Un grande pensatore indiano del XVIII secolo ripercorre le tappe essenziali nella formazione del diritto islamico e delle sue diverse scuole sunnite. Entro certi limiti la diversità di opinioni non è un male, ma una necessità
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:08:27
Cause delle divergenze tra i Compagni e i Successori nei rami della Legge
Al tempo dell’Inviato di Dio il diritto (fiqh) non era scritto. In quei giorni le norme non venivano dedotte come fanno oggi i giurisperiti, quando chiariscono, al meglio delle loro capacità, i precetti fondamentali, le condizioni e i costumi, ciascuno distinto dagli altri in forza di prove legali, pronunciandosi anche su situazioni immaginarie e procedendo nella misura del possibile attraverso definizioni e restrizioni.
In quel tempo, l’Inviato di Dio faceva le abluzioni e i Compagni lo vedevano e lo imitavano, senza che egli chiarisse che cosa nel suo agire fosse un precetto fondamentale e che cosa invece un semplice costume. Pregava, lo vedevano pregare e si conformavano al suo modo di agire. Faceva il pellegrinaggio, la gente osservava i suoi gesti e li imitava. Così andava nella maggior parte dei casi; il Profeta non spiegava se i pilastri dell’abluzione fossero sei o quattro e non immaginava la possibilità che qualcuno s’interrompesse durante l’abluzione per potersi poi pronunciare su tale caso, tranne poche eccezioni volute da Dio, e raramente i Compagni gli facevano domande di questo tipo. Ibn ‘Abbās[1] afferma in proposito: “Non ho mai visto gente migliore dei Compagni dell’Inviato di Dio e questi gli sottoposero solo tredici questioni, prima che fosse portato via da loro: sono tutte nel Corano. […] Facevano domande solo su quello che era utile per loro”. Il figlio di ‘Umar[2] insegnava dal canto suo: “Non fare domande su cose che non sono accadute, perché ho sentito mio padre maledire chiunque facesse domande su casi ipotetici”.
[…] La gente chiedeva pareri all’Inviato di Dio sui casi della vita e questi glieli dava, gli sottoponevano le questioni e lui le giudicava, vedeva la gente compiere una buona azione e la approvava o un atto cattivo e lo disapprovava. Tuttavia, non tutti i suoi pareri o verdetti venivano espressi in riunioni pubbliche. Per questo i due shaykh Abū Bakr[3] e ‘Umar, quando si trovavano di fronte a una questione che non sapevano come trattare, chiedevano alla gente se qualcuno conoscesse degli hadīth al riguardo. Un giorno ad esempio Abū Bakr, dovendo attribuire la quota ereditaria alla nonna di un defunto, dichiarò di non aver sentito nulla da parte del Profeta circa questo caso. Alla preghiera del mezzogiorno, tuttavia, chiese ai presenti se qualcuno avesse sentito qualcosa al riguardo da parte dell’Inviato di Dio. Al-Mughīra Ibn Shu‘ba[4] rispose di sì, che le si desse un sesto dell’eredità. «Qualcun altro ha sentito la stesso?» Muhammad Ibn Maslama si fece avanti per confermare e Abū Bakr diede alla donna il sesto dell’eredità.
[…] Quando il Profeta concluse i suoi giorni terreni, i Compagni si trovavano ancora in questa condizione. Poi si dispersero nelle varie contrade e ognuno divenne fonte d’imitazione per una determinata regione. Di fronte ai molti nuovi casi e questioni su cui fu richiesto il loro parere, ogni Compagno faceva appello alla sua memoria e deduzione. E se non trovava né nella memoria né nella deduzione alcun elemento per rispondere, si sforzava di produrre un’interpretazione secondo la sua personale opinione, cercando di definire il motivo (‘illa) in forza del quale l’Inviato di Dio aveva emesso un certo verdetto e di generalizzarlo ogni volta che gli fosse possibile, senza lesinare gli sforzi per conformarsi all’intento del Profeta. In questo modo sorsero divergenze tra i Compagni.
