ultimo aggiornamento: 21/06/2022 09:51:18
Nato a Bingöl, in Anatolia, nel 1970, il giovane Egemen Bağış segue nella passione politica le orme del padre, sindaco della sua città nella seconda metà degli anni ’70. Dopo gli studi a New York in Direzione Risorse umane e Pubblica Amministrazione, a soli 32 anni viene eletto al Parlamento nella circoscrizione di Istanbul. Figura di punta del partito del premier Erdoğan, l’AKP, esperto in relazioni internazionali, è Ministro per gli Affari Europei dal 2009. Una carriera brillante che appare solo ai primi passi, tanto che c’è chi già lo vede sindaco di Istanbul. Così il suo ufficio a Ortaköy, nel cuore della capitale più trafficata d’Europa, dove Oasis lo incontra, sembra solo una nobile e austera sede di passaggio.
Intervista a Egemen Bağış a cura di Maria Laura Conte e Michele Brignone
Da Ministro per gli Affari europei della Turchia Lei ha dichiarato più volte, di fronte alla lentezza del processo di integrazione, che il suo Paese non si sarebbe arreso. Perché? A che punto del cammino si trova la Turchia?
La Turchia ha presentato la sua candidatura per la prima volta nel 1959. Ci sono voluti 45 anni, fino al 2004, soltanto per fissare una data di inizio del negoziato. Non ci siamo arresi allora e non ci arrenderemo adesso. La decisione di avviare il processo è stata presa all’unanimità e perciò tale processo può essere interrotto solo da un’altra decisione unanime degli stati membri dell’UE. Al momento abbiamo aperto 13 dei 33 capitoli richiesti, ne rimangono altri 20, 17 dei quali sono politicamente bloccati. Gli unici 3 che abbiamo potuto aprire sono i capitoli che tutti gli Paesi hanno lasciato per ultimi a causa dei loro costi economici. Tuttavia il fatto che 17 capitoli siano bloccati, non significa che abbiamo smesso di lavorarci. Se i blocchi politici fossero revocati oggi, potremmo aprirne 16 entro un anno e chiuderne 12 senza problemi. Per quanto riguarda il processo negoziale, nell’ultimo anno non abbiamo aperto nessun capitolo, ma per quanto riguarda le riforme, la Turchia sta facendo molto meglio di tanti altri Stati membri.
Per esempio?
In un Paese in cui fino a 15 anni fa si aveva paura di ammettere di essere curdi adesso abbiamo trasmissioni curde alla televisione di Stato 24 ore al giorno. La comunità armena ha ricominciato a celebrare le messe nella storica chiesa di Akdamar dopo 112 anni. La comunità greco-ortodossa ha ricominciato a usare il monastero di Sumela dopo 88 anni. 20.000 cittadini turchi di origine rom sono stati accolti in un incontro dal Primo Ministro, il quale ha annunciato la costruzione di nuove case e l’avvio di diversi progetti lavorativi. La comunità alawita, per la prima volta nella storia, ha visto riportare informazioni sulla sua interpretazione dell’Islam nei testi scolastici di religione. Il Presidente Gül è stato il primo Presidente dopo Atatürk, fondatore della Repubblica, a visitare un luogo di preghiera della comunità alawita.
Intende dire che l’Europa aiuta la Turchia ad essere più “democratica”?
Oggi la Turchia è molto più democratica, più trasparente e più ricca grazie all’Unione Europea. L’Unione Europea può essere considerata come il dietista turco. Tutti sanno di dover fare attenzione a ciò che si mangia e di aver bisogno di svolgere attività fisica regolare. A volte però alle persone serve una buona prescrizione per sapere cosa fare. La prescrizione dell’UE è il suo acquis comunitario: attuare la normativa e i regolamenti dell’UE e fare di questi una parte del processo di integrazione ci aiuta a diventare uno Stato migliore per i nostri figli. Questo è il nostro impegno ed è ciò che continueremo a fare.
Ma cosa dell’Europa di oggi, che non è priva di criticità, interessa essenzialmente alla Turchia?
