Toynbee condivide con Huntington l’enfasi sul ruolo delle civiltà nello spiegare le dinamiche storiche e la politica internazionale. Ma la conclusione dello storico britannico non è lo “scontro” a cui giunse il politologo americano
Ultimo aggiornamento: 05/10/2020 12:23:32
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Prima dello «scontro» di civiltà
Nell’estate del 1993, cercando di fornire una spiegazione degli scenari futuri della politica internazionale all’interno del mondo post-bipolare, Samuel P. Huntington (1927-2008) interviene su «Foreign Affairs» con un articolo destinato ad aprire un lungo e vivace dibattito. Dalle pagine di The Clash of Civilization?, da cui – qualche anno più tardi – elabora anche un controversa monografia (spesso vituperata), il politologo statunitense sostiene infatti che la «fondamentale causa di conflitto» nel mondo successivo alla Guerra fredda non sarebbe più stata «ideologica o economica», bensì «culturale». E, pur riconoscendo il perdurante ruolo degli Stati, egli afferma con decisione che la politica mondiale sarebbe stata dominata dallo «scontro delle civiltà»[1].
Esattamente quarant’anni prima, nel 1953, con la pubblicazione di The World and the West, un breve ma denso volume, in cui sono raccolte le Reith Lectures tenute per l’emittente radiotelevisiva BBC[2], Arnold J. Toynbee (1889-1975) si trova anch’egli al centro di una vibrante disputa, che segna l’inizio del suo declino come intellettuale pubblico[3]. Autore assai fecondo e longevo[4], Toynbee, dopo l’educazione vittoriana al Balliol College di Oxford, studia con passione il mondo classico, sviluppa un temerario tentativo di storia universale attraverso il metodo comparativo, e ricopre (in particolare dal 1925 al 1954) il prestigioso ruolo di Director of Studies del Royal Institute of International Affairs presso Chatham House. Lo storico e internazionalista britannico edifica così un sistema di pensiero complesso, nel quale il ruolo delle civiltà è centrale non solo nella spiegazione di dinamiche storiche millenarie, ma anche nell’analisi della politica internazionale del XX secolo[5].
Quando Huntington ripropone il concetto di civiltà come strumento interpretativo della politica mondiale, la figura di Toynbee è ancora attanagliata nell’oblio in cui era caduta nei decenni precedenti, tanto è vero che lo studioso americano ne richiama la riflessione, ma in maniera piuttosto marginale. Tuttavia, l’obiettivo di entrambi gli autori è il medesimo: vale a dire, illustrare le cause dei conflitti a loro contemporanei. E, nel fare ciò, l’uno e l’altro – pur con evidenti differenze – concordano nell’attribuire alle civiltà, piuttosto che allo Stato (moderno) o altre forme di organizzazione politica e sociale, un ruolo speciale e specifico. Certamente, nella prospettiva, più o meno eterodossa, con cui Toynbee osserva la politica internazionale del Novecento, si possono rinvenire al tempo stesso elementi di biasimo e d’interesse. Feconde intuizioni ed evidenti forzature convivono infatti in un intreccio che potrebbe essere utile riscoprire. Quella dello storico inglese, sia che venga rifiutata e marginalizzata oppure accolta e valorizzata, è una riflessione che risulta attuale ancora oggi.
Gli «incontri» tra le civiltà
Attraverso l’annuale stesura del Survey of International Affairs[6] e il monumentale progetto di A Study of History[7], Toynbee elabora la sua teoria della storia, così come la sua teoria delle relazioni internazionali, fondando entrambe sul concetto di civiltà. Se ogni Survey rappresenta un tentativo di comprendere e orientare le trasformazioni in atto nel sistema internazionale, A Study of History costituisce l’ambizioso sforzo di fornire un più ampio contesto di riferimento in cui tentare una diversa interpretazione della storia mondiale. Molto spesso, concetti e figure dapprima abbozzati nell’annuale Survey vengono successivamente ripresi e arricchiti dall’autore durante la lunga stesura del suo magnum opus (che egli stesso, nella corrispondenza privata, non manca di definire, alquanto ironicamente, il proprio «nonsense book»).