[...] I Successori trasmisero dai Compagni quello che riusciva loro più facile, memorizzarono gli hadīth dell’Inviato di Dio che poterono ascoltare e le dottrine dei Compagni e le studiarono a fondo. Raccolsero le tradizioni divergenti in loro possesso e paragonarono tra loro i detti. Alcuni di questi, pur tramandati sull’autorità dei più grandi Compagni, apparvero loro minoritari, come la tradizione riportata da ‘Umar e Ibn Mas‘ūd sull’impossibilità di compiere l’abluzione maggiore con la sabbia, che ai loro occhi risultò meno credibile dei numerosissimi hadīth in materia tramandati da ‘Ammār, ‘Imrān Ibn Husayn e altri[5]. In tal modo ogni Successore si formò la sua personale dottrina (madhhab) e in ogni regione emerse un imām, come Sa‘īd Ibn al-Musayyib e Sālim Ibn ‘Abd Allāh Ibn ‘Umar a Medina, a cui seguirono, nella stessa città, al-Zuhrī, il giudice Yahyā Ibn Sa‘īd e Rabī‘a Ibn [Abī]‘Abd al-Rahmān; ‘Atā’ Ibn Abī Rabāh a Mecca; Ibrāhīm al-Nakha‘ī e al-Sha‘bī a Kūfa; al-Hasan al-Basrī a Basra; Tāwūs Ibn Kaysān in Yemen e Makhūl in Siria[6]. […]
Cause delle divergenze tra le scuole giuridiche
Terminata l’epoca dei Successori, l’Altissimo fece sorgere una generazione di sapienti, secondo la promessa del Profeta: «Porteranno questo sapere i giusti dei secoli futuri[7]». Dai maestri che frequentavano, costoro appresero come fare l’abluzione minore e maggiore, come compiere la preghiera e il pellegrinaggio, come regolarsi nel matrimonio, nelle compravendite e in tutti i casi più comuni della vita. Trasmisero gli hadīth del Profeta e ascoltarono le sentenze emesse dai giudici delle varie regioni e i pareri giuridici (fatwe) degli esperti, sottoposero loro nuove questioni e avanzarono la loro interpretazione (ijtihād). Poi, [alla morte dei Successori], divennero i riferimenti autorevoli del popolo. Seguirono fedelmente il modello dei loro maestri, senza lesinare gli sforzi nella ricerca di allusioni o implicazioni contenute nei testi. Furono giudici e muftī, trasmettitori e docenti.
[…] Questa generazione ricevette l’ispirazione a mettere per iscritto le proprie dottrine. Così fecero Mālik e Muhammad Ibn ‘Abd al-Rahmān Ibn Abī Di’b a Medina, Ibn Jurayh e Ibn ‘Uyayna alla Mecca, Sufyān al-Thawrī a Kufa e Rabī‘ Ibn Subayh a Basra[8].
Quando [il califfo abbaside] al-Mansūr[9] fece il pellegrinaggio, disse a Mālik di aver deciso di far copiare i libri che Mālik aveva composto e mandarne una copia in ogni metropoli dei musulmani, perché si attenessero al loro contenuto, senza andare a cercare altrove. Ma Mālik rispose: «Comandante dei credenti, non farlo! La gente infatti ha già memorizzato molti detti e ascoltato hadīth e trasmesso narrazioni. Ogni gruppo ha appreso quanto gli è giunto e lo ha adottato. Lascia che la gente continui a regolarsi secondo quanto ogni regione ha scelto per sé!»
In un’altra versione della storia, riportata da al-Suyūtī[10], a parlare è [il califfo] Hārūn al-Rashīd[11] che consulta Mālik circa l’opportunità di appendere il Muwatta’ alle pareti della Ka‘ba e prenderlo a riferimento per tutti i musulmani. La risposta di Mālik è la stessa:
«Non farlo! I Compagni dell’Inviato di Dio hanno conosciuto delle divergenze riguardo ai rami del diritto e si sono dispersi nei vari Paesi». «Hai proprio ragione, Mālik – rispose il califfo – che Dio ti dia successo!»
[I fondatori delle prime tre scuole giuridiche: Mālik]
Mālik era il più ferrato negli hadīth riportati dai medinesi sul conto dell’Inviato di Dio e il più fidato nelle catene di trasmettitori. Conosceva meglio di chiunque altro i verdetti emessi da ‘Umar e i detti del figlio di ‘Umar, di ‘Ā’isha[12] e dei Sette Giuristi[13]. Su di essi edificò la scienza delle tradizioni e quella delle fatwe e quando gli fu affidata l’autorità, trasmise hadīth, emise fatwe, insegnò e beneficò. A lui si applica il detto del Profeta «Tra poco la gente arriverà a percuotere il dorso dei cammelli alla ricerca del sapere, ma non troveranno nessuno più esperto del Dotto di Medina», secondo quanto riferito da Ibn ‘Uyayna e ‘Abd al-Razzāq al-San‘ānī[14], per citare solo due nomi. I suoi compagni raccolsero le tradizioni da lui trasmesse e le sue selezioni di hadīth, le riassunsero, editarono e commentarono, ne derivarono norme, si pronunciarono sulle loro radici e prove e si dispersero verso il Maghreb e in tutte le regioni delle terra. Dio beneficò molte creature con i loro insegnamenti e se vuoi verificare quello che abbiamo sostenuto circa l’origine di questa scuola giuridica, ti basta leggere il Muwatta’: troverai che le cose stanno esattamente come diciamo.