L’Unione Europea è il più grande progetto di pace nella storia dell’umanità. L’UE ha impedito il verificarsi di nuove guerre sul Continente. Tuttavia è un progetto di pace continentale che potrebbe diventare globale se la Turchia entrasse nell’UE. Non ci interessa il denaro dell’UE e neppure il suo potere politico. Ci interessa la sua capacità di assicurare pace e stabilità. La Turchia è membro a pieno titolo di tutte le organizzazioni europee, tranne l’Unione Europea. Siamo nella UEFA, nella Banca Europea per gli Investimenti, nei progetti di difesa e sicurezza, nell’OECD, nell’ESDP, partecipiamo ai progetti economici. Il 50% del nostro commercio è con l’Europa, il 60% dei turisti che accogliamo proviene dall’UE così come dall’UE proviene l’85% degli investimenti diretti esteri in Turchia. Perciò è naturale che la Turchia entri a far parte del club.
Eppure così naturale questo ingresso nel club non sembra, vista la lentezza del processo. A chi fa paura la Turchia?
Pregiudizi! I pregiudizi sono l’ostacolo principale. Il pregiudizio della Turchia nei confronti dell’Europa e, più importante ancora, il pregiudizio dell’Europa nei confronti della Turchia. Gli oppositori storici direbbero che la Turchia è troppo grande, troppo povera e troppo musulmana.
Come risponde a queste tre obiezioni?
Siamo troppo grandi? È un vantaggio per l’Europa, perché l’Europa ha bisogno di grandi mercati. Che siamo troppo poveri non è più vero visto che siamo già più ricchi di otto membri dell’UE e, in Europa, al momento siamo l’economia che sta crescendo più velocemente. Per quanto riguarda il fatto che siamo musulmani, ho due obiezioni. La prima è: “Buongiorno! Eravamo musulmani anche quando abbiamo sottoposto la candidatura per la prima volta nel 1959. Eravamo musulmani quando siamo stati ammessi come Paese candidato nel 1986. Eravamo musulmani quando siamo diventati membri dell’Unione Doganale nel 1996. Eravamo musulmani nel 2004, quando abbiamo iniziato il negoziato”. Non ci siamo convertiti all’Islam ieri. La seconda è che la Turchia in Europa dimostrerà che l’Unione Europea non è basata sulla discriminazione e che c’è spazio per lo sviluppo a prescindere dall’appartenenza religiosa. Se l’Europa vuole davvero diventare una piattaforma di cooperazione internazionale, e pace e stabilità deve dimostrare di non essere un club cristiano.
Secondo lei quali sono gli elementi costitutivi di quella che Lei ha definito “vocazione” euro-turca?
Questa vocazione è molteplice. Dal punto di vista del lavoro, la Turchia ha un’età media di 28 anni. È un Paese molto giovane, mentre l’Europa ha un’età media di 45 anni. Tra 20 anni in Europa non ci sarà abbastanza gente in grado di lavorare. Dal punto di vista militare, in un momento in cui occorre affrontare molte questioni legate alla sicurezza e al terrorismo, la Turchia ha l’esercito più grande d’Europa. Quanto al progetto di pace, la Turchia è un Paese in cui chiese, sinagoghe e moschee stanno fianco a fianco. Qui a Ortakӧy, a 60 metri dai miei uffici c’è una moschea, a 70 metri una sinagoga e a 80 metri una chiesa. In questo Paese le culture hanno coesistito in armonia per secoli. Questo è ciò di cui l’Europa ha bisogno oggi.
Quali vantaggi porterebbe la Turchia all’Unione Europea?
Noi vediamo nell’adesione della Turchia all’UE un processo vantaggioso per entrambi. Infatti, negli ultimi anni, per via della crescita economica la Turchia ha iniziato a essere considerata da molti come un astro nascente. Se la Turchia mantiene questo ritmo di crescita nei prossimi decenni sarà una delle prime dieci economie del mondo. Indubbiamente il dinamismo dell’economia turca contribuirebbe alle prospettive economiche dell’Unione Europea. Inoltre, la posizione della Turchia come polo energetico non porterà risultati vantaggiosi solo alla propria economia, ma contribuirà ugualmente alla sicurezza energetica dell’UE. Grazie al ruolo attivo della Turchia nel peacemaking, l’UE estenderebbe la propria area di influenza e il suo soft power a molte altre regioni del mondo.
