Un giovane egiziano, destinato a diventare un grande intellettuale, incontra l’università moderna, prima al Cairo e poi in Francia. Un’esperienza che dilata i suoi orizzonti, senza fargli dimenticare le origini
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 16:53:17
L’incontro con l’università moderna dilata gli orizzonti di un giovane egiziano, destinato a diventare un grande intellettuale. Passato alla Sorbona, lo studente riesce nell’impresa di superare il temuto esame di latino, conseguendo la licenza. Ma in Francia conosce anche la futura moglie, la “donna che è diventata i suoi occhi”. E, nonostante l’ammirazione per l’Europa, conserva una profonda riconoscenza per i suoi maestri egiziani, grazie ai quali non ha mai smesso di amare la civiltà orientale.
Capitolo 5: Il mio professore mi manda al diavolo!
Per il ragazzo[1] la vita all’università era una festa continua, come del resto per gli altri studenti egiziani; ma per quel che lo riguardava era una festa dai colori nuovi, di gioia, gusto, soddisfazione e speranza. L’università lo tirava fuori dall’ambiente ristretto e oppressivo dell’Azhar, di Hosh ‘Atā e di Darb al-Gamāmīz[2], e lo immetteva in un nuovo ambiente sconfinato, in cui poteva respirare a pieni polmoni nel suo quotidiano andirivieni. Poteva riempire la mente di sapere libero, non costretto dalle ristrettezze di vedute dei professori dell’Azhar e non guastato dall’eccesso di sottigliezze e dispute attorno a questa o quella parola o da tutto il tempo perso a discutere questioni grammaticali del tutto irrilevanti per il contenuto della lezione.
Quel nuovo ambiente gli dava accesso a un sapere che lo ricreava completamente, senza relazione con la grammatica, il diritto (fiqh), la logica o la teologia (tawhīd), e lo conduceva verso nuovi campi del sapere, come la letteratura e la storia, che non avrebbe mai immaginato di apprendere. Il giovane non si dimenticherà mai di quel giorno in cui litigò con suo cugino che studiava alla Dār al-‘Ulūm[3]. Tra loro si accese una disputa e lo studente della Dār al-‘Ulūm disse all’azharita: «Ma che cosa vuoi saperne tu? Sei un ignorante, le uniche cose che conosci sono la grammatica e il diritto, ma non hai mai ascoltato una lezione che sia una sulla storia dei faraoni. Ramsis e Akhenaton li hai mai sentiti nominare?» Il giovane trasecolò all’udire questi due nomi e questo tipo di storia. Pensò allora che Dio lo avesse predestinato a buttare via la propria vita senza frutto. Ma poi si rivede una sera in una classe dell’università mentre ascolta il professor Ahmad Kamāl, che Dio l’abbia in gloria, parlare della civiltà egizia antica: fa i nomi di Ramsis e Akhenaton e di altri faraoni ancora e cerca di spiegare agli studenti la sua teoria circa la relazione tra l’egiziano antico e le lingue semitiche, arabo incluso. E cita parole dell’egiziano antico accostandole ora all’arabo, ora all’ebraico o al siriaco. All’udire il discorso del professore, il giovane rimase sorpreso, ma ancor più sorpreso al notare che riusciva a capirlo e mandarlo giù senza difficoltà o sforzo.
Quella sera tornò a casa tutto orgoglioso e pieno di sé. Ancora non aveva incontrato il cugino che già scuoteva le spalle, prendendo in giro lui e quella Dār al-‘Ulūm di cui tanto andava fiero. «Alla Dār al-‘Ulūm le studiate le lingue semitiche?» Quando quello rispose che non erano materia d’insegnamento, il giovane s’inorgoglì e fece i nomi di ebraico, siriaco e geroglifico, cercando di spiegare al suo collega come facevano a scrivere gli egiziani antichi. Le parti si invertirono: il vinto uscì vincitore e il vincitore vinto.