[Abū Hanīfa]
Abū Hanīfa[15] era il più legato di tutti alla scuola di Ibrāhīm al-Nakha‘ī e dei suoi soci, tranne pochissime eccezioni volute da Dio, ed era molto abile a formulare deduzioni secondo la sua scuola, estremamente sottile nei ragionamenti e capace di analizzare una questione sotto tutti gli angoli possibili. Se vuoi rendertene conto, riassumi i detti di Ibrāhīm al-Nakha‘ī come sono riportati nel Kitāb al-Āthār di al-Shaybānī[16], nel Jāmi‘ di al-San‘ānī e nel Musannaf di Ibn Abī Shayba[17] e poi confrontali con la dottrina di Abū Hanīfa: troverai che questi se ne discosta solo in pochi casi e anche in quei pochi casi resta comunque all’interno delle opinioni sostenute dai giuristi di Kufa.
Il più famoso tra i compagni di Abū Hanīfa fu Abū Yūsuf[18], che fu giudice supremo al tempo di Hārūn al-Rashīd. Fu lui a diffondere la dottrina hanafita in Iraq, Khorasan e Transoxiana. Il migliore dal punto di vista della classificazione degli hadīth e dello studio fu invece al-Shaybānī: di lui si racconta che dopo essersi formato sotto la guida di Abū Hanīfa e Abū Yūsuf si recò a Medina dove apprese il Muwatta’ da Mālik. Quindi, dopo aver fatto ritorno al suo Paese, confrontò la dottrina dei suoi maestri con quella del Muwatta’ questione su questione. Se erano in accordo, vi si atteneva. In caso contrario, se vedeva un gruppo di Compagni e Successori seguire la dottrina dei suoi maestri, la adottava comunque. Ma se trovava un’analogia debole o una deduzione discutibile contraddetta da un hadīth autentico applicato dai giuristi o smentita dalla prassi della maggior parte degli ulema, lasciava perdere la dottrina hanafita per abbracciare quella tra le posizioni degli antenati che gli sembrava più probabile.
Sia Abū Yūsuf che al-Shaybānī si mantennero comunque quanto più possibile nella scia di Ibrāhīm al-Nakha‘ī, come del resto aveva fatto Abū Hanīfa. […] Proprio per questo Abū Hanīfa è considerato come una sola scuola con Abū Yūsuf e al-Shaybānī, benché anch’essi siano stati interpreti assoluti (mujtahid mutlaq) e malgrado le non poche differenze che li separano da Abū Hanīfa nelle radici e nei rami del diritto. Tutti infatti si ritrovano uniti nella comune origine; inoltre le loro dottrine sono riportate insieme nel Mabsūt e nel Jāmi‘ al-kabīr [di al-Shaybānī].
[Al-Shāfi‘ī]
Quando già stavano prendendo forma le scuole giuridiche malikita e hanafita e si stava procedendo all’ordinamento delle loro dottrine in radici e rami, sorse al-Shāfi‘ī[19]. Questi, considerando l’opera dei suoi predecessori, scorse molti difetti che gli impedirono di aderirvi, come spiegò nell’introduzione al suo Kitāb al-Umm. […] Tra gli errori indicati da al-Shāfi‘ī vi è ad esempio che alcuni hadīth autentici non furono noti ai Successori incaricati di fornire pareri giuridici. Essi allora si pronunciarono secondo la loro opinione o la considerazione generale di che cosa è giusto, oppure seguirono l’esempio di qualche Compagno. Quando nella terza generazione fecero la loro comparsa gli hadīth relativi a queste questioni, i giuristi non li vollero applicare pensando che fossero in contrasto con la prassi della loro città e la sua tradizione indiscussa e che questo giustificasse il rifiuto dello hadīth o lo rendesse quantomeno sospetto. Lo hadīth poteva spuntare anche dopo la terza generazione, quando i tradizionisti si dedicarono accanitamente a raccogliere tutte le vie di trasmissione viaggiando per ogni dove alla ricerca dell’intero sapere [religioso].
Infatti molti hadīth riportati dai Compagni sono stati trasmessi da un solo uomo o due, che a loro volta li hanno tramandati a un solo uomo o due e così via e per questa ragione rimasero sconosciuti agli esperti di diritto finché non riapparvero nell’epoca dei grandi tradizionisti che raccolsero tutte le vie di trasmissione del sapere religioso. Ad esempio molti hadīth furono trasmessi dalla gente di Basra o di un’altra contrada a insaputa gli uni degli altri.
Al-Shafī‘ī spiegò che i Compagni e i Successori chiedevano sempre se qualcuno conoscesse delle tradizioni relative alle questioni che erano loro sottoposte. Se non li trovavano, si servivano di un altro modo di argomentare, ma se in un secondo tempo spuntava un hadīth, lasciavano perdere il loro sforzo interpretativo per privilegiare lo hadīth. Pertanto – concludeva al-Shāfi‘ī – il fatto che questi Compagni o Successori non abbiano applicato un hadīth non costituisce una prova della sua falsità, a meno che non abbiano espresso in modo esplicito il motivo del loro rifiuto! […] In sintesi al-Shāfi‘ī, scorgendo questi difetti nell’opera dei suoi predecessori, riprese in mano il diritto da cima a fondo: diede un solido fondamento alle radici, distinse opportunamente i rami, compose dei libri, beneficò e insegnò. Attorno alla sua opera si raccolsero i giuristi, la compendiarono e commentarono, ne trassero argomenti e deduzioni. Poi si dispersero nei vari Paesi e così nacque la scuola shafiita.
