L’anima del gruppo, l’iracheno-egiziana Nadin al Khalidi, riscopre in Svezia la passione per la musica araba e insieme a Gabriel Hermansson dà vita a un’esperienza artistica transculturale che la aiuta a fare i conti con il passato

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:04:26

Per celebrare l’episodio che segna la metà del percorso annuale della rubrica T-arab, vi presentiamo una band che, come noi, ha proprio deciso di ricorrere a questo bel termine arabo. Tarabband (un gioco di parole tra tarab e band) è un gruppo pluripremiato fondato nel 2008 dalla musicista iracheno-egiziana Nadin al Khalidi e dallo svedese Gabriel Hermansson a Malmö (Svezia). La band si presenta come «un’esperienza musicale transculturale che genera tarab, quel sentimento universale in cui emozioni e musica si uniscono in un tutt’uno».

 

Oltre ai fondatori, anche gli altri musicisti che la compongono sono di primissimo livello e non sfugge, alla lettura dei loro nomi, il mix (trans)culturale che formano. Un vero e proprio meticciato musicale, al punto che per una volta non è fuori luogo parlare di fusion e world music: canzoni composte in Svezia, cantate in arabo, con influenze che spaziano dalle Americhe al folk (balcanico o nordico che sia) e strumenti da tutto il  mondo (saz, violino, chitarra, basso, e varie percussioni: darbuka, daf, riq).

 

L’anima della band è senza dubbio Nadin: Figlia d’arte, nasce nel 1980 da padre iracheno (attore e cantante) e madre egiziana (pianista). Otto dei suoi primi undici anni di vita, durante i quali studia violino classico alla Scuola di Musica e Danza di Baghdad, coincidono con la guerra Iran-Iraq.

 

Nel 1991, mentre imperversa la prima guerra del Golfo, tutta la famiglia si trasferisce in Egitto per garantire delle cure mediche alla madre. Il periodo cairota sarà molto travagliato e doloroso, e si concluderà con il ritorno in Iraq nel 1997-1998.

 

Nel 2002, senza più genitori e in una Baghdad sempre più precaria, violenta e impoverita (a marzo 2003 sarebbe scoppiata la seconda guerra del Golfo) Nadin si mette in macchina con la sorella, direzione Amman, e da lì vola in Svezia, dove ottiene asilo, si ritrova a vivere con la famosa cantante lirica Marianne Mörck (che considera ancora oggi una seconda mamma) e inizia a suonare nei vari bar di Göteborg e Malmö canzoni di Bob Dylan e Joan Baez (sua primissima fonte di ispirazione), coltivando il desiderio di formare una band punk.

 

In Svezia, però, si accende inaspettatamente in Nadin la passione per la musica araba: riscopre quell’immensa ricchezza e, lentamente, la “com-prende” nel suo nuovo contesto, in un dialogo interiore e interculturale. Una dinamica che abbiamo già visto con altri artisti, in una sorta di “riconciliazione” e “rivalorizzazione” del proprio patrimonio culturale e identitario, che si trasforma naturalmente nella principale fonte di ispirazione artistica.

 

Nadin ha definito il suo lavoro come «uno strumento per connettere Oriente e Occidente e creare […] comprensione e tolleranza tra le diverse culture», ed è stata tratteggiata come una cantante che sa «rompere le barriere culturali» e che dà «voce alle vittime di guerra».

 

I temi dei brani di Tarabband, in effetti, pescano dal vissuto (spesso traumatico) della cantante, tentando di rappresentare e parlare di situazioni, persone e storie concrete che altrimenti non troverebbero altro spazio d’ascolto: esilio, questioni identitarie, resilienza, guerra, politica.

 

Afferma Nadin: «Raccontare le loro storie è il mio dovere e la mia vocazione. Non posso cancellare i ricordi e i traumi che ho vissuto. Ma posso fare un po’ di pace con il mio passato, musicandolo e cantandolo, e condividendo così storie di altre persone, specialmente qui, nel mondo occidentale».

 

Segui la playlist di T-Arab su Spotify: esplora i brani degli episodi passati e scopri quelli in arrivo 

 

La loro concert timeline menziona esibizioni dappertutto, dall’Egitto al Marocco, dalla Giordania (anche nel campo profughi di Zaatari) alla Palestina, fino in Malesia, Cina e Stati Uniti.

 

Numerose sono anche le loro collaborazioni: rilevanti quelle con Musica Vitae, l’Orchestra Edward Said e con Ilham al-Madfai, una nostra vecchia conoscenza, la cui biografia ha molto in comune con quella di Nadin.

 

I loro due album in studio (Ya Sidi, 2012 e Ashofak Baden, 2016) presentano numerose canzoni interessanti: la famosa Baghdad Choby, dedicata alla città natale della cantante; Yasmin, che descrive la disperazione di un padre che tenta di trovare sotto le macerie il corpo della figlia, uccisa a Gaza durante un bombardamento israeliano; Fellu, ispirata dagli edifici beirutini crivellati dai colpi della guerra civile libanese; Zaffat Ceylan, la storia di una giovane ragazza curda costretta alle armi per combattere contro l’ISIS; e ancora canzoni d’esilio, di protesta, di barche alla deriva e di immigrati morti in mare.

 

La scelta musicale di oggi cade sul loro brano più conosciuto, Ashofak Baaden (“Ci vediamo dopo”, qui in una maestosa versione dal vivo).

