Il ritorno dei Talebani a Kabul è stato spesso descritto come una vittoria politica di Islamabad. La questione è più complessa, e per capirla bisogna ripercorrere la storia delle relazioni tra Pakistan e Afghanistan
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:05:06
La svolta della guerra in Afghanistan, con la rapida conquista di Kabul da parte dei Talebani, consente una riflessione sul conflitto più che ventennale che ha segnato la regione. Al di là delle diverse questioni rilevanti, la crisi ha evidenziato la centralità del contesto regionale e, in particolare, delle relazioni tra Afghanistan e Pakistan come fattore determinante. Si impone dunque la necessità di analizzare le strategie dei due Stati nella conduzione della crisi. Benché le interpretazioni correnti si soffermino soprattutto sulla politica delle grandi potenze verso l’Asia centro-meridionale, minore attenzione viene data dagli osservatori alle questioni di lungo periodo che caratterizzano la storia della regione. Da questo punto di vista si deve rilevare che le strategie degli Stati regionali sono state costanti nel tempo e sono state determinate dai principali nodi irrisolti: la tensione Afghanistan-Pakistan per il controllo della regione di Frontiera e per l’accesso alle risorse naturali dell’Asia centrale, e la competizione tra India e Pakistan per il territorio del Kashmir.
La competizione per il controllo della Frontiera
La tensione di lungo periodo tra Afghanistan e Pakistan trae origine dal processo di ridefinizione dei confini da parte del potere britannico. La frontiera attuale – la Linea Durand del 1893 – ha avuto l’effetto di frammentare il mondo pashtun, nonostante la persistente porosità del confine. Benché il governo afghano abbia riconosciuto il confine nel 1919, la dissoluzione del dominio britannico in India nel ’47 ha offerto a Kabul la possibilità di disconoscere la Linea Durand quale confine internazionale. Da ciò la decisione del governo afghano di votare contro il riconoscimento del Pakistan alle Nazioni Unite. La politica proattiva di Kabul nei confronti del territorio confinante non si è limitata alla protesta, ma ha fatto altresì leva sull’irredentismo pashtun nel tentativo di destabilizzare la Provincia della Frontiera nord-occidentale (oggi Khyber Pakhtunkwa). In ciò Kabul era agevolata dallo scarso radicamento storico del nazionalismo pachistano nei territori di Frontiera prima del 1947. È noto come tra i Pashtun fosse molto influente il movimento pro-Congress dei Khudai Khitmatgar di Abdul Ghaffar Khan, leader molto vicino a Gandhi. Nel 1949, una dichiarazione di indipendenza delle tribù pashtun fu subito sostenuta da Kabul. Il tentativo dello Stato afghano di rafforzare l’aspirazione delle tribù a un “Pashtunistan” indipendente si è poi intensificato all’inizio degli anni ’50, sotto l’influenza del primo ministro Mohammed Daoud. Fino agli anni ’60 il nazionalismo pashtun ha costituito una minaccia più per l’unità del Pakistan che per l’Afghanistan. Questo equilibrio era però destinato a mutare quando il regime pachistano, guidato dalla giunta militare di Ayub Khan, egli stesso un pashtun, decideva di adottare una strategia più dinamica verso la questione etnica, basata su tre elementi-chiave: in primo luogo la cooptazione dei Pashtun nella burocrazia e nell’esercito, aumentando la loro proporzione rispetto agli altri gruppi etnici; in secondo luogo, una politica di favore verso i Pashtun nella concessione delle licenze per attività economiche; infine, l’incorporazione della questione etnica nella politica dell’islamizzazione. Dagli anni ’60 e ’70 l’identità islamica è diventata la principale strategia del Pakistan per ridurre al minimo l’irredentismo pashtun e per rafforzare l’influenza di Islamabad nei territori confinanti. Un esempio rilevante è stato il sostegno offerto dal primo ministro Bhutto al tentato colpo di stato islamista contro il governo Daoud nel 1975. Dalla seconda metà degli anni ’70 la nuova giunta militare guidata da Zia-ul-Haq ha dato un’ulteriore spinta alla politica di islamizzazione, rivolta sia all’interno, con il finanziamento delle madrase lungo la regione di Frontiera, sia nelle relazioni con i Paesi confinanti.