[…] Ben presto l’università assorbì tutta la sua mente e tutti i suoi sforzi a esclusione di qualsiasi altra cosa. Si presentarono infatti dei nuovi docenti che lo conquistarono completamente: il professor Carlo Nallino[4], orientalista italiano, che insegnava in arabo la storia della letteratura e la poesia omayyade; il professor Santillana[5] che insegnava anche lui in arabo, con un dolce accento tunisino, la storia della filosofia islamica e la storia delle traduzioni [greco-arabe] in particolare. E il professor Meloni[6] che esponeva, sempre in arabo, la storia dell’Oriente antico. Presentava agli studenti cose di cui nessuno prima di lui aveva mai parlato in Egitto, la storia di Babilonia e dell’Assiria, la scrittura cuneiforme sumera, il Codice di Hammurabi. E il giovane capiva tutto quello che dicevano quei professori, senza fatica o pena. La cosa che più odiava era la fine della lezione e nulla aspettava con più intensità che l’inizio della successiva.
C’era poi un professore tedesco, Littmann[7], che, dopo aver parlato agli studenti delle lingue semitiche e della filologia comparata, iniziò a insegnare loro alcune di queste lingue. Il giovane ormai aveva abbandonato la sua vita di prima, non fosse stato per i suoi colleghi studenti all’Azhar, a Dār al-‘Ulūm e alla Scuola della Magistratura con cui condivideva ancora le ore del giorno e una parte della notte[8]. Ma la sua mente aveva preso completamente congedo da quell’ambiente, stringendo invece uno stretto rapporto con i nuovi professori. Questi lo conoscevano tutti, gli riservavano attenzioni e affetto, lo avevano ammesso alla loro amicizia e lo invitavano a casa loro, apprezzandone la conversazione. Il giovane non potrà mai dimenticare tra tutte una mattina in cui si mise d’accordo con il professor Santillana per andare ad assistere a una lezione all’Azhar. Il professore e l’allievo si diedero appuntamento davanti al portico di ‘Abbas II[9] e andarono insieme alla lezione dello Shaykh al-Azhar Salīm al-Bishrī[10], che Dio ne abbia misericordia, il quale insegnava esegesi coranica tutte le mattine sotto il portico di ‘Abbas.
Professore e allievo presero posto tra gli studenti e lo Shaykh iniziò a spiegare un versetto della Sura dei Greggi: «Ché se anche avessimo loro mandato gli angeli, o parlassero loro i morti, e se avessimo radunato al loro cospetto tutte le cose a schiera a schiera, non crederebbero se non in tanto in quanto Iddio voglia. Ma i più di loro ignorano questo» (Cor. 6,111). Lo Shaykh, che Dio ne abbia misericordia, fornì un’ottima esegesi del versetto e s’immerse nella discussione sulla predestinazione e il libero arbitrio, prendendo a refutare i partigiani della predestinazione e i loro argomenti.
Com’è costume degli azhariti, il giovane inizia a interloquire con lo Shaykh. Lo Shaykh lo ascolta e gli risponde in un modo che non lo convince, il giovane insiste e lo Shaykh lo apostrofa con queste parole: «Quello che Dio vuole avviene e quello che non vuole non avviene! Dio è più grande del nostro sapere e della nostra fede. Lei è musulmano?». Il giovane vorrebbe rispondere, ma lo Shaykh gli si rivolge con rabbiosa ironia: «Zitto, shaykh, vai alla malora, lasciaci leggere!»[11]. E riprende a parlare senza più curarsi del giovane. Questi vorrebbe replicare ancora, ma il professore italiano gli dà un colpetto sulla spalla e gli sussurra all’orecchio in quel suo dolce arabo tunisino: «Zitto, zitto, sennò ti prende a botte!». Ma nel dirlo pronuncia la dād [di darab, “picchiare”] come fosse una zā’. E il giovane scoppia a ridere dentro di sé, non sa neppure lui se per l’ironia dello Shaykh o per la delicatezza del professore italiano e la sua attenzione verso di lui.
