Dal Cairo a Montpellier a Parigi, il viaggio interiore dello studente universitario Taha Hussein
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 16:52:37
Rihla: si chiama così in arabo il racconto di viaggio, un genere letterario molto popolare fin dall’epoca classica. E in questo genere letterario rientra anche la terza parte de I Giorni, l’autobiografia del grande intellettuale egiziano Taha Hussein (1889-1973)[1].
Il suo viaggio, che lo conduce dal Cairo a Montpellier e quindi a Parigi, è però tutto interiore, privo di qualsiasi descrizione visiva. Non potrebbe essere altrimenti, poiché l’autore rimase cieco da bambino per una malattia malcurata nell’Alto Egitto nativo. Forse proprio la tendenza introspettiva permette alla narrazione di concentrarsi sull’essenziale: l’incontro tra la cultura arabo-islamica, in cui Taha Hussein è stato formato, e la modernità occidentale, rappresentata dalla Francia di inizio Novecento.
La storia prende le mosse nel 1910, quando l’autore, allora giovane studente inviato all’Azhar per conseguire il titolo di ulema, decide di abbandonare la moschea, stanco dei corsi ripetitivi e mnemonici. S’iscrive allora all’Università Egiziana, appena fondata dal Khedivè per promuovere un’istruzione di tipo occidentale. L’impatto con il moderno ateneo è folgorante. Taha descrive lungamente l’entusiasmo per il contenuto dei corsi, che gli spalancano la storia del Vicino Oriente antico e delle sue civiltà appena riscoperte, ed è affascinato dal metodo innovativo e dalla personalità dei professori. Molti di loro sono occidentali, ma insegnano in arabo, come gli italiani Carlo Alfonso Nallino e David Santillana. Accanto a loro vi sono anche docenti egiziani, che permettono al giovane di non rimanere soggiogato dal confronto con l’Occidente.
Il direttore di un giornale nazionalista per cui ha cominciato a scrivere, lo shaykh ‘Abd al-‘Azīz Jāwīsh, è il primo a suggerirgli di recarsi in Francia e il giovane, conquistato dal progetto, supera con determinazione i numerosi ostacoli che si frappongono alla sua realizzazione: cecità, povertà, completa ignoranza del francese. A fine 1914 Taha approda finalmente a Montpellier. Qui in un giorno di maggio del 1915 si compie l’incontro con Suzanne Bresseau, che, probabilmente rispondendo a un annuncio, si presenta per leggere alcuni testi di letteratura francese e arrotondare così il suo magro bilancio di studentessa. I due cominciano a frequentarsi. Poco dopo Taha è richiamato in Egitto, ma ritorna a Parigi nel 1916, ritrova Suzanne e con il suo sostegno affronta e supera il temuto esame di licenza in lettere e il diploma di studi superiori. Nel 1919 completa il corso di studi conseguendo il dottorato in storia con una tesi su Ibn Khaldūn. Ma nel frattempo, nell’agosto del 1917, Suzanne è diventata sua moglie, grazie all’intervento di uno zio sacerdote che convince la famiglia di lei ad acconsentire allo strano matrimonio franco-egiziano e islamo-cristiano.
Questa, ridotta all’estremo, la concatenazione esteriore dei fatti, indispensabile per comprendere le pagine che seguono. Se abbiamo scelto di proporle in questo numero di Oasis, dedicato all’Islam in Europa, non è solo per il loro valore artistico. Esse tratteggiano infatti anche il riuscito connubio tra la formazione islamica tradizionale di Taha e la cultura francese: storia e scienze sociali – suo primo relatore di dottorato è Émile Durkheim – ma anche teatro, arte, letteratura e soprattutto musica, le grandi passioni di Suzanne. Taha diventa così, per citare le parole di un suo contemporaneo, la sintesi «dello shaykh e del dottore»[2].
Alla Sorbona Taha avrebbe voluto studiare filosofia e storia, ma il Khedivè, nel riceverlo a palazzo poco prima della sua partenza per l’Europa, lo mette in guardia dalla «filosofia che corrompe» e decide che si debba concentrare unicamente sulla storia. Così, per effetto di questo ordine fortuito, il giovane borsista è costretto ad apprendere il latino e immergersi nel mondo classico. Perdita di tempo? Niente affatto, perché proprio in questo modo Taha diverrà pienamente cosciente della parabola storica dell’Occidente, fino a proporre di recuperare la tradizione greco-romana come elemento comune tanto alla cultura egiziana quanto a quella occidentale. Questo progetto non è inteso da Taha come alternativo rispetto all’Islam. Riformatore, sostenitore del libero pensiero e della libera parola, Taha rimarrà infatti per tutta la vita musulmano, scrivendo anche numerose opere sulla storia islamica delle origini. Al tempo stesso sarà un campione infaticabile di un umanesimo universale, in forza del quale introdurrà in Egitto l’istruzione elementare gratuita durante il suo breve incarico come ministro dell’istruzione (1950-1952).
Scritta a Colle Isarco in Alto Adige pochi mesi prima di morire, questa terza parte del Libro dei Giorni ripercorre, a distanza di cinquant’anni, una stagione particolarmente felice dell’Egitto moderno, che si chiuse con l’avvento di Nasser e l’espulsione delle numerose comunità straniere. Nella vicenda di Taha e Suzanne vi è una dose di eccezionalità non replicabile, un tocco della grazia e dell’amore coniugale. Ma vi sono anche alcune condizioni favorevoli (università di prim’ordine, scambi culturali, educazione alla perseveranza, un’attenzione ai deboli che non conosce barriere sociali) che dovrebbero essere anche oggi fonte d’ispirazione per una politica accorta. Luci che ci vengono dalla meravigliosa storia di un cieco che sapeva guardare lontano e della sua moglie lungimirante.
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[1] La prima parte de I Giorni fu scritta nel 1926 in Francia, in soli nove giorni, durante la crisi seguita alla pubblicazione dello studio sulla poesia preislamica, la seconda nel 1929 e la terza solo nel 1973.
[2] Mahmoud Teymour, «Taha Hussein», La Revue du Caire 157 (1953), p. 132. Mahmoud Teymour (grafia francesizzata di Mahmūd Taymūr) è considerato uno dei fondatori del romanzo arabo moderno.