L’Islam come strumento di politica estera
Durante la resistenza afghana contro l’invasione sovietica (1979-89), tale politica ha assunto la forma di un sostegno selettivo nei confronti del fronte islamista afghano, specialmente l’Hizb-i Islami di Gulbuddin Hekmatiyar e Yunous Khalis. Si trattava di un fronte molto vicino all’ideologia della Jama’at-i Islami pachistana e che, sul piano etnico, rappresentava soprattutto i Pasthun Ghilzai. Attraverso il sostegno alle correnti più radicali del fronte islamista, Islamabad ha dato un contributo rilevante alla radicalizzazione della scena religiosa afghana e all’isolamento delle correnti più moderate. Il progetto politico fondamentale era la creazione di un potere stabile a Kabul sotto la guida della componente pashtun di Hekmatyar; ciò includeva la pacificazione del territorio e si ricollegava ai progetti di sfruttamento delle risorse naturali dell’Asia centrale, con la partecipazione di gruppi internazionali. Tuttavia, l’incapacità della fazione di Hekmatyar di raggiungere un accordo di power-sharing con gli altri leader dei mujaheddin, dopo la conquista della capitale nel 1992, ha determinato il fallimento della strategia e la rottura del fronte anti-sovietico. Ciò ha spinto Islamabad a utilizzare simili strumenti nella formazione di un nuovo fronte islamista a composizione primariamente pashtun, che contrastasse l’ascesa della corrente tajika di Rabbani, considerata vicina all’India.
L’ascesa militare dei Talebani non deve tuttavia essere interpretata solo in termini politici. Essa si basava altresì su un importante cambiamento all’interno dell’Islam in Pakistan. Tra la fine degli anni ’80 e i primi ’90, vi era stato un declino della Jama’at-i Islami e l’ascesa di organizzazioni di ulama, come la Jamiat-i Ulema-i Islam, di ispirazione deobandi. Benché influenzate dal lessico rivoluzionario della Jama’at, soprattutto per quanto concerne il ruolo della politica e dello Stato, questi ulama si distinguevano per formazione dall’islamismo classico della Jama’at. Mentre quest’ultima poneva l’enfasi sull’islamizzazione dello Stato e delle sue classi dirigenti, la Jamiat-i Ulama-i Islam attribuiva maggiore rilevanza alla conversione della società dal basso, mediante l’implementazione della sharī‘a nella vita quotidiana. Da ciò derivava una conseguenza rilevante: l’orientamento religioso dei Talebani conteneva – e contiene tuttora – un atteggiamento ambiguo nei confronti della politica. A differenza dei partiti islamisti, che vedono nell’islamizzazione delle classi dirigenti la via maestra per la creazione di una società islamica, i Talebani guardano con sospetto alla politica e allo Stato. Le istituzioni statali sono viste come uno strumento necessario al fine dell’applicazione della legge, ma non costituiscono un fine, né una fonte di valori in sé. Inoltre, i Talebani nutrono una sfiducia profonda nei riguardi delle élite istruite nelle scuole e università pubbliche, sospettate di essere veicolo dell’occidentalizzazione.
I rapporti Pakistan-USA e l’11 Settembre
Il sostegno pachistano al movimento dei Talebani ha avuto inevitabilmente delle ripercussioni sull’alleanza con gli Usa, che è entrata in crisi già alla fine degli anni ’90. Gli attentati anti-americani di Nairobi, Dar es Salam e contro la nave Cole, attribuiti ad al-Qaida, hanno modificato la posizione del Pakistan. Gli attacchi dell’11 settembre hanno quindi costituito il vero spartiacque sia nei rapporti tra Pakistan e Afghanistan, sia in quelli tra il Pakistan e gli Stati Uniti. La risposta militare americana ha costituito l’ultimo atto della pressione politico-diplomatica degli Usa su Islamabad affinché abbandonasse il regime di Kabul e i suoi rapporti con al-Qaida.