Terminata la lezione, il giovane portò il professore italiano alla direzione dell’Azhar. Chiese e ottenne di poter incontrare lo Shaykh al-Azhar e questi lo accolse con amichevole cortesia. Poi volgendosi al giovane gli chiese con garbo: «Sei tu quello che si è messo a questionare durante la lezione?» «Sì». «Santo Cielo! Santo Cielo! – commentò lo Shaykh ridendo. Che Dio ti conceda successo e ti dia degli studenti così molesti come tu lo sei stato per i tuoi maestri!».
Capitolo 6: I miei professori
Se la vita all’università era una festa continua e un così grande diletto, non era solo merito dei professori stranieri. C’erano anche professori egiziani che aggiungevano la loro parte di lustro e splendore all’insieme. Il giovane non ha dimenticato un gruppo di quei professori che ebbe un influsso profondissimo su di lui, rinnovandone la conoscenza e la percezione della vita e la comprensione dei suoi aspetti antichi e moderni. Essi cambiarono la sua visione dell’avvenire e diedero modo alla sua personalità egiziana araba di rafforzarsi e consolidarsi, a fronte di tutta quella scienza che portavano gli orientalisti e che avrebbe potuto trasformarlo pericolosamente, finendo per dissolverlo nel sapere europeo. Quei suoi professori egiziani gli consentirono di poggiare a un solido pilastro di pura cultura orientale, in modo che la sua personalità crescesse in modo equilibrato, nutrendosi tanto di scienza orientale che occidentale. […]
Capitolo 11: In Francia
[…] Spesso l’angoscia s’impadroniva di lui al punto da non lasciarlo dormire. Mentre si trovava in preda all’insonnia, udiva un colpo alla porta, quando ormai se n’erano andati i due terzi della notte. Apriva e si faceva avanti uno dei suoi compagni che, dopo essersi abbandonato alle follie della giovinezza, non voleva andare a letto senza prima avergli raccontato alcune delle sue prodezze. Quando finiva di parlare e se ne andava a dormire, lasciava il nostro all’apice del dolore e dell’amarezza. Passava allora l’intera notte in bianco, senza un briciolo di sonno, finché al mattino si alzava spossato, svuotato di energie fisiche e mentali.
Eppure, nonostante la ristrettezza dei suoi mezzi e l’enorme fatica che gli costava frequentare l’università e assorbire quello che ascoltava a lezione, era totalmente soddisfatto della vita che faceva e completamente tranquillo. Il suo unico desiderio era andare avanti fino alla meta che Dio gli aveva fissato, fiducioso che ce l’avrebbe fatta a raggiungere quello che voleva nella vita: avrebbe padroneggiato il francese, anzi aveva già cominciato a padroneggiarlo e a parlarlo senza difficoltà, avrebbe imparato il latino e avrebbe sostenuto l’esame. E chissà, forse sarebbe stato il primo studente egiziano a conseguire la licenza in lettere.
Si trovava immerso in quest’esistenza dolceamara, dura e lieve al tempo stesso, che a volte amava intensamente e altre volte detestava completamente quando d’improvviso la vita gli sorrise, un giorno di primavera, e tutta la sua esistenza cambiò per sempre. Di colpo non seppe più che cosa fosse la solitudine, non sentì più lo sconforto invaderlo quando all’imbrunire si ritrovava da solo. E in che modo solitudine e sconforto avrebbero potuto impadronirsi di lui, come avrebbero potuto raggiungerlo quei pensieri che gli facevano tanto male e gli toglievano il sonno, se dentro di sé sentiva risuonare una dolce voce amica, buona e carica d’affetto, che gli leggeva questo o quel passo dei capolavori della letteratura francese antica?
Che Dio abbia misericordia di Abū l-‘Alā’[12]! Aveva riempito l’anima del giovane di disgusto per la vita e gli aveva fatto disperare del bene, instillandogli l’idea che la vita è tutta e solo fatica, e angoscia, e pena. Ed ecco quella voce bandiva dall’animo del giovane tutto il pessimismo e la disperazione che Abū l-‘Alā’ vi aveva piantato, come il sole primaverile che in quei giorni cacciava le nubi accumulatesi su Parigi, i venti e le tempeste, riempiendo la città di un delicato splendore.
