Sin dalle origini, convinta di aver ricevuto un patrimonio che doveva essere per tutti, si è preoccupata di come trasmetterlo. Con un’attenzione che non ha eguali nella storia

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:36

Per molto tempo le amministrazioni hanno oscillato tra le denominazioni “educazione nazionale” e “istruzione pubblica”, finché il ministero francese ha optato per la prima mentre quello italiano ha scelto la seconda. Vi è in questa esitazione qualcosa di emblematico sulle incertezze del momento; ciò ci incoraggia a cercare definizioni accettabili analizzando più da vicino le etimologie. L’istruzione mira a trasmettere conoscenze e a fare di chi le acquisisce una persona competente. Lo scopo dell’educazione invece è più vasto e anche più ambizioso: si tratta di aiutare il giovane a sviluppare i propri talenti e potenzialità per far sbocciare quanto di più umano si trova in lui. Passare insomma dalla virtualità alla virtuosità. Il verbo latino educare esprime dunque la preoccupazione di far crescere e formare, mentre il suo stretto parente educere si rende con “estrarre, rialzare”. L’educazione cerca di spingere il giovane verso l’alto per permettergli di costruire la propria personalità nel modo più armonioso. Non ci si fa da soli, non ci si costruisce a partire dal niente.

Contrariamente a quanto suggeriva il titolo di un dramma teatrale francese, nessuno è  «figlio di nessuno».[1] Nasco preceduto da qualcuno. La questione che si pone allora è quella della trasmissione: come beneficiare dell’esperienza di quanti sono venuti al mondo prima di me? Come accogliere il ricco patrimonio pazientemente elaborato nel corso dei secoli passati? Come servirsene per costruire il proprio essere e dare un senso alla vita? Quale parte accordare alla memoria nell’educazione? Mi sembra che nella Chiesa cattolica sia presente una riflessione utile anche ad altre realtà. Appartengo infatti a un’istituzione che ha amato definirsi come una Tradizione. Sin dalle sue origini, convinta di aver ricevuto un tesoro che poteva arricchire l’esistenza di chiunque, essa ha mostrato una preoccupazione per la trasmissione, di cui non si trovano altri esempi nella storia. Questo dovere era percepito come particolarmente imperioso: trasmettere da una generazione alla successiva, senza che niente di essenziale si perdesse; trasmettere qualcosa che in realtà non le apparteneva perché essa lo considerava un deposito; trasmettere una fede e un modo di vivere, una visione del mondo e dell’uomo, una cultura, certo, forse una civiltà. Il tradere cristiano presenta così delle caratteristiche originali, impresse in una storia bimillenaria.

Un Compito di Tutti

La trasmissione pazientemente elaborata nella tradizione cristiana è democratica nel senso che si trova affidata all’insieme del popolo di Dio. Se il battesimo fa di chi lo riceve un sacerdote e un profeta, lo rende capace di insegnare; gli assegna il compito di trasmettere, in forza del quale ognuno deve consegnare ai più giovani il testimone ricevuto dai più anziani. Si spiega così la sollecitudine particolare di cui la Chiesa ha sempre circondato le famiglie. Non era solo una preoccupazione di moralizzazione a spingerla ad agire in questo modo, contrariamente a quanto alcuni affermano, ma la convinzione secondo la quale la famiglia costituiva il luogo più naturale, più immediato e più evidente della trasmissione. Si trasmette solo quello che si ama: si prevedeva per questo che, per amore dei figli, i genitori avrebbero donato loro ciò che ritenevano essere il meglio.

