Perché il jihadismo prospera nella penisola egiziana

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:09:37

Il Sinai e i suoi terroristi sono oggetto di discorsi plurali – quelli dello Stato egiziano, quelli delle organizzazioni dei Diritti dell’Uomo, quelli degli islamisti, e quelli delle popolazioni “autoctone” e beduine, soprattutto dopo l’abbattimento dell’aereo russo a fine ottobre 2015, poche settimane prima gli attentati di Beirut e gli attacchi simultanei di Parigi. Un problema e una sfida dunque, che sollevano diverse questioni, ma che sono anche strumentalizzati da discorsi di delegittimazione del regime proclamato il 30 giugno 2013, o di critica radicale delle pratiche e dei modi di agire dello Stato egiziano, qualunque sia l’élite ai vertici.

Il Sinai è stato occupato da Israele dopo la guerra dei Sei Giorni (1967) e progressivamente è stato restituito all’Egitto nell’ambito degli accordi di pace negoziati da Anwar al-Sadat e Menachem Begin. Con il senno di poi, la gestione del territorio da parte del regime di Hosni Mubarak è stata catastrofica. Nonostante siano stati elaborati diversi progetti e piani, nel concreto si è finito per sviluppare il turismo e le stazioni balneari nel Sud-Ovest, una zona industriale e petrolifera nel Sud-Est, diversi progetti nel Nord-Ovest e nel centro, e abbandonare il Nord-Est (e il centro). Il Sud è molto meno povero del Nord, che accoglie due terzi della popolazione. Decine di migliaia di egiziani dalla valle del Nilo sono andati a lavorare nella Penisola mentre le popolazioni beduine erano emarginate. Queste ultime non avevano accesso alla proprietà, erano oggetto di discriminazioni sistematiche quando si trattava di assumerli e, peggio, le terre delle quali erano entrati in possesso in virtù del diritto consuetudinario erano spesso espropriate a favore di persone addentro al potere centrale. Il territorio era gestito dalla Sicurezza, che decideva chi doveva investire, cosa e dove. I beduini misero in piedi un’economia informale, per non dire criminale, basata su qualsiasi genere di traffico: stupefacenti, esseri umani e, più tardi, armi.

Era questa la situazione quando nel 2004 l’Egitto fu colto di sorpresa da attentati jihadisti, e scopriva che il salafismo si era innestato nella penisola durante gli anni ’90. Quest’ultimo in generale era quietista e non destava i sospetti delle autorità (che a volte lo aiutarono). Emersero anche dei gruppi “takfiristi” che consideravano apostata la società, ovvero non musulmana, avendo perso tutti i legami con la religione del Profeta, praticavano un esilio interiore, e si ritiravano nel deserto per fondare una comunità di veri credenti. Anche loro non arrecavano particolare disturbo. A un certo punto però, gli scambi tra alcuni islamisti e i salafiti jihadisti palestinesi fecero scivolare verso la violenza qualche decina di salafiti o takfiristi, i quali fondarono un’organizzazione estremista e fecero ricorso alla tattica adottata abitualmente da questi gruppi: colpire i turisti, simboli dell’impurità e, loro malgrado, finanziatori dello Stato empio.

La risposta di quest’ultimo (2004/2006) fu terribile e può rivendicare lo statuto di causa principale di tutto ciò che accadde in seguito. Dei beduini e della popolazione autoctona non ne sapeva nulla; ma era in corso un’emergenza. Lo Stato procedette con la brutalità che gli è propria nelle situazioni di emergenza: arresti massicci, alla cieca, violenze sulle persone arrestate, donne comprese, arresti dei parenti dei sospettati… Il governo vinse questo round, ma a caro prezzo: i beduini non perdonarono mai ciò che subirono. Il gruppo salafita jihadista fu decimato ma non scomparve: rimaneva un nucleo di un centinaio di persone. I gruppi salafiti e takfiristi quietisti continuarono a proliferare. Mubarak gestì il problema a colpi di espedienti: lasciò che gli islamisti di Gaza scavassero centinaia di tunnel per aggirare l’“assedio” e lasciò che i beduini commerciassero con l’enclave palestinese. Non si sa bene che cosa accadde durante la rivoluzione, la transizione e il potere di Muhammad Morsi (2011/2013), ma questi furono “anni” persi per lo Stato.

