Per alcuni libri il titolo è una fortuna, per altri una condanna, per The Clash of Civilizations, di Samuel P. Huntington, il titolo è stato un po' entrambe le cose. Non è azzardato ipotizzare, infatti, che proprio "grazie" al suo titolo, il volume sia stato non solo uno dei più venduti, discussi e citati, ma anche, in termini relativi, meno letti dell'ultimo decennio. Vale quindi la pena prendere in esame le tesi espresse da Huntington in modo (per quanto possibile) sereno e scevro da pregiudizi per verificare se e come possano essere utili per comprendere i cambiamenti socio-culturali in corso.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:51:48
Lo studio di Huntington, pubblicato in prima edizione nel 1996, nasce dall'approfondimento delle tesi già espresse in un articolo pubblicato nell'estate del 1993 sulla rivista Foreign Affairs intitolato The Clash of Civilizations?, articolo che aveva suscitato grande clamore sia nel mondo accademico sia nei mass media. A contrario di quanto molti pensano e scrivono, l'autore non propugna uno scontro di civiltà, ritiene anzi che questa eventualità vada scongiurata perché rappresenterebbe, per tutti, un grave pericolo. Sarebbe anche riduttivo considerare, come hanno fatto alcuni superficiali lettori, quello di Huntington un libro sull'Islam o sul fondamentalismo islamico, sebbene a questi temi siano dedicate pagine importanti e assai severe. Un altro dato importante di cui tenere conto nella lettura è che l'autore, senza per questo essere relativista, non crede alla esistenza di un modello di civiltà superiore a tutti gli altri che potrebbe/dovrebbe essere generalizzato in modo universalistico: "La possibilità di scongiurare una guerra globale tra opposte civiltà dipende dalla disponibilità dei governanti del mondo ad accettare la natura a "più civiltà" del quadro politico mondiale e a cooperare alla sua preservazione" (trad. it. Milano, 2000, 15). La prospettiva adottata nel libro ha come principio fondante la convinzione che nello scenario internazionale post-guerra fredda, un ruolo decisivo torni ad essere rivestito dalle identità culturali: "In temi di rapidi mutamenti sociali le identità si dissolvono, l'io deve essere ridefinito, occorre creare nuove identità. Le questioni di identità assumono priorità rispetto a quelle di interesse. Gli uomini sentono il bisogno di capire: Chi siamo? A chi appartengo?" (134-135). Come hanno messo in luce anche altri autorevoli studiosi, sebbene da prospettive diverse, basti pensare solo agli studi di Castells, The Power of Identity, e di Benhabib, The Claims of Culture, l'integrazione e/o i conflitti sociali sono oggi sempre più legati alla identità dei soggetti coinvolti. Lo studio di Huntington si articola in cinque tappe a cui corrispondono le parti del libro. Parte dalla constatazione che l'interazione di un alto numero di civiltà (per lo studioso, le maggiori civiltà dopo il 1990 sono le seguenti: occidentale, ortodossa, latino americana, africana, islamica, cinese, indù, buddista, giapponese), conferisce allo scenario politico internazionale, per la prima volta nella storia, una natura realmente multipolare. Questa prospettiva si discosta dalle idee di chi descrive la modernizzazione come un'occidentalizzazione unilaterale del mondo. Tanto coloro che guardano con entusiasmo questa prospettiva (come Fukuyama nello studio The end of history and the last man), quanto coloro che la guardano con timore (si pensi ad esempio a Latouche autore di L'occidentalisation du monde), dovrebbero invece riconoscere che l'influenza dell'Occidente sul resto del modo è in calo di fronte alla crescita economica e politica delle civiltà asiatiche e alla forza demografica dei paesi musulmani. In questo scenario, ogni possibile ordine internazionale ha come cardine, non tanto gli stati-nazione o gli organismi internazionali, ma le civiltà e i loro "stati guida". Le società culturalmente affini tendono, infatti, a cooperare tra loro e si raccolgono attorno ad uno stato guida. L'autore prende implicitamente posizione su due temi oggi molto dibattuti