Cause delle divergenze tra tradizionisti e partigiani del ragionamento
Tra gli ulema dell’epoca di Sa‘īd Ibn al-Musayyib, Ibrāhīm al-Nakhā‘ī e al-Zuhrī, come pure tra quelli dell’epoca di Mālik e Sufyān al-Thawrī e delle generazioni successive, c’era un gruppo di studiosi che aborrivano il ragionamento (ra’y) e si guardavano dal fornire responsi legali o avanzare deduzioni se non in casi di necessità estrema. Il loro più grande interesse era invece trasmettere correttamente gli hadīth dell’Inviato di Dio.
[…] Quando nei Paesi islamici si diffuse l’abitudine di mettere per iscritto gli hadīth e i detti dei Compagni e si iniziarono a produrre testi e appunti, quasi tutti i tradizionisti parteciparono a questo movimento, in primo luogo per le loro necessità. I loro più grandi esponenti si misero così a percorrere in lungo e in largo lo Hijaz, la Siria, l’Iraq, l’Egitto, lo Yemen e il Khorasan, raccogliendo i libri e inseguendo le note scritte, alla caccia di hadīth rari e detti poco conosciuti. Grazie al loro interessamento si mise insieme una quantità di hadīth e detti mai raccolta prima di allora. Essi così poterono attingere alle tradizioni con una facilità sconosciuta in precedenza, arrivando a raccogliere cento e più vie di trasmissione per una singola tradizione, che spesso si completavano a vicenda. Riuscirono a determinare la diffusione di ogni hadīth, perfezionarono lo studio delle tradizioni parallele e convergenti e scoprirono molti hadīth autentici che fino a quel momento erano stati ignorati dai giuristi incaricati di fornire pareri legali.
[…] I tradizionisti di questa generazione tramandavano circa 40.000 hadīth. Di al-Bukhārī[20] si dice addirittura che per comporre il suo Sahīh passò in rassegna 600.000 hadīth, mentre Abū Dāwūd[21] per le sue Sunan avrebbe esaminato 500.000 hadīth. Ahmad Ibn Hanbal[22], dal canto suo, concepì il progetto del Musnad come uno strumento per determinare con precisione le tradizioni profetiche: quello che vi si trovava, anche per una sola via di trasmissione, sarebbe stato fondato; infondato invece quello che non vi si trovava.
[…] Poi l’Altissimo fece sorgere una nuova generazione. Costoro, vedendo che i loro maestri si erano già assunti l’onere di raccogliere gli hadīth e ordinare il diritto risparmiando loro questa fatica, si assegnarono altri compiti, come individuare gli hadīth autentici ammessi da tutti i grandi tradizionisti quali Yazīd Ibn Hārūn, Yahyā Ibn Sa‘īd al-Qattān, Ahmad Ibn Hanbal, Ishāq[23] e i loro simili, oppure raccogliere [in compilazioni specifiche] gli hadīth giuridici utilizzati dai giuristi delle metropoli e dagli ulema dei vari Paesi per costruire le loro scuole, o ancora esaminare il valore preciso di ogni hadīth, compresi quelli anomali o isolati non trasmessi dai loro maestri o le vie di trasmissione non dichiarate dai primi tradizionisti e contenenti una catena ininterrotta o migliore delle altre o una trasmissione da giurista a giurista o da esperto coranico a esperto coranico o altre ricerche scientifiche di questo genere. Questi studiosi sono al-Bukhārī, Muslim, Abū Dāwūd, ‘Abd Ibn Humayd, al-Dārimī, Ibn Māja, Abū Ya‘lā, al-Tirmīdhī, al-Nasā’ī, al-Dāraqutnī, al-Hākim, al-Bayhaqī, al-Khatīb, al-Daylamī, Ibn ‘Abd al-Barr e altri[24]. A mio avviso i più sapienti, utili e famosi, sono quattro studiosi che vissero all’incirca nella stessa epoca, cioè al-Bukhārī, Muslim, Abū Dāwūd e al-Tirmīdhī[25].