Ci si può allora chiedere se la crisi della trasmissione che conosciamo oggi non nasconda, accanto ad altri fattori, una mancanza di amore e di fiducia. Infatti, nel momento in cui non sono più convinto dell’eccellenza di quello che ho ricevuto da chi mi ha preceduto, non mi troverò affatto incline a consegnarlo a chi mi seguirà: a che cosa potrebbe servirgli? In questo senso la crisi della trasmissione segnerebbe una forma di estenuazione, un segno che il percorso è finito. La proposizione generale per cui la trasmissione andava affidata alle famiglie era condivisa da tutti. Oggi essa viene messa in discussione in due modi. In una “grande famiglia” in cui convivevano diverse generazioni, ognuno svolgeva il suo ruolo nell’educazione dei bambini: trasmissione più “sentimentale” nelle madri, più “cerebrale” nei padri (o negli zii, in certe etnie africane), portatori della figura della legge, più “culturale” infine nei nonni la cui memoria era evidentemente più lunga e più grande la disponibilità. La venerazione dovuta agli anziani dava, d’altra parte, alla trasmissione fatta da questi ultimi un valore assoluto. Nelle società moderne la famiglia ha conosciuto una costante riduzione.

Già tra le due guerre mondiali, ma soprattutto dopo la seconda, essa si è ridotta a quello che i sociologi chiamano la “famiglia nucleare”, composta dai soli genitori e dalla loro prole. Ai nostri giorni, in un numero di casi che va moltiplicandosi secondo un’evoluzione legata all’emancipazione femminile, all’evanescenza della figura paterna [2] e al ricorso ai metodi di procreazione artificiale, essa si restringe a un solo genitore, la madre. Si parla allora di famiglia “mono-cellulare”. La riduzione sociologica trascina con sé una riduzione culturale nella misura in cui, non avendo quasi più accesso alla diversità dei membri della sua famiglia, il bambino perde anche l’accesso alla memoria collettiva. Come restituire valore al ruolo dei nonni, o dei cugini, che si lamentano della loro emarginazione?[3] Pur supponendo che questa preoccupazione sia condivisa da molti, questo desiderio si scontrerebbe comunque con lo svilimento del passato, come vedremo successivamente. Perché riferirsi a epoche più o meno lontane se la storia non contiene nessuna lezione per il presente e per il futuro? La seconda obiezione è stata meno studiata.

Da Vescovo di Angers, quando visitavo le scuole della Diocesi, restavo stupito dalla lamentela unanime che saliva dagli insegnanti delle scuole elementari: «I bambini sono diventati violenti» ripetevano. Perché? Perché, questa era la spiegazione, questi bambini non si sono mai scontrati con un “no” all’interno della loro famiglia. Lo -incontrano qui per la prima volta e non possono che ribellarsi. La combinazione dei due fenomeni, da una parte la venerazione verso il “bambino-tiranno” – tanto più forte se è figlio unico – e dall’altra la perdita di una cura per un’arte di vivere come, per esempio, le regole della cortesia e della civiltà, facevano sì che si trovasse rimandato a più tardi, a scuola, l’incontro con la “legge dell’altro” sotto la forma del divieto. I genitori si riservano il ruolo dei “buoni”, quello di compiacere i bambini; inutile contrariarli, pensano, avranno tutto il tempo di esserlo in seguito. La scuola diventa così il surrogato della famiglia: è questa la sua missione? La famiglia pratica sempre meno l’insegnamento della percezione dell’altro, voltando le spalle, ad esempio, alle considerazioni di Emmanuel Lévinas che sosteneva che ognuno nascesse in debito, sovrastato dall’altro. Resterebbe da dimostrare se (e come) questa violenza dei primi anni e l’ignoranza delle regole del saper vivere insieme, alimentata dall’ideologia dell’educazione senza costrizioni, giochi un ruolo nella violenza crescente che caratterizza le società urbane. 