affermando che il confine orientale della civiltà occidentale è rappresentato dal grande spartiacque storico che da secoli divide i popoli dell'occidente cristiano da quelli ortodossi e musulmani, e ritiene che uno dei problemi fondamentali della civiltà islamica, e delle altre civiltà in rapporto ad essa, sia di non avere uno stato guida riconosciuto (questo ruolo secondo Huntington potrebbe essere ricoperto in futuro dalla Turchia). Il pericolo più grave per la pace risiede nell'intervento di uno "stato guida" nella disputa tra due stati, di cui uno "guida", appartenenti ad un'altra civiltà (il pericolo è particolarmente grave se la scena dello scontro si trova al confine tra due civiltà). Per evitare questi pericoli, gli stati guida dovrebbero osservare la "regola dell'astensione", che intima di non intervenire nei conflitti interni ad altre civiltà, e la "regola della mediazione congiunta", che affida solo allo stato guida il compito di mediare i conflitti tra stati interni a quella civiltà. In un quadro multipolare, le pretese universalistiche dell'Occidente tendono ad entrare in conflitto con le rivendicazioni culturali e/o commerciali di altre civiltà, in modo particolare con i protagonisti della bellicosa rinascita islamica e con la Cina. Secondo l'autore, un ruolo fondamentale in questa situazione è ricoperto dagli Stati Uniti: solo se questi sapranno riconfermare la propria identità senza lasciarsi lusingare da un indistinto multiculturalismo potranno ritrovare il proprio ruolo guida nel rinnovare la civiltà occidentale e nel renderla capace di rispondere alle sfide contemporanee. Nel libro di Huntington gli elementi utili per comprendere le trasformazioni in corso nello scenario internazionale, sono mescolati ad elementi di forte ambiguità. In primo luogo (28-36), lo studioso ci invita a diffidare dalle letture semplicistiche di chi (americanismo) esalta le magnifiche sorti e progressive di un mondo unificato e in armonia, di chi (manicheismo) offre una lettura in termini binari "noi e loro", di chi (la corrente del realismo politico) vede solo 184 stati in lotta tra di loro, e di chi (anarchismo) prospetta come destino della politica internazionale un caos totale e ingovernabile. Allo stesso tempo però si serve di una concezione riduttiva e semplicistica delle culture e delle "civiltà" presentate come se fossero mondi chiusi nella loro purezza, incapaci di comunicare e di "contaminarsi". Il tema delle minoranze ad esempio andrebbe letto con più attenzione e non solo in termini negativi come sembra fare l'autore, perché a partire da esso è possibile mettere in discussione equazioni e contrapposizioni fittizie create ad hoc ("l'occidente è crociato e cristiano" vs. "i paesi arabi sono musulmani") su cui anche il terrorismo islamico cerca di fare leva (la presenza di storiche comunità cristiane in paesi arabi, non a caso così osteggiata dai fondamentalisti, mette in discussione queste equazioni con la sua stessa esistenza). La possibilità di collaborazione tra "stati guida" di civiltà diverse sembra essere esclusa in linea di principio da Huntington, proprio quando è più urgente rinsaldare relazioni e alleanze trasversali, rispetto alle civiltà, nell'affrontare temi di interesse generali (come i diritti umani e il controllo degli armamenti). Osservando che "la principale lezione che la storia delle civiltà ci insegna è che molte sono le direzioni probabili, ma nessuna inevitabile" (452) lo studioso ricorda giustamente che le vicende umane non sono improntate ad un cieco determinismo o ad una pura irrazionalità. Allo stesso tempo però la sua analisi sembra essere improntata ad un pessimismo sostanziale che chiama ad un "serrate le fila" culturale e militare, forse anche necessario, ma incapace da solo di essere propositivo. Huntington invita anche a relativizzare l'apparente universalità della civiltà occidentale quando scrive che la fede universalista occidentale "è falsa, immorale, pericolosa" (462). Anche questo invito non è privo di ambiguità. Appare, infatti, condivisibile nella misura in cui è volto a ricordare che