E la città si fece tutta luce e sole.
Un giorno il giovane ascoltò quella voce leggergli una poesia di Racine. E sentì di essere stato ricreato a vita nuova. Dall’ora in cui udì quella voce, la disperazione non ebbe più potere su di lui. Il giovane non aveva mai amato la vita come la amò quel diciotto di maggio. Non aveva mai saputo studiare come iniziò a fare quel giorno. Non aveva mai frequentato l’università e letto i libri come prese a fare da quel giorno in avanti. […]
Capitolo 15: La donna che è diventata i miei occhi
Il giovane e la ragazza non trascorsero quell’estate com’è costume degli innamorati nei giorni del loro primo amore, quando si abbandonano alla dolce vita lontani da angustie o fatiche, tutti assorbiti dalla felicità del cuore e dalle fantasticherie dell’immaginazione.
I due sapevano bene di non avere tempo per le gioie d’amore. Il soggiorno del giovane in Francia aveva una scadenza, c’erano degli obblighi da rispettare e una missione da compiere, di cui era responsabile davanti all’università in Egitto. E l’università non scherzava con gli studenti che mandava a studiare in Europa.
[…] Aveva deciso di prendere prima di tutto la licenza per poi passare al dottorato. A quel tempo gli studenti egiziani non tentavano neppure la licenza perché era un’impresa molto onerosa. Richiedeva infatti per prima cosa di sapere alla perfezione il francese, per dare l’esame scritto sulla materia di studio e darlo come gli studenti francesi, scrivendo cioè in una lingua corretta, senza errori né improprietà. Ma soprattutto bisognava anche passare un esame scritto di latino; e il latino non era insegnato in Egitto, né nelle scuole secondarie, né in quelle superiori.
Gli egiziani ritenevano che non sarebbero mai riusciti a eguagliare i loro colleghi francesi in questa lingua che non avevano mai sentito prima di arrivare in Francia e che gli studenti francesi studiavano invece per sei anni nella scuola secondaria e poi anche all’università, prima di presentarsi all’esame di licenza. Per questa ragione facevano volentieri a meno di studiare il latino. Ma senza latino niente licenza.
[…] Il giovane aveva deciso che se avesse passato l’esame avrebbe telegrafato all’università, mentre se era destinato al fallimento, lo avrebbe tenuto nascosto, per quanto fosse possibile nasconderlo, circondato com’era da compagni egiziani che lo osservavano benevoli e facevano il tifo per lui. E successo fu. Il professor Sabrī al-Sorbonī[13] entrò una sera che non stava più nella pelle, quasi incapace di respirare per la corsa dalla Sorbona alla casa del giovane su su per le scale fino al sesto piano. Non appena gli aprirono, annunciò che il giovane aveva conseguito la licenza. Detto questo, si rifiutò di entrare e rifece la strada al contrario senza riprendere fiato. Sabrī al-Sorbonī aveva provato anche lui l’esame, ma appena ricevuto il testo della versione lo aveva ripiegato e aveva consegnato il compito in bianco ridendo e ripetendo quel suo verso latino sulla disperazione [che usava in queste circostanze]. Era uno spettacolo vedere come la sua gioia per il successo del compagno nel conseguire questo difficile titolo di studio prevalesse in lui sulla sua personale bocciatura.
L’egiziano diede la notizia della promozione al ragazzo, ma quegli non ci credette finché la sua fidanzata non lo accompagnò alla Sorbona e gli lesse il suo nome nella lista dei promossi. Poi, non appena tornarono a casa, la ragazza prenotò un posto per tutta la famiglia al teatro Molière, per festeggiare l’inaspettato successo del suo amico e fidanzato.
Il mattino dopo il giovane mandò un telegramma all’università. Due giorni dopo l’università rispose con un telegramma di congratulazioni, accompagnato da un premio di 20 sterline egiziane. In quel giorno i due fidanzati decisero di sposarsi, prima che la ragazza partisse con la famiglia per il sud.