 

Un testo che non è mai stato presentato a un pubblico italofono e che, a meno di una mia svista, esisteva nella sua versione in arabo solo in forma di sottotitoli al video YouTube (un dato che indica significativamente il pubblico di riferimento della band).

 

Il brano di oggi è «una conversazione dell’ultimo minuto tra una coppia di sposi, pochi minuti prima di vedersi separati dalla crudeltà e dalla forza della guerra. Questa canzone è dedicata a loro, ovunque si trovino oggi. Questa coppia è stata costretta a fuggire dalla città pochi minuti prima dell’orribile occupazione [da parte dell’ISIS di una città a maggioranza Yazida]. Lui doveva stare con i suoi vecchi genitori, che non ce l’avrebbero fatta a fuggire. L’ultima cosa che la coppia ha fatto prima di separarsi è stata scattarsi un’ultima fotografia».

 

Come è stato brillantemente sintetizzato: «solo dopo aver attraversato un ponte culturale ha scoperto di poterlo diventare anche lei». Un’osservazione che vale per Nadin, e per tutto il gruppo.

 

Buon tarab(band)!

 

Canzone: Ashofak Baaden

Artista: Tarabband

Anno: 2016

Nazionalità: Iraq – Svezia

 

 

 

Scorri verso il basso per leggere il testo tradotto in italiano e l'originale arabo.

Qui tutte le precedenti puntate.

 

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Ci vediamo dopo

 

Ci vediamo dopo

una sera di queste

Sulle rive del Tigri

Dove sulla terra abbandonata ora sorgono due case.[1] (x 2)

 

Il mio posto, in questa foto

La storia del mio paese, in questa foto[2]

Le parole dei miei cari, in questa foto

Il tuo nome, mio caro, su questa foto

e il mio sogno, il mio paese, che rinasce

Guerre e sofferenze…abbandonata[3]

i più alti muri costruiti[4]

e il mio sogno, il mio paese, che rinasce

 

Ci vediamo dopo

una sera di queste

Sulle rive del Tigri

Dove sulla terra abbandonata ora sorgono due case.

 

Ci vediamo dopo

una sera di queste

Sulle anse del Tigri[5]

Dove al posto di un albero abbattuto ora sorgono due case.[6]

 

Le mie parole, mio caro, su questa foto

No, non cancellarle da questa foto

Ti portano i miei saluti, su questa foto

Se dovessi dimenticartene, la foto te lo ricorda

e il mio sogno, il mio paese, che rinasce

Guerre e sofferenze…abbandonata

i più alti muri costruiti

e il mio sogno, il mio paese, che rinasce

 

Ci vediamo dopo

una sera di queste

Dove sulla terra abbandonata ora sorgono due case

sorgono due case.

 

Ci vediamo dopo

una sera di queste

Sulle rive del Tigri

Dove sulla terra abbandonata…

Ci vediamo dopo!

 

Avê çela bedah[7]

 

 

أشوفك بعدين

 

أشوفك بعدين

في ليلة

على شواطي دجلة

والأرض المهجورة تصبح بيتين (x2)

 

دلالة مكاني الصورة

حكاية بلادي في الصورة

حديث الأهالي في الصورة

واسمك يا غالي عالصورة

وحلمي في بلادي معمورة

حروب ومواجع مهجورة

وأعلى الموانع معبورة

وحلمي في بلادي معمورة

 

وأشوفك بعدين

في ليلة

على شواطي دجلة

والأرض المهجورة تصبح بيتين

 

أشوفك بعدين

في ليلة

على جدايل دجلة

والشجرة المبتورة تصبح بيتين

 

كلامي يا غالي عالصورة

لا تمسح معالم الصورة لا

وصّل سلامي والصورة

لو تنسى راجع الصورة

وحلمي في بلادي معمورة

حروب ومواجع مهجورة

وأعلى الموانع معبورة

وحلمي في بلادي معمورة

 

أشوفك بعدين

في ليلة

والأرض المهجورة تصبح بيتين

تصبح بيتين

 

أشوفك بعدين

في ليلة

على شواطي دجلة

والأرض المهجورة

أشوفك بعدين

 

Avê çela bedah [8]

 


[1] Il termine mahjūra, dalla medesima radice di hijra (egira), indica una terra da cui si è scappati, dunque “desolata”, “abbandonata”.  Come già notato con altri artisti, la traduzione ufficiale del brano in inglese è relativamente libera. Segnaliamo solo “interpretazioni” ritenute significative o interessanti.
[2] In un’altra versione, la cantante dice: kharīta bilādī, ossia “la mappa del mio paese”.
[3] Torna qui il termine mahjūra, in riferimento sia alla desolazione delle guerre, sia a un più generale “abbandono” del paese in condizioni disastrose.
[4] La versione in inglese traduce liberamente: “i muri più alti giacciono ora sbriciolati”.
[5] Jadā’il, lett. “trecce”.
[6] La traduzione ufficiale aggiunge, chiarendo l’immagine dell’albero: “dove quell’albero abbattuto, quella terra rovinata, si è tramutato infine in case”.
[7] Secondo quanto riportato nella traduzione ufficiale del gruppo, si tratta di una frase in curdo (ma quale delle diverse lingue curde?) che significa: “innaffia la terra”.
[8]حسب ما ورد في الترجمة الرسمية للفرقة، فهي عبارة باللغة الكردية (ولكن أي من اللغات الكردية المختلفة؟) والمعنى هو التالي:" اسقِ الأرض".

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