le culture umane sono sempre plurali e che una cultura non può essere trasferita in modo meccanico da un contesto ad un altro. L'invito appare invece meno comprensibile e soprattutto meno condivisibile se è inteso come la giustificazione di una politica dell'arroccamento e della chiusura (come sembra emergere nel libro più recente di Huntington, Who are we? The challenges to America's national identity). L'autore nelle ultime pagine del suo studio cerca anche di individuare gli elementi di comunanza delle civiltà (474-479), tema trascurato nel corso del libro, non andando però molto al di là della ricerca di una moralità minimalista derivante dalla condizione umana e rinvenibile in tutte le culture. Bisogna riconoscere ad Huntington il merito di aver sottolineato che l'incontro e il dialogo tra culture, come quello tra persone, implica sempre anche un certo grado di conflittualità che viene meno solo quando l'incontro è formale oppure quando uno o entrambi i soggetti non sono più capaci di esprimere una posizione originale dal punto di vista culturale. Sottacere le differenze e gli elementi di conflittualità non è, come spesso si crede, la strada migliore per rendere possibile una convivenza e uno scambio tra le culture, perché questi elementi rischiano poi di emergere in modo eclatante e difficilmente gestibile. Piuttosto che eliminare la conflittualità, sarebbe auspicabile portare il terreno della "sfida" (questa strada però non è intrapresa da Huntington) sulla ragionevolezza dei principi sostenuti e sulla corrispondenza tra quanto una cultura propone e le esigenze di senso che caratterizzano la condizione umana e che, come ha mostrato Frankl nel suo celebre Ein Psycholog erlebt das Konzentrationlager, non possono essere del tutto estirpate neanche nelle situazioni in cui l'umano è negato nel modo più radicale. Questa sfida della ragionevolezza e del senso non comporta solo una dialettica di idee, anche se queste sono importanti, poiché ad incontrarsi sono persone (e non "civiltà" intese in astratto) e perché la cultura è sempre incastonata nell'agire e nelle relazioni sociali. La sfida dell'incontro interculturale chiama in causa nella vita quotidiana di ogni persona la responsabilità personale e la dimensione testimoniale, in questo modo il dialogo e l'incontro non sono soltanto uno scambio di idee ma diventano anche uno scambio di esperienze e di doni. Il problema è oggi capire se e come la cultura occidentale è in grado di rispondere alla sfida che la interpella e a quali risorse di senso può attingere visto che, come ha notato ad esempio Finkielkraut in Nous autres, modernes, o come nota lo stesso Huntington, i principali problemi dell'occidente non sono riconducibili all'ordine economico e demografico, ma ancora più radicalmente al "degrado morale, al suicidio culturale e alla frammentazione politica che investono l'occidente" (453). Un elemento che il libro in esame accenna in modo fugace solamente nelle conclusioni (479), e di cui andrebbe invece sottolineata l'importanza anche in termini strategici, è che il cuore del problema oggi è più che uno scontro tra civiltà, uno scontro "nelle" civiltà. "Noi amiamo la morte, più di quanto voi amiate la vita" recitava il comunicato con cui Al-Qaida ha rivendicato gli attentati di Madrid. Questa frase sembra definire crudamente i termini della sfida per la nostra epoca, per la nostra civiltà e per tutte le civiltà. Lo scontro, più che tra civiltà, è tra civiltà e anti-civiltà, tra la cultura della vita e l'anti-cultura della morte di chi, prendendo a pretesto ideologico una religione, l'Islam, vive la morte, la crudeltà, la violenza, la distruzione come motivo di gioia. Tutte le civiltà, anche quella occidentale corrosa dall'interno dal nichilismo, e tutte le persone devono cercare ogni giorno di estirpare il germe della anti-cultura della morte che le minaccia dall'interno. In questo modo si possono creare occasioni di collaborazione e di dialogo anche tra civiltà e culture diverse, ferme restando le differenze e la sana "competizione" che sempre esiste tra culture vive.