Trasmissioni Perturbate

Nella trasmissione verticale da una generazione all’altra, così come nella trasmissione orizzontale da un contemporaneo all’altro, si insinua sempre il rischio di una perdita. Ogni generazione segue le sue mode; le sue preferenze la portano a vagliare il deposito ricevuto e a tralasciare ciò che essa giudica meno interessante. Il pericolo è allora quello di un impoverimento progressivo, addirittura di una deviazione dottrinale. Per porre rimedio a questo rischio, la Chiesa è stata dotata di un Magistero deputato precisamente a valutare l’ortodossia della trasmissione e la sua integralità: l’essenziale è stato comunicato? E la comunicazione si è effettuata nella fedeltà al messaggio delle origini? Si è spesso affermato che questa nozione di Magistero costituiva un’originalità cristiana. Si osserva tuttavia che le società hanno prodotto, quasi spontaneamente, molteplici magisteri. L’autorità politica ha da sempre cercato di fregiarsi di un’autorità morale.

Essa voleva far credere che quanto aveva deciso era necessariamente giusto e di conseguenza che la coscienza individuale era tenuta a conformarvisi. Confondeva deliberatamente il legale e il legittimo, temendo costantemente che un’Antigone potesse invocare delle leggi «mormorate al cuore» (Sofocle) superiori a quelle della Città. Le società moderne e liberali sono state definite allergiche a ogni idea di magistero. Penso piuttosto che esse ne favoriscono l’inflazione. Le “etiche procedurali” che si impongono sempre più nei regimi democratici si dichiarano incompetenti in materia di verità e di bene morale, ma esercitano un magistero quando fanno della decisione della maggioranza una regola che s’impone a tutti. I media si comportano come una sorta di “voce fuoricampo”: sotto l’apparente oggettività delle informazioni e dei reportage, tale voce detta alla coscienza, all’insaputa del suo autore, ciò che deve pensare e credere. L’opinione pubblica ha sempre forgiato mode e tendenze. Sotto la forma del “politicamente corretto”, passato dagli Stati Uniti all’Europa, essa fa regnare sulle menti una legge implacabile trasmettendo a priori ideologici, pregiudizi morali o semplici civetterie linguistiche come se fossero regole etiche: tanto peggio per chi non parla come gli altri! Non esiste libertà umana all’ombra di una dittatura, qualsiasi essa sia. Un magistero è unico o non è. Non sorprende allora che i magisteri appena menzionati si diano battaglia senza esclusione di colpi.

Sono giunto alla conclusione che, se i media occidentali manifestano un’opposizione pressoché costante verso il Magistero della Chiesa, ciò avviene in primo luogo non perché esso emani regole etiche e norme che li infastidiscono; la loro critica prende di mira il principio stesso di un magistero religioso in una società secolarizzata. La pluralità dei magisteri confonde la trasmissione. Sotto la pressione del loro diktat, docenti e discenti si vedono costretti a operare scelte necessariamente arbitrarie. La tradizionale querelle tra Antichi e Moderni risulta quindi risolta nella cancellazione (definitiva?) dei primi. È così che si è giunti a privilegiare la memoria più recente a scapito di un patrimonio millenario, a lasciar credere che la modernità debba concepirsi come un inizio assoluto e che ognuno sia in grado di darsi da sé le norme e le regole di cui ha bisogno per costruire la propria vita. I modelli sarebbero desueti e superati i maestri. Che ne è allora della scuola? 

Le Patologie della Scuola

Da molto tempo, forse dalle sue origini, la Chiesa ha dedicato una cura particolare alla formazione dei giovani, consacrando a questo compito i suoi migliori uomini e innalzandone un numero impressionante agli onori degli altari. Basti menzionare qui i nomi più conosciuti di Giovanni Eudes, don Bosco, Angela Merici, Pietro Canisio, Jean-Baptiste de La Salle. La scuola moderna è stata la Chiesa a crearla. La pedagogia moderna è stata la Chiesa ad inventarla: si pensi, per esempio, al genio delle prime generazioni di gesuiti che nei loro collegi seppero coniugare la trasmissione intellettuale del sapere a una messa in scena barocca in cui gli allievi, in un età in cui ci si trova piuttosto a disagio col proprio corpo, erano invitati a salire sul palco e a recitare, prima di provarli personalmente, i grandi sentimenti che guidano il mondo. Agendo in questo modo, la Chiesa non soddisfaceva un semplice bisogno di sopravvivenza.

