A fare le spese del ritiro delle truppe straniere rischiano di essere soprattutto gli Hazara, una minoranza storicamente perseguitata. L’appello di Dawood Yousefi, rifugiato che vive a Roma
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:36
Dopo vent’anni nel Paese, le truppe straniere hanno iniziato il ritiro, favorendo il ritorno dei talebani e un ulteriore aumento delle violenze. A farne le spese rischiano di essere soprattutto gli Hazara, una minoranza etnica di origine probabilmente turco-mongola ma di lingua persiana (parlano hazaragi, un dialetto del dari che inlcude un gran numero di prestiti linguistici mongoli). Gli Hazara sono prevalentemente sciiti duodecimani e anche per questo sono storicamente discriminati dagli altri afghani sunniti. Dawood Yousefi, rifugiato hazara che vive a Roma, lancia un appello: “non lasciate soli i civili afghani, fermate questo nuovo massacro”.
Come descriverebbe la situazione oggi in Afghanistan, alla luce del ritiro dei contingenti stranieri?
La situazione in Afghanistan oggi è molto grave. Da circa un mese, da quando cioè gli americani e le altre truppe straniere si sono ritirati, i talebani hanno preso il controllo di oltre cinquanta distretti e città. In tutto il Paese sono in corso combattimenti. La situazione non è chiara, non si capisce se siano stati fatti degli accordi o cosa ci sia dietro a questo caos. L’esercito afghano si è ritirato da alcune zone, e i talebani hanno rialzato la testa. I civili in tutto il Paese, comprese le donne, hanno deciso di prendere le armi e tentare di difendersi. Nessuno vuole che ripeta la situazione che si era creata negli anni ’90.
Da anni lei è diventato in Italia un simbolo della voglia di vivere del popolo Hazara. Può raccontarci la sua storia?
Ho trentasei anni e sono un rifugiato di etnia hazara che vive a Roma da circa vent’anni. Ho lasciato l’Afghanistan quando avevo solo sedici anni; sono stato costretto dalle circostanze a fuggire. All’epoca studiavo e lavoravo come falegname, operando come volontario anche con la Croce Rossa Internazionale, intervenendo subito dopo gli attentati per prestare soccorso alle vittime. Purtroppo, però, sono stato minacciato da gruppi di ex mujahiddin che avevano combattuto contro l’Unione Sovietica, ma anche dai talebani. Ciò nonostante, ho proseguito con il mio impegno finché ho potuto, quando cioè alcuni dei miei compagni di scuola non sono stati uccisi mentre tornavano a casa. Così ho deciso di scappare, di salutare i miei genitori e i famigliari e di andare in Iran.
Come è stato il suo percorso in Italia?
In Italia la mia vita è cambiata completamente. Oggi lavoro come assistente educativo in una scuola elementare con alcuni bambini disabili e opero come mediatore interculturale, fotografo e video-maker. Ho potuto proseguire gli studi e mi sono laureato in Servizio Sociale e ora sto per conseguire la laurea magistrale. A Roma ho conosciuto la Comunità di Sant’Egidio, di cui sono entrato a fare parte, e oggi mi occupo, come volontario, anche dei rifugiati che arrivano in Italia o sono diretti verso altri Paesi europei tramite corridoi umanitari, in particolare di coloro che arrivano dall’isola di Lesbo. Sono attivo nel favorire i processi di integrazione e prevenzione del razzismo. Da anni partecipo a convegni, vado nelle scuole, nelle Università a raccontare la mia storia e spiegare il perché delle migrazioni, delle fughe di massa, il lavoro per l’integrazione in Italia. Mi sono confrontato anche con politici e personaggi famosi. Io credo molto nel dialogo, nella parola, nel confronto tra persone.
Come descriverebbe la situazione che ha lasciato in Afghanistan invece?
Sono nato in guerra e ho vissuto in guerra finché sono rimasto in Afghanistan; i miei genitori mi hanno sempre sostenuto e mi hanno mandato a scuola. Da adolescente, come tantissimi altri giovani, avevo tanti sogni che volevo realizzare. L’Afghanistan, però, non era e non è un Paese per sognatori; è una Paese in guerra dagli anni ’70. Negli anni Novanta, con l’invasione dei talebani che hanno iniziato con i massacri nel nord, a Kabul e a Banyan, soprattutto contro gli Hazara, la situazione è ulteriormente precipitata.
Può raccontarci qualcosa degli Hazara?
Gli Hazara costituiscono la terza etnia presente in Afghanistan con circa dieci milioni di persone, mentre alcuni milioni vivono fuori dai confini nazionali. Sinteticamente posso dire che il primo genocidio degli Hazara iniziò circa cento anni fa, quando un re dell’etnia pashtun decise di eliminare il 75% degli Hazara che vivevano nelle grandi città, e per sopravvivere questi ultimi cercarono rifugio sulle montagne, nelle zone centrali del territorio chiamato Hazarajat. Il massacro è andato avanti per anni; più recentemente ci si sono messi anche i talebani e l’Isis, che hanno preso di mira, in particolare, scuole, università, moschee, palestre, sedi di testate giornalistiche. Ora hanno cambiato la loro strategia e fanno saltare gli autobus pieni di gente, si accaniscono contro giovani attivisti hazara come giornalisti, avvocati, studenti. Purtroppo, ho la sensazione che il governo centrale non voglia proteggere il popolo Hazara, che è povero, ma pacifico, mite, incline al dialogo. Tenere i giovani lontano dalle scuole fa parte di questa strategia dell’odio messa in atto dai talebani e dall’Isis, anche se la caccia agli Hazara è iniziata decenni fa. La maggior parte degli Hazara sono musulmani sciiti, e gli sciiti sono una minoranza in Afghanistan.