Abū ‘Abd Allāh al-Bukhārī si prefisse di isolare gli hadīth autentici, di ampia diffusione e con una catena ininterrotta e dedurre da essi il diritto, la vita del Profeta e l’esegesi coranica. La sua “Raccolta autentica” (al-Jāmi‘ al-sahīh) centrò questo obbiettivo. Ci è stato raccontato in proposito che una notte un uomo pio vide l’Inviato di Dio in sogno. «Che fai? – gli chiese il Profeta. Ti sei messo a studiare al-Shāfi‘ī e hai tralasciato il mio libro?» «Qual è questo tuo libro, o Inviato di Dio?» «È il Sahīh di al-Bukhārī». In verità non si può immaginare autore più famoso e più universalmente accettato.
[I partigiani del ragionamento]
Al tempo di Mālik e Sufyān al-Thawrī e nelle epoche successive ci furono però, oltre a questi esperti di tradizioni, altri studiosi che non aborrivano l’idea di pronunciarsi sulle questioni di diritto e non si rifiutavano di fornire responsi legali, convinti che la giurisprudenza fosse il fondamento della religione e dovesse raggiungere la massima diffusione possibile. Costoro si guardavano invece dal trasmettere le tradizioni dell’Inviato di Dio e dall’attribuirgliele, al punto che al-Sha‘bī preferiva i detti che non risalivano al Profeta, perché un’eventuale aggiunta o mancanza non avrebbe toccato la sua persona. Ugualmente Ibrāhīm al-Nakha‘ī preferiva alle tradizioni attribuite al Profeta quelle di ‘Alqama[26] e Ibn Mas‘ūd e quest’ultimo, quando riportava una tradizione dell’Inviato di Dio, si faceva scuro in volto e aggiungeva [per scrupolo religioso]: «Ha detto all’incirca così». Quando ‘Umar mandò alcuni Compagni delle varie città-guarnigioni a Kufa, li mise in guardia in questi termini:
«Voi ora andate a Kufa, dove troverete un popolo infervorato. Verranno da voi e diranno: “Sono arrivati i Compagni di Muhammad, sono arrivati i Compagni di Muhammad!”. Vi chiederanno di narrare loro degli hadīth, ma voi trasmetterete il meno possibile sul conto dell’Inviato di Dio!».
[…] Costoro ordinarono il diritto sulla base della derivazione (takhrīj). Essa consiste prima di tutto nel memorizzare il libro che espone nel modo migliore, più accurato e preciso, la dottrina dei maestri della scuola. Successivamente, per ogni questione su cui deve pronunciarsi e per ogni necessità che incontra, il giurista prenderà in considerazione le dichiarazioni esplicite dei capi scuola. Se trova la risposta, si atterrà a quella. Altrimenti prenderà in esame la generalità del loro discorso per adattarvi il caso particolare, oppure un’indicazione implicita da cui dedurre la norma. Potrà capitare infatti che una proposizione contenga allusioni o implicazioni da cui si può comprendere il senso voluto. Oppure la questione su cui deve pronunciarsi potrà essere simile a un’altra e accostabile ad essa. Oppure ancora il giurista può arrivare a definire, con ragionamento e attento esame[27], il motivo (‘illa) della norma e applicarlo a un altro caso non previsto esplicitamente. Può disporre di due proposizioni che, collegate per mezzo di un sillogismo categorico o condizionale, possono produrre la risposta voluta. A volte nel discorso dei maestri si troveranno casi noti per via di esempio o suddivisione, senza che sia dichiarata la definizione che li accomuna e individua. Il giurista allora, rivolgendosi agli esperti di lingua, dovrà definire l’elemento specifico e far emergere la definizione che accomuna e individua le fattispecie, chiarendo i punto oscuri e distinguendo i casi solo apparentemente simili. Ancora, la proposizione dei maestri può prestarsi a due interpretazioni e il giurista cercherà di determinare la più probabile. Può darsi che le prove per risolvere la questione siano nascoste e tocchi al giurista esplicitarle. O ancora questi può argomentare dal modo di agire dei maestri o dal loro silenzio e così via.