Essa non si preoccupa del suo futuro o di quello dell’umanità, ma testimonia la verità essenziale sulla quale riposa ogni educazione: i giovani sono i nostri maestri. Dobbiamo trasmettere loro quello che riteniamo il meglio ma, allo stesso tempo, essi ci fanno uscire da noi stessi, ci strappano dai rifugi in cui ammassiamo le nostre certezze e persino la nostra fatica di vivere: alla nostra coscienza spesso esausta ricordano le ragioni della speranza. La Chiesa e, dopo di lei, le società secolarizzate hanno visto nella scuola il luogo privilegiato dell’educazione e si sono dedicati ad essa con passione. Basti ricordare il prestigio di cui godeva l’istitutore nel più remoto villaggio dei nostri paesi nel corso degli ultimi due secoli. Ma, almeno nelle società europee, la scuola soffre attualmente di un profondo discredito. Due grandi sconvolgimenti la turbano in profondità al punto da costituire per essa vere e proprie patologie: la scomparsa della cultura generale e la rivoluzione tecnologica. Fino a una data recente la cultura classica appariva come il fiore all’occhiello dell’insegnamento.

Si trattava di rendere familiari agli allievi testi giudicati fondatori della civiltà occidentale. Quanto gli antichi avevano detto non valeva soltanto per la loro epoca: il loro messaggio e il loro esempio personale esprimeva una saggezza e un’arte di vivere che dovevano ispirare le generazioni di ogni tempo.[4] C’era in essi come una sorgente d’acqua viva alla quale dovevano instancabilmente tornare quanti imparavano il mestiere d’uomo. Ora il filo è stato tagliato. Il discorso degli Antichi si è perso nella notte dei tempi.[5] Il moderno pensa di non poter ricavare alcuna lezione dagli esempi di un tempo.[6] Le discipline umanistiche vengono progressivamente cancellate dai programmi, dal momento che va ormai immaginato un uomo nuovo. [7] La memoria si è vista abbassata a uno statuto ancillare. Non s’impara quasi più a memoria, né le favole, né le poesie antiche. La storia è diventata materia opzionale: raccontando solo le ultime peripezie dell’umanità, fa affondare gli anciens régimes nell’oscurità dell’indifferenza.

La letteratura e la filosofia non mettono più a contatto diretto con i maestri perché ormai a occupare tutto sono i commenti,[8] le analisi strutturali e le meta-critiche. Le parole non scompaiono mai del tutto; si contentano di emigrare. Dopo l’avvento dell’era elettronica quelle di memoria e trasmissione assumono tutt’altra realtà. «Con il computer e Internet, la memoria viene contata in otteti, la trasmissione valuta la sua velocità in baud. Ciò che importa è la capacità del disco, il numero di barre, la dimensione del cavo o del tubo. Dall’agire siamo passati alla capacità. Si clicca, si salva. Si clicca, si invia. Nei quattro angoli dell’universo […] si costituiscono basi di dati tanto diverse quanto variegate. Un’accumulazione formidabile di memoria informatizzata che prosegue in una corsa senza fine la densificazione della rete di comunicazione» (Jean-François Bouthors). Di quale memoria si tratta? Quale trasmissione viene operata? Quale volontà presiede a questo gigantesco movimento? È possibile che riprenda corpo il vecchio sogno di Prometeo: memoria e trasmissione lascerebbero credere all’avvento di un uomo che ha accesso a tutti i saperi e a tutte le basi di informazioni; ma per farci che cosa? Come discernere in questa massa inerte di dati disponibili? Quest’ultima domanda apre un campo nuovo alle discipline umanistiche. L’imperativo del discernimento rinvia infatti a ciò che è specificamente umano: distinguere ciò che fa crescere l’umano in ciascuno di noi e rinunciare alle conoscenze inutili o addirittura nocive.