In Civilization on Trial del 1948, riassumendo i tratti fondanti della propria visione della storia, Toynbee indica uno dei «punti cardinali» nel fatto che «il campo anche più limitato di uno studio storico» deve necessariamente «circoscrivere intere società e non frammenti di esse arbitrariamente isolati, quali le nazioni-stato del moderno Occidente, o le città-stato del mondo greco-romano»[8]. Le civiltà, in altri termini, sono un «campo di studio intelligibile», ossia «la minima unità-base di ogni studio storico, cioè quella cui si arriva quando si cerca di comprendere la storia del proprio paese»[9]. Ogni civiltà, pertanto, è sia un «sistema internazionale» perché ha negli Stati le sue principali articolazioni e perché si struttura a partire dalle loro relazioni, sia una «società internazionale» dal momento che si fonda (e, in un certo senso, deve continuare a fondarsi) su una consonanza di idee e valori, ossia su una cultura comune[10].
Pur se ogni civiltà possiede principi e modelli di funzionamento specifici, essi non sono immutabili o cristallizzati. In netta controtendenza rispetto agli storici della generazione precedente, Toynbee non concepisce la civiltà in termini di sviluppo lineare, bensì come la storia di civiltà distinte che passano ciascuna attraverso un periodo di ascesa e declino. Inoltre, lo storico britannico sostiene anche che gli «incontri» tra le civiltà (sia nel tempo, sia nello spazio) sono sempre stati, e continueranno ancora a essere, un «fattore governante» nel progresso, così come nei fallimenti del genere umano[11].
Il mondo e l’Occidente
Secondo Toynbee, ogni civiltà esercita verso tutte le altre due azioni tra loro contrapposte: una spinta «centrifuga» di natura radiatoria e un’attrazione «centripeta» di natura gravitazionale. L’una e l’altra determinano l’interazione reciproca tra le differenti civiltà che sono così in grado di influenzarsi a vicenda nei loro tratti costitutivi. In effetti, due sono i processi che si manifestano nel corso di un contatto tra civiltà: irradiazione e ricezione. Il primo processo è messo in atto dalla civiltà aggressiva, mentre il secondo si ripercuote su quella aggredita. L’irradiazione è strutturata da tre elementi fondamentali: «economico, politico e culturale». Ognuno di essi possiede una differente capacità di penetrare – inversamente proporzionale al suo valore culturale – tra le maglie della civiltà estranea. Se importanti sono le implicazioni dell’irradiazione culturale di una civiltà verso un’altra, altrettanto significative sono le caratteristiche del processo inverso di ricezione. In tutti i contatti tra diverse civiltà, di fronte alla sfida di una civiltà straniera, la risposta che i membri di quella investita possono opporre è ancora una volta duplice: il rifiuto violento di tutti gli elementi appartenenti a una tradizione straniera, oppure l’adozione deliberata soltanto di alcuni di essi.