I movimenti salafiti jihadisti approfittarono di questi due anni per reclutare, espandere le loro truppe (si passò da centocinquanta militanti a diversi migliaia – le stime oscillano tra i due e gli ottomila), armarsi e sviluppare i contatti e gli scambi con gli “omologhi” di Gaza. Diversi gruppi si sarebbero fusi insieme diventando Ansâr Bayt al-Maqdis e più tardi la Provincia del Sinai dello Stato Islamico. Durante la transizione guidata dal CSFA (Consiglio supremo delle forze armate), alcuni gruppi moltiplicarono gli attentati contro i gasdotti. Molti sono attori locali, islamisti e non, che nel 2011 cercarono di approfittare dell’insicurezza, ciò che rafforzò i pregiudizi degli egiziani della Valle e del potere centrale. Durante il Ramadan del 2012 alcuni jihadisti attaccarono delle truppe egiziane, commettendo il primo “massacro di Rafah” (a cui ne seguirono altri). A fronte di questa situazione, i Fratelli musulmani al potere optarono per la negoziazione e, pur non conoscendo i termini dell’accordo, sappiamo che il Sinai conobbe una calma relativa. La violenza conobbe un’impennata dopo la cacciata di Morsi, che i jihadisti hanno interpretato nei termini seguenti: se non hanno voluto un presidente che si diceva islamista pur non essendolo veramente visto che non ha applicato la sharî‘a, che cosa faranno di noi?

Oggi la situazione è questa: i jihadisti sono concentrati in un sesto o in un quinto del territorio nord-orientale. Le tribù del Sinai sono divise: alcune (i Tarrâbîn in particolare) appoggiano lo Stato centrale, altre (i Sawarka soprattutto) i jihadisti, con delle minoranze al loro interno che, in entrambi i casi, agiscono diversamente. Le tribù alleate criticano spesso lo Stato centrale, pronto a fare promesse (relativamente alla proprietà terriera, l’acqua, il coprifuoco, l’accesso ai servizi, l’indennizzo agli sfollati) che non mantiene. Queste chiedono di essere armate ma per il momento lo Stato rifiuta perché teme il fenomeno delle milizie. I notabili delle tribù si lamentano spesso di essere trattati come semplici informatori, e non hanno tutti i torti. I jihadisti chiedono una cosa sola, di non dare informazioni al potere centrale, e puniscono severamente chi disobbedisce.

Per lo Stato i problemi sono altri. Secondo alcune delle nostre fonti, i capi delle tribù chiedono allo Stato di non cercare di ostacolare i loro traffici in cambio del loro sostegno, ma è evidente che le autorità non possono accettare quel mercato. Per lungo tempo il potere non ha avuto informazioni sui gruppi jihadisti, da qui deriva la sua propensione a insistere con i notabili. Le capacità operative dell’esercito stanno migliorando, come dimostrano i recenti scontri tra militari e jihadisti. Tuttavia persistono molte falle, soprattutto nell’ambito del riconoscimento. Allo stesso tempo le forze governative sembrano incapaci di mettere in sicurezza il triangolo territoriale (al-Arish, Rafah, Shaykh Zuwayd) in cui operano i jihadisti. Nelle fila intermedie degli ufficiali, molti esprimono il desiderio di una escalation di violenza “per farla finita”. Ma i vertici sono sensibili alla critica dei media occidentali e degli attivisti, che sottolineano l’importanza dei “danni collaterali” in termini di perdite di vite umane civili, distruzione di abitazioni, emigrazione forzata. C’è ragione di pensare che lo Stato speri di poter ridispiegare perennemente le truppe egiziane in regioni in cui l’accesso gli era vietato dal Trattato di pace israelo-egiziano, se non su autorizzazione israeliana. La maggior parte dei discorsi non istituzionali sottolineano la necessità di un approccio contro insurrezionale e in termini di sicurezza umana. Essi ricordano, per esempio, che la morte di una vittima innocente (o non innocente) potenzialmente radicalizza tutta la sua famiglia. È evidente che lo Stato egiziano e i suoi agenti sono ben lontani dal padroneggiare gli strumenti, il linguaggio, i concetti e le pratiche di questo binomio.

Per quanto riguarda i jihadisti, le informazioni affidabili non sono molto numerose. Si sa che sono per la maggior parte figli di tribù del Sinai (i Sawarka, più precisamente) – ma ci sono anche un’importante minoranza proveniente dalla Valle e i foreign fighters. Si sa che ogni formazione jihadista del Sinai ha il suo “doppio”, il suo “omologo”, a Gaza, e che i due si aiutano a vicenda. Si sa che una componente importante delle truppe è formata da delinquenti che hanno trovato la via di Dio, e che le attività criminali finanziano il combattimento. Dal canto loro, gli esperti discutono per capire se questa organizzazione è “veramente” affiliata allo Stato islamico o se invece mantenga dei legami con al-Qaida, certo è che coloro che hanno assicurato o assicurano l’addestramento militare delle reclute appartengono alla sfera di Ayman al-Zawahiri.

 

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