Nelle ultime settimane, attraverso i suoi profili social, ha lanciato diversi appelli perché si parli di Afghanistan e non ci si dimentichi dei civili e delle minoranze. Quale scenario potrebbe prospettarsi?
La mia paura è che stia iniziando un nuovo genocidio, per questo sto chiedendo che se ne parli sui giornali, anche in Italia, che non ci si dimentichi di noi. È importante parlare degli Hazara, raccontare chi sono, denunciare che ancora oggi, nel XXI secolo, si sta consumando nel silenzio della comunità internazionale un genocidio. Il ritiro delle truppe straniere e della Nato, di quelli che dicevano che avrebbero portato la pace in Afghanistan, ma il cui progetto, dopo vent’anni, si è dimostrato un grande fallimento, anzi, una vergogna, rappresenta un abbandono dei civili a un destino infausto. Viene lasciato un Paese come l’Afghanistan in una situazione di caos totale; in un solo mese dal ritiro i talebani hanno già conquistato molte zone, cosa accadrà nei prossimi mesi? I rischi e le preoccupazioni sono molti. Spero che non ci sarà una nuova guerra civile. Gli attentatori se la prendono con la futura classe pensante, come se non volessero che il Paese in qualche modo progredisca.
Tra le sue tante attività di sensibilizzazione c’è anche un film. Ce ne vuole parlare?
“Sembra mio figlio”, diretto da Costanza Quatriglio, è stato girato nel 2016 ed è uscito nel 2018. Ci siamo io e lo scrittore e attivista Basir Ahang, anche lui hazara. Nei giorni scorsi il film è stato proiettato anche su Rai5. La pellicola racconta la storia vera di due fratelli Hazara che attualmente vivono in Italia, il viaggio, le ragioni che hanno spinto alla fuga, il genocidio.
Quello dei talebani, a suo avviso, è un accanimento contro tutti i civili o c’è un progetto specifico di sterminio degli Hazara?
Vengono uccise persone di tutte le etnie, ma non posso non dire che c’è un accanimento con gli Hazara. Quando hanno attaccato l’Università di Kabul, hanno ucciso solo studenti Hazara, lo stesso quando hanno attaccato un liceo femminile a ovest di Kabul, prendendo di mira le giovani di questa etnia. Sono attacchi sistematici, una pulizia etnica continua. Sia chiaro, le donne e i civili sono sempre nel mirino dei terroristi, ma le premesse di un nuovo genocidio, ahimè, sono evidenti.
Cosa fanno gli Hazara per resistere?
Dal 2002 gli Hazara hanno deciso di prendere in mano un’arma che è la penna, lo studio, la formazione. La maggior parte delle persone che cerca di iscriversi all’università è infatti Hazara, sono persone che hanno scelto di scrivere il proprio futuro con la cultura, cercando di sfidare la povertà e gli ostacoli e questo non va a genio ai terroristi, che vogliono dissuadere gli Hazara da ogni tentativo di emanciparsi e progredire. Questa situazione spinge molte persone, specie tra i più giovani, a migrare, a tentare di fuggire attraverso l’Iran. Senza un sostegno o una protezione del governo centrale, per molti giovani l’unica prospettiva è andarsene dal Paese per non farsi ammazzare o tentare disperatamente di auto-difendersi.
Qual è il suo appello?
La vita umana è sacra, abbiamo una sola vita e tutti hanno diritto di viverla e di viverla nel migliore dei modi. Diamo a tutti questa possibilità, le persone non sono numeri. Quando pensiamo alle persone come numeri, perdiamo il senso della nostra stessa umanità e ciò significa che la nostra umanità è fallita. Il mio appello è di continuare a denunciare e raccontare cosa accade, mettere in luce la condizione delle donne, il genocidio degli Hazara, la guerra che prende di mira i civili. Ripeto, trovo vergognoso che la comunità internazionale abbia deciso di abbandonare il Paese lasciando questa situazione così drammatica sotto il profilo dei diritti umani.
A proposito di comunità internazionale, che ruolo ha l’Unione Europea in tutto questo?
L’Unione Europea è silente, ha deciso di non prendere posizione sull’Afghanistan e questo mi dispiace perché l’Europa è un continente di pace, che ha anche vinto un premio Nobel per la pace. Non si possono lasciare all’abbandono Paesi come l’Afghanistan, la Siria, la Libia e la Somalia. Siamo davvero di fronte a una Terza guerra mondiale a pezzi, ma la gente qui in Europa non sembra accorgersene perché accade tutto lontano da casa loro. Chi sta bene non può però non informarsi, non sapere cosa accade nel mondo e pensare che basti aiutare economicamente per essere a posto con la propria coscienza.
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