Se analizzato in prospettiva, il celebre “u-turn” del governo di Pervez Musharraf nei riguardi dei Talebani non si è certamente tradotto in un cambio reale di strategia, poiché il sostegno militare e di intelligence – specialmente da parte dell’ISI, i servizi di sicurezza militari – verso i Talebani era destinato a sopravvivere. Esso ha tuttavia comportato dei cambiamenti rilevanti nella politica verso il fronte islamista interno. In primo luogo, Musharraf è stato costretto a mettere al bando i principali gruppi radicali – tra cui Lashkar-i Taiba, Jaish-i Mohammed e Sipah-i Sahaba Pakistan – e a imporre un controllo statale sulle madrase. Inoltre, il governo ha tentato di costruire un consenso anteponendo gli interessi nazionali all’agenda di politica estera. È interessante osservare che Musharraf, nei discorsi televisivi del 19 settembre 2001 e del 12 gennaio 2002, si è sforzato di superare la dimensione pan-islamica a favore di una visione islamo-nazionale in cui i riferimenti al padre della patria – Muhammad ‘Ali Jinnah – e gli slogan dell’indipendenza (“Pakistan Zindabad”), erano accompagnati dal richiamo alle figure dei grandi shaykh sufi, assunti a modello di un Islam nazionale, contraddistinto dalla vocazione spirituale e non violenta.
La ricostituzione dei Talebani
L’intervento militare statunitense e la sconfitta dei Talebani nel 2001 hanno provocato un processo di riassorbimento della militanza islamista nella società afghana e nel mondo tribale pashtun. Da tale processo di fusione tra Talebani afghani, militanti centro-asiatici e arabi, e le organizzazioni jihadiste messe al bando dal governo Musharraf sarebbe sorto un nuovo fronte islamista. È da quest’alleanza che nei primi anni 2000 si è andato formando un gruppo, dapprima non coordinato, che si è definito in seguito Tehrik-e Taliban Pakistan (TTP), che ha portato avanti una strategia di guerriglia nei confronti delle forze armate pachistane e di altri obiettivi governativi. Vi sono sempre state opinioni discordanti sui rapporti tra il movimento dei Talebani afghani e quelli pachistani. Secondo alcuni vi sarebbe una totale dipendenza del secondo dal primo, al punto da definire il TTP un “Pakistani Wilayat” dell’organizzazione afghana. Altri autori argomentano a favore di due distinte identità. Certamente non deve essere trascurata l’importanza della terminologia: Tehrik-i Taliban Pakistan è infatti un’etichetta insolita, che sembra indicare l’accettazione dello spazio nazionale da parte dei militanti. Il sorgere del fenomeno del TTP in patria e la sconfitta dei Talebani in Afghanistan ha costretto Islamabad ad adottare due strategie distinte e apparentemente contraddittorie: sostenere a Kabul il diritto dei Talebani a svolgere un ruolo nel futuro assetto dello Stato e, al tempo stesso, combattere i Talebani pachistani.
Dopo la conferenza di Bonn del 2001 e la costituzione del governo Karzai, le relazioni Afghanistan-Pakistan sono rimaste nel complesso molto difficili. Nonostante i continui contatti a livello governativo e le dichiarazioni di principio, si è confermata la tendenza da parte afghana a intravedere nella strategia di Islamabad il tentativo di destabilizzare il Paese, offrendo appoggio logistico e militare ai Talebani e di ostacolare il negoziato. Un sostegno che Islamabad ha continuato a negare, pur ammettendo l’esistenza di legami e di rapporti. La tensione tra i due Paesi ha raggiunto il culmine nel settembre del 2011 dopo l’uccisione in un attentato terroristico del presidente del Supremo Consiglio di Pace Burhanuddin Rabbani. Il presidente Karzai ha accusato apertamente il Pakistan di coinvolgimento nell’attentato. Di là della posizione del governo afghano – e le ricostruzioni dei media occidentali – si ha tuttavia l’impressione che Kabul abbia sopravvalutato la capacità del Pakistan di controllare i Talebani. Le relazioni tra i Talebani e il Pakistan sono più difficili di quanto normalmente si pensi. Vi sono sempre stati settori dell’insorgenza più vicini al Pakistan, e altri che hanno cercato maggiore autonomia da Islamabad. Se certamente si può dire che il Pakistan ha cercato di influenzare la politica del movimento, è difficile affermare che ci sia sempre riuscito. È sufficiente pensare alle difficoltà incontrate dal Pakistan nel corso degli anni 2000 per indurre i Talebani ad accettare un negoziato di pace. Inoltre, è noto che vari comandanti Talebani hanno trasferito negli anni le loro residenze in Qatar o altri paesi del Golfo, il che dimostra la loro volontà di rendersi autonomi da Islamabad. Ciò è stato anche confermato dalla decisione dei Talebani nel 2013 di aprire l’ufficio politico in Qatar anziché in territorio pachistano. Se nel 2014 l’elezione del presidente Ashraf Ghani e la parallela ascesa al potere di Nawaz Sharif in Pakistan hanno portato molti osservatori a parlare di una “finestra di pace” per la regione, queste previsioni ottimistiche si sono rivelate presto infondate. Le ragioni sono molteplici: l’aumento delle violenze dei Talebani; il radicamento in territorio afghano della branca locale dell’ISIS, denominato ISIS-Khorasan; il sostanziale fallimento delle iniziative di pace; infine, la crisi politica del governo di unità nazionale incentrato fino al 2020 sul binomio Ashraf Ghani-Abdullah Abdullah. Ne è derivato un sostanziale stallo nella situazione politica della regione.