Dalle sue parole sembra che Europa e Turchia siano inscindibili…
Alcuni sostengono che la Turchia non ha una reale alternativa all’Europa. Questo argomento potrebbe essere corretto se si tiene conto del livello di integrazione economica tra Turchia e UE. Tuttavia, il contrario è altrettanto vero. L’Europa non ha una reale alternativa alla Turchia. Specialmente in un contesto globale in cui stanno cambiando gli equilibri di potere. Spero che non sarà troppo tardi quando nostri amici europei se ne renderanno conto.
Eppure ci sono alcuni aspetti più delicati, per esempio la situazione delle minoranze. Secondo alcune stime, all’inizio del Novecento l’attuale territorio turco era abitato per il 25% da popolazioni cristiane. Oggi sono lo 0,2 %. Che cosa è andato storto?
Sfortunatamente abbiamo attraversato alcuni periodi bui, in cui alcune minoranze sono state trattate in modo scorretto e i fedeli di diverse religioni hanno sentito il bisogno di lasciare il Paese. Ciononostante oggi il mio partito politico riceve il 50% dei voti ma se si guarda ai cristiani e agli ebrei in Turchia, noi prendiamo l’80% circa dei loro voti. Perché? Anche se non abbiamo risolto tutti i loro problemi, vedono che abbiamo le potenzialità per risolvere le difficoltà rimanenti perché rispettiamo gli individui non per la religione ma come esseri umani. Quando nel 2002 ero candidato a Istanbul sono stato dal Santo Padre Bartolomeo [il Patriarca ecumenico di Costantinopoli, N.d.R.] con un gruppo di persone del mio partito. Tutti esitavano finché io, che ero il più giovane della delegazione, ho detto: «Patriarca, grazie dell’ospitalità, ma la ragione per cui siamo qui è che vorremmo avere il suo sostegno alle prossime elezioni». Lui mi ha guardato e risposto: «Buona fortuna, sembra che vincerete». Allora io ho replicato: «Scusi?». Si è fermato qualche secondo, e poi ha detto: «Hai ragione, vinceremo. Un partito fondato da credenti devoti proteggerà i diritti di tutti i credenti, compresi quelli che credono in altre religioni». Da allora siamo rimasti buoni amici.
Lei crede che il principio di laicità garantisca o danneggi le minoranze?
Dipende da come lo si interpreta. I principi non garantiscono né discriminano. Le interpretazioni sì.
D’accordo. Allora come va interpretata la Costituzione turca, che definisce la Turchia come un Stato laico, anche se in realtà lo Stato turco gestisce la pratica religiosa, per esempio nominando le autorità religiose. Che cosa intende Lei per laicità?
La laicità è un principio fondatore della Repubblica. La Costituzione dichiara che «la Turchia è uno Stato democratico, laico e sociale fondato sullo Stato di diritto». L’applicazione della laicità in Turchia non può essere descritta come una gestione della pratica religiosa da parte dello Stato. In Turchia ogni cittadino ha il diritto di praticare attività religiose secondo il suo credo, e la libertà di coscienza e la libertà di religione sono due aspetti fondamentali del nostro Paese. Inoltre, il processo UE ha contribuito alla libertà di coscienza e alla libertà di religione. Nei suoi 10 anni di governo, l’AKP ha fatto enormi passi per garantire i diritti fondamentali in questo ambito. La nostra priorità, al momento, è liberarci dell’ormai obsoleta Costituzione militare e lavorare a una Costituzione civile.
La laicità da qualcuno è intesa come un “abbandono della religione”. Come risponde a questa obiezione?