Tutto questo si chiama derivazione (takhrīj). Si dice anche “L’enunciato derivato da Tizio è questo”, oppure “Secondo la scuola di Tizio o il fondamento di Caio o l’enunciato di Sempronio la risposta alla questione è così e così”. Coloro che praticano questo genere di derivazione sono chiamati “interpreti autorizzati all’interno di una scuola” (mujtahid fī-l-madhhab). È a questo tipo di ijtihād che si riferisce chi afferma che chiunque impari a memoria il Mabsūt[28] è un interprete qualificato (mujtahid), anche se non sa nulla della scienza delle tradizioni e non conosce neppure un singolo hadīth. Ogni scuola giuridica fa ampio uso della derivazione. […]
[Riconciliazione tra le due posizioni]
In realtà il takhrīj, tanto nel senso di “derivazione” usato dai giuristi quanto in quello di “esame critico dello hadīth” proprio dei tradizionisti, possiede un solido fondamento nella religione. I maggiori ulema di ogni epoca si sono sempre serviti di entrambi. È vero che c’è chi è più ferrato nella derivazione e meno nella tradizione e chi invece è più forte negli hadīth e meno nel ragionamento giuridico, ma è opportuno non trascurare completamente nessuna delle due cose, come invece fanno normalmente i rappresentanti dei due partiti. Quello che è giusto è unire un metodo all’altro e rimediare ai difetti di entrambi. Così infatti insegnava al-Hasan al-Basrī:
«In nome di Dio, al di fuori del quale non vi è altro dio, la vostra Sunna sta tra l’eccesso e la freddezza»
La gente dello hadīth deve sottoporre le tradizioni che ha scelto di adottare al giudizio degli interpreti qualificati (mujtahid) tra i Successori e tra quelli che sono venuti dopo di loro. La gente della derivazione deve appoggiare quelle tradizioni che non contraddicono un hadīth esplicito e deve evitare di sostenere un’opinione quando ha a disposizione un hadīth o un detto, per quanto possibile. […] Nella pratica però ho trovato che questi due gruppi, nonostante la loro prossimità e il bisogno assoluto che ciascuno ha dell’altro, sono come fratelli separati, che non si sostengono e non cooperano come dovrebbero per arrivare alla verità. Così, gli esperti di tradizioni nella grande maggioranza dei casi hanno la fissa delle catene e delle vie di trasmissione e vanno a caccia degli hadīth più insoliti e anomali, benché siano in gran parte inventati di sana pianta o alterati. Non si curano del testo e non cercano di penetrarne il significato; non riescono a capire il senso intimo delle tradizioni [che apprendono] e non sono capaci di estrarre il tesoro che esse contengono. A volte accusano violentemente i giuristi di trasgredire la Sunna senza rendersi conto di quanto siano incapaci di mettere a profitto il sapere che hanno ricevuto. Così si rendono colpevoli di calunnia verso i giuristi.
D’altra parte anche gli esperti di diritto e di speculazione hanno perlopiù solo una minima infarinatura di hadīth, al punto che fanno grande fatica a distinguere i detti autentici da quelli falsi e le tradizioni buone da quelle cattive. Non si fanno scrupoli a servirsi contro i loro avversari di qualsiasi tradizione, purché dia ragione alla loro scuola o alle loro opinioni. Così hanno preso l’abitudine di accettare gli hadīth deboli o interrotti, se sono da lungo tempo insegnati nella loro scuola, pur non avendo alcuna prova o sicurezza che siano veri. E questa è una forma di arbitrio e inganno.
L’adesione a una delle quattro scuole [e la loro accettazione reciproca]
[…] Tra i Compagni, i Successori e le generazioni che vennero dopo c’era chi recitava la basmala[29] nella preghiera e chi non la recitava, chi la proclamava ad alta voce e chi la pronunciava sotto voce, chi aggiungeva un’invocazione (qunūt) nella preghiera dell’alba e chi non la aggiungeva, chi faceva l’abluzione dopo aver subito un salasso, aver perso sangue dal naso o aver vomitato e chi no, chi faceva l’abluzione per aver toccato un uomo o una donna con concupiscenza e chi no, chi faceva l’abluzione dopo una scottatura e chi no, chi faceva l’abluzione per aver mangiato carne di cammello e chi no. E nonostante questo, ognuno di loro pregava dietro gli altri.
E ugualmente Abū Hanīfa e i suoi compagni, al-Shāfi‘ī e gli altri, pregavano dietro gli imām malikiti di Medina o altri, anche se non recitavano la basmala né sotto voce né ad alta voce. Una volta [il califfo Hārūn] al-Rashīd guidò la preghiera subito dopo un salasso e Abū Yūsuf pregò dietro di lui senza obiettare, perché l’imām Mālik aveva espresso al califfo il parere che in un caso del genere non fossero necessarie le abluzioni. Dato che l’imām Ahmad Ibn Hanbal era dell’opinione che dopo il sangue dal naso e i salassi si dovessero fare le abluzioni, un giorno gli chiesero: «Se l’imām che guida la preghiera ha avuto una perdita di sangue e non ha fatto le abluzioni, tu pregheresti comunque dietro di lui?» «E come non pregherei – rispose – dietro l’imām Mālik e dietro Sa‘īd Ibn al-Musayyib?!»
[…] Un giorno al-Shāfi‘ī pregò al mattino vicino alla tomba di Abū Hanīfa e per rispetto verso di lui non aggiunse alcuna invocazione, commentando: «Più di una volta siamo stati attratti dal modo di pregare della gente dell’Iraq». E abbiamo già citato quello che Mālik rispose ad al-Mansūr o a Hārūn al-Rashīd.