La “nuova strategia” di Trump
L’avvento di Donald Trump a Washington nel 2017 ha introdotto un cambiamento radicale della situazione sul campo, condizionando altresì i rapporti tra Kabul e Islamabad. Durante l’amministrazione Obama, la politica degli Usa era basata su tre principi fondamentali: la continuazione della missione militare; l’approccio binario della missione – combattere l’insorgenza e addestrare le forze armate afghane; la combinazione delle operazioni militari con il sostegno per il negoziato “a guida afghana”. Nei riguardi del Pakistan, l’amministrazione Obama era stata spesso critica, pur confermando l’importanza dell’alleato per giungere a una soluzione negoziata del conflitto. Il cambio di leadership a Washington ha rivoluzionato questo approccio. Nell’estate del 2017 l’annuncio da parte di Trump della sua politica verso la regione era stato accompagnato da toni durissimi nei confronti di Islamabad e della sua supposta collaborazione con i Talebani. Tuttavia il cambiamento più rilevante è avvenuto l’anno successivo, con l’annuncio dell’avvio di una serie di negoziati diretti con i Talebani a Doha, senza la presenza del governo Ghani. Questi negoziati, com’è noto, avrebbero portato nel febbraio del 2020 alla firma dell’accordo sul ritiro delle truppe americane. Benché gli incontri successivi avessero visto anche la presenza del governo, l’iniziativa americana era stata accompagnata dalla forte irritazione del presidente Ghani. L’ambiguità degli accordi sarebbe stata in seguito confermata dalla controversia sulla liberazione dei prigionieri dalle carceri afghane, che era parte degli accordi siglati dagli Stati Uniti.
Le conseguenze degli accordi e la loro applicazione nel 2021 sotto l’amministrazione Biden sono ampiamente noti. Se la vittoria dei Talebani successivamente al ritiro delle forze internazionali era tutt’altro che inaspettata dagli osservatori, che ben conoscevano la debolezza dell’esercito afghano, la rapidità del processo era del tutto imprevista, ed è difficile non ricollegare gli eventi alla delegittimazione delle istituzioni statali, che è stata uno degli effetti più gravi degli accordi di Doha. Le interpretazioni più diffuse tra i media occidentali hanno descritto lo stabilimento del potere dei Talebani come una vittoria politica del Pakistan; tuttavia diversi fattori dovrebbero indurre a maggiore prudenza. In primo luogo, come si è accennato, i Talebani sono oggi molto più autonomi dal Pakistan rispetto agli anni ’90; nel corso degli ultimi vent’anni i vertici dell’insorgenza hanno stabilito relazioni con i principali attori regionali – Cina, Russia, Iran – riducendo la loro dipendenza da Islamabad; in secondo luogo, è forte la possibilità che l’ISIS prenda piede nel Paese, con probabili infiltrazioni che porterebbero a una nuova destabilizzazione della regione di Frontiera; infine, è molto incerta la capacità dei Talebani di unificare il Paese, vincendo le diffidenze delle comunità non pashtun, specialmente Tajiki, Uzbeki e Hazara. Qualora la nuova realtà politica a Kabul sfociasse nella guerra civile, il Pakistan ne sarebbe inevitabilmente coinvolto.
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