Nella sua riflessione, Toynbee coglie chiaramente una tale dinamica, descrivendo sia la fase in cui la nostra civiltà stende la sua «ombra» su tutto il mondo, sia quella nella quale è l’Occidente che inizia a trovarsi sotto «assedio» delle altre civiltà. Sotto la spinta degli avanzamenti scientifici e tecnologici, l’Occidente edifica un sistema internazionale ecumenico, determinando una vera e propria trasformazione “geopolitica” della superficie terrestre[12]. L’Occidente diffonde le proprie istituzioni economiche e politiche nella pressoché totalità delle altre civiltà, ma non riesce a conquistarne l’anima culturale e religiosa più profonda. Per lo storico inglese, il ritorno delle altre civiltà (o di alcune loro frange) sulla scena principale dell’ordine mondiale non costituisce una novità, bensì rispecchia la normale fisiologia dei «contatti» tra civiltà. Se l’interdipendenza senza precedenti sul piano economico-politico è un risultato cumulativo e impossibile da ribaltare, la supremazia occidentale – sembra voler sottolineare Toynbee – possiede una natura reversibile e instabile. L’Occidente inizia a subire (e subirà ancor di più in futuro) il ritorno, più o meno prepotente e aggressivo, delle altre civiltà. Queste ultime, infatti, offrono – proprio sulla base delle loro radicate peculiarità culturali – paradigmi differenti di governo e modelli alternativi di sviluppo. In altri termini, gli “altri” iniziano a riscrivere in maniera sempre più netta la struttura dell’ordine internazionale.
Una soluzione “utopica” al (dis)ordine mondiale
Per molti versi, Toynbee non è soltanto il profeta delle civiltà, omaggiato con ironica malizia persino dallo scrittore di fantascienza Ray Bradbury[13]. Nella spiegazione delle dinamiche storiche e internazionali, egli affida un ruolo sempre più centrale e imprescindibile alle religioni. Per l’autore, infatti, esse rappresentano sia un’esigenza intrinseca della natura umana nel proprio rapporto con l’infinito, sia un elemento fondante delle differenti civiltà che hanno calcato il palcoscenico della storia universale.
Tuttavia, nella Weltanschauung di Toynbee si assiste per molti versi a un graduale passaggio dall’ipotesi secondo cui la religione è un elemento sussidiario alla riproduzione della civiltà, all’ipotesi opposta, in cui è il ciclo vitale della civiltà a rappresentare un elemento sussidiario allo sviluppo delle religioni. Dunque, soprattutto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, lo storico britannico ritiene che il “progresso” – come soluzione alla endemica conflittualità tra le unità politiche organizzate – non può essere soltanto tecnico, sociale o politico, perché deve essere prima di tutto religioso. All’idolatria del potere umano, personale o collettivo, che si muove con un andamento carsico nella storia, Toynbee imputa il declino delle civiltà. Egli affida pertanto alla creazione e allo sviluppo di una nuova (e “ipotetica”) religione mondiale il compito di ordinare al miglior esito possibile quella naturale propensione dell’uomo a erigere un culto idolatrico di se stesso o del suo potere collettivo. È una religione dai chiari connotati utopistici.
Pertanto, l’aspetto che rappresenta il maggior limite alla riflessione dell’autore è quello relativo non tanto all’importanza da lui attribuita al ruolo delle religioni, quanto piuttosto ai risultati a cui è condotto dalla sua personale ricerca spirituale. Da una originaria matrice anglicana (e, in alcuni aspetti, latitudinaria) Toynbee giunge a esprimere un’idea di religione – nella forma sia di personale professione di fede, sia di riflessione in merito al ruolo pubblico del sacro – dove convergono tracce di gnosi, deismo e relativismo (nel senso dato al termine da Elie Kedourie). Una tale idea, che non rimane una componente secondaria del suo sistema teorico, conquista gradualmente un peso sempre più significativo. Toynbee edifica così una teoria della storia, di cui lo sviluppo religioso è la chiave di volta per comprendere ogni dinamica internazionale.
Soprattutto a partire dalla metà degli anni Cinquanta, la sua riflessione non è più fondata sullo studio delle grandi religioni storiche. Dopo aver contestato – sulla scia delle suggestioni del senatore romano Quinto Aurelio Simmaco – la pretesa di esclusiva veridicità di ognuna delle grandi religioni, egli si incammina sullo scivoloso terreno di una volontaristica e personale religione umanitaria, sulle insicure sponde di un astruso cosmopolitismo. E sempre più, nella produzione del tardo Toynbee, l’attenzione mostrata nelle prime fasi del suo pensiero per l’influsso dei fenomeni religiosi sulle dinamiche della politica internazionale assume i toni profetici di un pacifismo utopistico.