[Shāh Walī Allāh al-Dihlawī, Al-Insāf fī bayān asbāb al-ikhtilāf (“L’equanime esposizione delle cause della divergenza”), a cura di ‘Abd al-Fattāh Abū Ghudda, Dār al-Nafā’is, Bayrūt 19862 passim, traduzione dall’arabo di Martino Diez]
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1] Cugino di Muhammad, di grande importanza per l’esegesi coranica e le scienze religiose in genere.
[2] ‘Umar Ibn al-Khattāb fu il secondo califfo (r. 634-644). Suo figlio non ebbe un ruolo politico, ma si dedicò alla trasmissione delle tradizioni del Profeta.
[3] Primo califfo (r. 632-634), tra i più antichi seguaci di Muhammad alla Mecca.
[4] Altro celebre compagno, fu governatore dell’Iraq sotto ‘Umar e ‘Uthmān e i primi omayyadi. Muhammad Ibn Maslama, medinese, fu uno dei maggiori capi militari sia sotto Muhammad che sotto i suoi successori. L’episodio a cui fa riferimento l’autore è narrato nel Muwatta’ di Mālik (Kitāb al-farā’id, bāb mīrāth al-jadda, p. 374 dell’edizione italiana a cura di Roberto Tottoli, Einaudi, Torino 2011).
[5] ‘Abd Allāh Ibn Mas‘ūd, tra i primissimi convertiti all’Islam, ebbe un ruolo di primo piano nella trasmissione del Corano. Secondo Ibn Mas‘ūd e ‘Umar l’abluzione con la sabbia non rimuoveva l’impurità maggiore. Tuttavia tra i giuristi prevalse l’opinione di ‘Ammār Ibn Yāsir (uno degli eroi della Battaglia di Badr) e ‘Imrān Ibn Husayn, che consideravano l’abluzione con la sabbia equivalente a quella con l’acqua, quando quest’ultima non era disponibile.
[6] A Medina vissero alcuni tra i più importanti Successori: tra di essi spicca Sa‘īd Ibn al-Musayyib (m. 715), uno dei cosiddetti “Sette Giuristi di Medina”, e Sālim, il nipote del califfo ‘Umar, mentre nella generazione successiva si distinse al-Zuhrī (m. 742), figura chiave nella fissazione dell’Islam sotto gli omayyadi, in particolare per quanto riguarda la biografia del Profeta. Campione del ragionamento individuale fu invece Rabī‘a Ibn Abī ‘Abd al-Rahmān e sempre medinese fu il tradizionista Yahyā Ibn Sa‘īd al-Ansārī. Di origine nubiana, ‘Atā’ Ibn Abī Rabāh fu il più eminente giurista della Mecca nell’epoca dei Successori. Al-Nakha‘ī (m. verso il 717) e al-Sha‘bī (m. dopo il 720) furono invece i due principali giuristi di Kufa. Al-Sha‘bī è noto per la sua avversione alla messa per iscritto degli hadīth, che iniziava allora a prendere piede. Al-Hasan al-Basrī (m. 728) fu uno dei maggiori teologi e mistici dell’epoca omayyade (cfr. «Oasis» 26 [2017], 94-100). D’origine persiana fu Tāwūs Ibn Kaysān, attivo in Yemen e discepolo di Ibn ‘Abbās, mentre Makhūl al-Hudhalī o al-Shāmī fu il più grande tradizionista dell’epoca dei Successori in Siria, partigiano del libero arbitrio.
[7] Il celebre hadīth continua: «respingendo le alterazioni degli eccessivi, le perversioni dei bugiardi e le interpretazioni degli ignoranti».
[8] Tra questi nomi di giuristi il più importante, oltre a Mālik, è Sufyān al-Thawrī (716-778), tradizionista e asceta iracheno, fondatore di una scuola giuridica che tuttavia non gli sopravvisse. Sufyān Ibn ‘Uyayna invece è il più importante studioso meccano nella terza generazione di musulmani.
[9] Secondo califfo della dinastia abbaside e fondatore di Baghdad, regnò dal 754 al 775.
[10] Il celebre poligrafo egiziano del XV secolo (1445-1505), giurista, tradizionista, linguista ed esperto di scienze coraniche. Cfr. «Oasis» 23 (2016), 96-104.
[11] Quinto califfo abbaside (r. 786-809), è ricordato nella tradizione araba come il prototipo del governante giusto e saggio.
[12] Figlia di Abū Bakr, ‘Ā’isha fu la favorita tra le mogli del Profeta ed ebbe un importante ruolo politico nell’Islam delle origini.
[13] Si tratta di sette Successori particolarmente versati in diritto, vissuti tutti a Medina. Sono il già visto Sa‘īd Ibn al-Musayyib, ‘Urwa Ibn al-Zubayr, al-Qāsim Ibn Muhammad Ibn Abī Bakr, ‘Ubayd Allāh Ibn ‘Abd Allāh ‘Utba Ibn Mas‘ūd, Khārija Ibn Zayd Ibn Thābit, Sulaymān Ibn Yasār e Abū Salama Ibn ‘Abd al-Rahmān Ibn ‘Awf. In arabo sono noti come al-fuqahā’ al-sab‘a.