La scuola potrebbe allora ricordarci le illusioni di un progresso senza fine che l’umanità ha pesantemente pagato nel secolo appena trascorso. Se essa riuscisse a liberarci ancora una volta (non osiamo scrivere una volta per tutte) da questo vecchio sogno pernicioso, troverebbe nuove ragioni per sperare. Per questo motivo, e per altri ancora, il tempo dei “prof.”, contrariamente a funeste previsioni, ha ancora davanti a sé un futuro. Fin da quando lavoravo in università e poi come Vescovo, incontravo spesso degli insegnanti. Ero solito dire loro: «Non lasciatevi sopraffare dal pessimismo diffuso! So che il vostro lavoro è diventato difficile. Rimane tuttavia il più bel mestiere del mondo. È grazie a voi, infatti, che l’umanità nasce a se stessa».

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Note

[1] Henri de Montherlant, Fils de personne  ou Plus que le sang, dramma rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1943.

[2] Cfr. Hans Zollner, Osservazioni psicologiche  sulla condizione maschile, in «La Civiltà Cattolica»  3821 (5 settembre 2009).

[3] Nel corso dei miei diversi  ministeri, ho spesso  incontrato nonni dispiaciuti di non poter trasmettere  nulla ai loro nipoti: «Ce li tengono lontani. Non li vediamo quasi mai! Eppure, avremmo  tante cose da dire loro». Ho trovato particolarmente  appropriato al riguardo l’intervento di Benedetto XVI, in occasione dell’Angelus  del 26 luglio 2009. Dopo aver ricordato che Gioacchino e Anna  erano i nonni di Gesù  ha aggiunto: «Questa ricorrenza fa pensare  al tema dell’educazione, che ha un posto importante nella pastorale della Chiesa. In particolare, ci invita a pregare per i nonni, che nelle famiglie sono i depositari e spesso i testimoni dei valori fondamentali della vita. Il compito educativo dei nonni è sempre molto importante, e ancora di più lo diventa quando, per diverse ragioni, i genitori non sono in grado di assicurare un’adeguata presenza accanto ai figli, nell’età della crescita».

[4] Cfr. Cosimo Laneve, Educare fra tradizione e multiculturalità, in «Pedagogia e Vita», 5-6 (2008), in particolare: 1.1 L’imprescindibilità  dell’imitare.

[5] Ibidem, «Da mezzo secolo a questa parte un declino generale ha però emarginato (e disdegnato)  l’educazione attraverso la conoscenza dei classici, ovvero l’educazione dello spirito, dell’immaginazione, della sensibilità, relegandone lo studio ai soli seminari per specialisti».

[6] «L’età moderna incrina precisamente questa illimitata fiducia nella tradizione e nelle sue fonti. Per ragioni molteplici di ordine storico, politico, morale-religioso, tecnico-scientifico, la tradizione perde la sua ovvia affidabilità» (Zelindo Trenti, Tradizione e linguaggio nel processo di apprendimento, in «Insegnare Religione», 3 [2005], 4-12).

[7] Il declino della cultura generale nelle istituzioni scolastiche e universitarie è stato magistralmente interpretato da Allan Bloom, The Closing of the American Mina, Simon & Schuster, New York 1987. Per un approccio rinnovato, cfr. Marta C. Nussbaum, I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma 2006.

[8] George Steiner si è preso gioco del dominio del commento e del parassita nel suo bel libro Réelles présences. Les arts du sens, Gallimard, Paris 1991, 25 ss.  

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Jean Louis Bruguès, Tra  le generazioni. Le ragioni, la crisi, la sfida, «Oasis», anno VI, n. 11, giugno 2010, pp. 13-17.

 

Riferimento al formato digitale:

Jean Louis Bruguès, Tra  le generazioni. Le ragioni, la crisi, la sfida, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2010, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/tra-le-generazioni-le-ragioni-la-crisi-la-sfida.

 

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