L’eredità di Toynbee
Nel corso del XX secolo, Toynbee rappresenta certamente un elemento estraneo alle più consolidate tradizioni storiografiche e internazionalistiche. Seppur la sua riflessione abbia suscitato ampio interesse, raggiungendo dimensioni addirittura mondiali (tanto da spingere Time a dedicargli una copertina nel 1947), il suo metodo, così come le sue conclusioni, sono state oggetto di feroci critiche. Molto spesso pregiudiziali, in alcuni casi ben fondate, le obiezioni al pensiero dell’autore non possono però mettere in secondo piano il grande ruolo innovatore che egli esercita durante il Novecento[14].
A rendere nuovamente attuale lo “sguardo” di Toynbee è soprattutto la fine della Guerra fredda, perché, dinanzi al nuovo scenario, molti dei più consolidati schemi interpretativi utilizzati fino a quel momento per analizzare la politica internazionale hanno iniziato a essere oggetto di un’approfondita riconsiderazione teorica. Pertanto, una serie di elementi in precedenza trascurati sono tornati centrali. In primo luogo, è incominciata a emergere la frammentazione di quel sistema internazionale che, fino al 1989, era sembrato sostanzialmente unitario e coerente. In altre parole, da regole del gioco unitarie e comuni, cui tutti prima dell’Ottantanove erano sottoposti – o meglio sembravano sottostare – si è passati alla simultanea compresenza di molteplici norme di comportamento[15]. Ma la frammentazione del sistema internazionale non è l’unico elemento di novità che si presenta dopo l’Ottantanove. Dinanzi al nuovo assetto geopolitico, è stato nuovamente avanzato il concetto di civiltà come unità di analisi maggiormente idonea per spiegare le dinamiche del sistema contemporaneo. D’altronde, già durante la contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, l’importanza per la comprensione dell’ordine internazionale dell’aspetto culturale – che persiste sotto la scorza dei fenomeni politici temporanei – era stata sottolineata con grande efficacia da Adda Bozeman[16]. Infine, legato a doppio filo con il problema della riscoperta dell’identità culturale delle differenti civiltà, è anche il terzo nodo problematico che emerge dal dibattito sul nuovo ordine mondiale: la parziale “ri-politicizzazione” del sacro[17]. Tutti questi elementi erano ben presente all’interno della teoria delle macro-trasformazioni politiche e culturali elaborata da Toynbee, fra gli anni Trenta e gli anni Sessanta del secolo scorso.
L’autore di A Study of History offre una prospettiva inedita e non priva di potenzialità con cui osservare e studiare il sistema globale. Tanto le sue coraggiose teorizzazioni, quanto le sue più evanescenti prescrizioni, costituiscono un contributo di frequente sottovalutato, ma sicuramente non marginale, proprio per la capacità mostrata dallo storico inglese di definire l’agenda internazionale dell’opinione pubblica inglese fra i due conflitti mondiali. Al di là degli effetti distorsivi che si sono generati con il modificarsi della posizione dell’autore attraverso i decenni, è infatti nella capacità di scrutare la realtà della politica mondiale in maniera eterodossa che risiede il principale contributo di Toynbee allo studio della politica mondiale.
L’eredità di Toynbee, tuttavia, rimane pressoché inevasa. Infatti, non è certamente accolta da Huntington, il quale, pur riportando alla luce il concetto di civiltà, mostra una evidente a-storicità nell’impianto della sua riflessione sulla politica internazionale. Molto probabilmente, invece, sono Martin Wight (amico e allievo dell’autore di A Study of History) e alcuni esponenti della cosiddetta «English School» of International Relations Theory[18] ad approfondirne alcune intuizioni nell’analisi delle dinamiche internazionali, così come è l’approccio della World History[19] a seguirne le impervie rotte nello studio del passato e nel racconto del presente.
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