Capitolo 19: Il giorno in cui cadde una bomba sulla mia casa
[…] In tutto questo la guerra finì e fu proclamato l’armistizio. Francesi e stranieri si rallegravano tutti per il ritorno della pace. Il nostro aveva appena ripreso a frequentare le lezioni dopo i problemi occorsi al suo caro amico[14] quando arrivarono notizie dall’Egitto che lo distolsero nuovamente dalla tesi. Non si sentiva però triste o terrorizzato, ma pieno di gioia e fiducia. L’Egitto domandava l’indipendenza agli Alleati vittoriosi.
Poi vennero altre notizie: la richiesta egiziana si scontrava con l’opposizione risoluta degli occupanti e il più netto rifiuto. Si riferiva che alcuni egiziani fossero stati esiliati a forza e spediti come ostaggi a Malta, e che per questo il Paese era insorto in favore dei suoi figli e contro i suoi nemici. Tutte queste notizie erano per il giovane e per i suoi compagni come acqua fresca per un assetato. Allora non erano solo gli europei a insorgere in difesa della dignità nazionale e per l’indipendenza; anche l’Egitto, in Africa, sapeva fare la sua rivoluzione, al pari di inglesi, francesi, americani e di altre nazioni occidentali.
(Taha Hussein, Al-Ayyām. Al-ajzā’ al-thalātha, Dār al-Ma‘ārif, al-Qāhira 1999 [prima edizione della terza parte 1973]. Traduzione dall’arabo di Martino Diez)
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1] Nei Giorni Taha Hussein parla di sé sempre alla terza persona.
[2] La povera casa in cui Taha Hussein viveva, insieme ad altri studenti azhariti.
[3] Fondata nel 1871, la Dār al-‘Ulūm era un’istituzione pensata per impartire un’educazione mista, in parte tradizionale e in parte di stampo occidentale. Oggi fa parte dell’università del Cairo.
[4] Carlo Alfonso Nallino (1872-1938) fu il maggiore orientalista italiano del primo Novecento. A lui si devono fondamentali studi sull’astronomia islamica, il Corano e la letteratura araba delle origini, ma anche sul dialetto egiziano moderno. Fondò l’Istituto per l’Oriente e la rivista «Oriente Moderno» e fu relatore di Taha Hussein all’Università Egiziana.
[5] David Santillana (1855-1931), nato a Tunisi da una famiglia di ebrei livornesi, ebbe un ruolo di primo piano sia nello studio del diritto islamico classico sia nell’elaborazione del codice civile e di commercio tunisino. A lui si devono le Istituzioni di diritto musulmano malichita.
[6] Gerardo Meloni (1882-1912), semitista italiano.
[7] Enno Littmann (1875-1958), semitista ed etiopista di fama internazionale. Membro dell’Accademia della Lingua araba del Cairo, guidò la leggendaria spedizione scientifica ad Aksum nel 1906.
[8] Le lezioni universitarie si svolgevano nel tardo pomeriggio e di sera.
[9] ‘Abbās II Hilmī, ultimo khedivè d’Egitto (r. 1892-1914). Il portico fu inaugurato nel 1897.
[10] Originario del governatorato di Buhayra, Salīm al-Bishrī fu Shaykh al-Azhar dal 1899 al 1903 e dal 1909 al 1917.
[11] In dialetto egiziano nel testo.
[12] Abū l- ‘Alā’ al-Ma‘arrī (973-1058), asceta, letterato e pensatore siriano. Cieco dall’infanzia, si rinchiuse volontariamente nella propria casa. Le sue meditazioni, contenute soprattutto nelle Luzūmiyyāt (“Costrizioni non necessarie”), sono improntate a un forte pessimismo. Taha Hussein fu attratto dalla figura di al-Ma‘arrī e gli consacrò la tesi di dottorato, la prima discussa alla neonata Università Egiziana.
[13] Al-Sorbonī significa appunto “il laureato alla Sorbona”. Ma prima di farcela, il professore fu bocciato varie volte all’esame di latino.
[14] Si tratta di uno studente egiziano gravemente malato e di cui Taha Hussein si sentì in obbligo di occuparsi.