Per quanto ci riguarda, la religione è un fenomeno individuale e, come ha detto il Primo Ministro Erdoğan nelle piazze libiche durante un incontro dei Fratelli Musulmani: «Non abbiate paura della laicità. Laicità non significa abbandonare la propria religione. Garantisce invece la possibilità di praticare la religione che si è scelta». È quanto stiamo cercando di fare in Turchia: difendiamo i diritti religiosi, non solo dei musulmani sunniti. Noi consideriamo la religione un fenomeno individuale e il governo dovrebbe impegnarsi a proteggere i diritti dei singoli a praticare la religione scelta. Non importa di quale religione si tratti.
Il mondo arabo sta attraversando una fase di profondo cambiamento. Come guarda la Turchia al processo politico in corso?
La Primavera araba sta cambiando il destino della regione e del mondo intero. Noi apprezziamo sinceramente il coraggio e la vittoria delle masse che nel Medio Oriente e nel Nord Africa hanno spodestato regimi autocratici e dato voce alla domanda di un nuovo ordine democratico. Nonostante questi passi coraggiosi verso il cambiamento prevalgono ancora alcune incertezze sul futuro. Ciò che d’ora in avanti sarà importante per la gente della regione è l’instaurazione di un nuovo ordine politico, sociale ed economico, guidato e supervisionato dalla volontà del popolo. Il Medio Oriente ha bisogno di essere sostenuto in questo momento storico.
Alcuni Paesi arabi sembrano essere molto affascinati dal modello turco. Lei pensa che abbiano qualcosa da imparare dall’esperienza turca?
La Primavera araba ha dimostrato che la Turchia è un attore regionale rispettato capace di influenzare profondamente i Paesi della regione. Questo perché la Turchia prova che la democrazia può esistere ed essere profondamente radicata in una società musulmana.
Forse uno degli aspetti interessanti per i Paesi del Nord-Africa e del Medio Oriente è lo straordinario boom economico della Turchia. Qual è il suo segreto?
Il nostro governo è riuscito a creare fiducia nell’economia turca. Di conseguenza il numero degli imprenditori è cresciuto. Hanno creato impiego e surplus economico. Siamo anche riusciti a consolidare la fiducia nella Turchia come porto sicuro per gli investimenti esteri. La Turchia non è diventata un’isola di pace e prosperità da un giorno all’altro. Sono sorprendenti i passi in avanti che la Turchia ha compiuto negli ultimi 10 anni nel rafforzamento dello Stato di diritto, nell’applicazione degli standard e delle norme di una democrazia avanzata, che sono i principi basilari di un mercato economico libero e funzionante.
Per quanto riguarda la Siria, quale ruolo può svolgere la Turchia in questo contesto?
La Turchia e la Siria sono due Paesi che hanno molte cose in comune. Siriani e turchi sono parenti stretti. Tuttavia, notiamo che gli sforzi sinceri che la Turchia sta facendo non vengono apprezzati dal regime siriano. Non hanno preso seriamente il consiglio della Turchia circa l’urgenza di riforme. Abbiamo ripetutamente messo in guardia il Governo siriano affinché soddisfi le legittime richieste del popolo siriano. Dal nostro punto di vista l’attuale amministrazione siriana ha perso la sua legittimità.
L’identità islamica del vostro Paese è un fattore chiave nella vostra politica estera?
La Turchia è situata in una regione complessa, al crocevia tra Est e Ovest, Nord e Sud, Europa ed Eurasia. Più del 99% della popolazione è musulmana. Sicuramente noi vogliamo essere in buoni rapporti con gli altri Paesi musulmani della nostra regione e non solo. Ad ogni modo, la Turchia non persegue una politica estera basata sull’identità religiosa. Con le coraggiose riforme portate avanti dal nostro governo negli ultimi nove anni, sta emergendo una nuova Turchia: un Paese musulmano, con un sistema politico democratico e un mercato economico forte.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Egemen Bağış, “La Turchia non è più troppo grande, troppo povera e troppo musulmana”, «Oasis», anno VIII, n. 16, dicembre 2012, pp. 81-85.
Riferimento al formato digitale:
Egemen Bağış, “La Turchia non è più troppo grande, troppo povera e troppo musulmana”, «Oasis» [online], pubblicato il 1 dicembre 2012, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/la-turchia-non-e-piu-troppo-grande-troppo-povera-e-troppo-musulmana.