[14] Al-San‘ānī, che come dice il nome visse a Sana‘a in Yemen, è autore di una delle più antiche raccolte di hadīth, nota come Musannaf (cioè “Tradizioni ordinate per argomento”, in contrapposizione a Musnad, “Tradizioni ordinate per nome del trasmettitore”).
[15] Abū Hanīfa (m. 767) è il fondatore della scuola hanafita, che è la più diffusa tra i musulmani sunniti. Il suo insegnamento giuridico è noto solo tramite i suoi discepoli, tra i quali spiccano Abū Yūsuf e al-Shaybānī.
[16] Muhammad al-Shaybānī (750-805 circa) fu discepolo di Abū Hanīfa, ma studiò anche con Mālik e fu tra i maestri di al-Shāfi‘ī. Tra le sue opere spiccano il Mabsūt (o Asl) e il Jāmi’ al-kabīr.
[17] Altro tradizionista di rilievo, vissuto a Kufa tra il 775 e l’849, Ibn Abī Shayba è autore di un’altra delle prime compilazioni di tradizioni, nota anch’essa con il titolo di Musannaf.
[18] Abū Yūsuf, morto a Baghdad nel 798, diffuse le dottrine del maestro Abū Hanīfa sia per mezzo dei suoi scritti sia soprattutto attraverso la sua funzione ufficiale di giudice supremo dell’impero.
[19] Muhammad Ibn Idrīs al-Shāfi‘ī (767-820) è il fondatore della terza scuola giuridica del Sunnismo. Allievo di al-Shaybānī e grande sistematizzatore del diritto islamico, ebbe un ruolo determinante nell’adozione degli hadīth come fonte primaria della Legge. Tra le sue opere spiccano la Risāla (sulla metodologia del diritto) e il Kitāb al-Umm (sui casi concreti).
[20] Autore di uno dei due Sahīh (“Raccolta autentica”), al-Bukhārī, morto nell’870 a Bukhārā nell’attuale Uzbekistan, è considerato l’autorità più affidabile in fatto di hadīth. Il suo nome è spesso associato a quello di Muslim, morto a Nishapur in Persia nell’870 e autore dell’altro Sahīh.
[21] Abū Dawūd al-Sijistānī, morto nell’888, è un altro grande studioso di hadīth. Le sue Sunan (“Tradizioni”) fanno parte dei cosiddetti Sei Libri di hadīth sunniti, insieme ai due Sahīh di al-Bukhārī e Muslim e alle raccolte di Ibn Māja (m. 886), al-Tirmīdhī (m. 898) e al-Nasā’ī (m. 915).
[22] Grande esperto di tradizioni, Ahmad Ibn Hanbal (780-855) è noto per la sua inflessibile difesa della natura increata del Corano. Walī Allāh lo considera principalmente come studioso di hadīth. Furono infatti i suoi discepoli a sistematizzarne le opinioni giuridiche, dando vita, dopo la sua morte, alla quarta scuola giuridica dell’Islam sunnita, lo hanbalismo.
[23] A parte il nome già incontrato di Ahmad Ibn Hanbal, tra i tradizionisti di questa generazione si conservano alcune opere di Ishāq Ibn Rāhwayh (m. 853), che fu maestro di Muslim.
[24] Si tratta dei grandi nomi della scienza dello hadīth. Oltre ai compilatori dei Sei Libri, vanno ricordati almeno al-Dārimī (m. 869), al-Dāraqutnī (m. 955), al-Hākim al-Naysābūrī (m. 1014), al-Bayhaqī (m. 1066) e al-Khatīb al-Baghdādī (m. 1071). In forza del costante affinamento del metodo, queste opere non sono meno rilevanti per il diritto islamico di quelle delle prime generazioni.
[25] L’autore fornisce a questo punto un ritratto di ognuno dei quattro tradizionisti. Traduciamo solo quello di al-Bukhārī. È evidente che, per Walī Allāh, Ibn Māja e al-Nasā’ī non si collocano sullo stesso piano di autorevolezza degli altri quattro maestri.
[26] Discepolo di Ibn Mas‘ūd, ‘Alqama Ibn Qays al-Nakha’ī appartenne alla generazione dei Successori e fu tra i fondatori della “scuola” di Kufa. È particolarmente apprezzato da Abū Hanīfa.
[27] Correggo a senso la lezione a testo da hadhf a hadhq.
[28] Potrebbe trattarsi tanto del Mabsūt di al-Shaybānī quanto dell’omonima opera del giurista Abū Bakr al-Sarakhsī (XI secolo), entrambi testi fondativi della scuola hanafita.
[29] Si tratta della formula “Nel nome di Dio Clemente Misericordioso”, molto comune tra i musulmani.