Le riflessioni di uno studioso su una “professione” tra le più affascinanti e complesse: la traduzione. In molte lingue il termine allude all’azione del trasportare ma anche a quella dell’attraversare. E non solo: essa infatti si occupa di rendere il discorso “intelligibile” e comprensibile, dunque dovrà in qualche modo trasformare e commentare.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:51

In italiano il traduttore è proverbialmente assimilato a un traditore: traduttore, traditore. Se poi la sua traduzione ha pretese letterarie, si parla subito di “bella infedele”. Etimologicamente però l’atto di tradurre non è così indegno come queste espressioni suggeriscono! Tradurre è il latino traducere, cioè portare, condurre attraverso (tra < trans), in altre parole far passare, fra traversare qualcuno o qualcosa. In realtà i latini, per lo meno quelli dell’epoca classica, non utilizzavano questo termine, ma piuttosto translatio, nome d’azione del verbo transferre, “trasportare”. È su questa parola che l’inglese ha creato il verbo to translate. L’arabo classico può utilizzare il verbo naqala, “trasportare”, il nome d’azione naql, “trasporto’” e il participio attivo nâqil (con plurale naqalah) nel senso di tradurre, traduzione, traduttore. Lo scrittore arabo cristiano Jurjî Zaydân (1861-1914) li impiega in maniera costante nella sua Storia della civiltà islamica (1902-1906) per parlare del movimento di traduzione dal greco all’arabo, generalmente via siriaco [1], caratteristico dell’epoca abbaside.

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Tutti questi termini, nella loro accezione tecnica, partecipano di una stessa metafora, quella della traversata, del passaggio. Nel Rinascimento, grande epoca di traduzioni in particolare dalle lingue classiche a quelle moderne e in cui si manifesta in materia l’esigenza “scientifica”, l’attrazione paronimica risultante dall’evoluzione fonetica di traducere e tradere nella Romània (anche il francese conobbe traditeur per il moderno traître) imprime alla traduzione un marchio d’infamia. Al contrario l’immagine della traversata, del passaggio, in questi tempi di (incerto!) “dialogo delle culture” è connotata piuttosto positivamente. Il traduttore si vede conferire il titolo di “passeur de cultures”. Ma il latino classico utilizzava anche un altro termine, interpretatio, nome d’azione del verbo interpretari. Esso è a sua volta un denominativo di interpres (gen. interpretis) e nulla è più trasparente della sua etimologia: l’interprete è l’agente tra (inter) due parti, l’intermediario, il mediatore, il negoziatore.

Di questo significato resta qualche traccia nella distribuzione complementare dei termini traduttore e interprete nell’epoca moderna: il traduttore è l’interprete dello scritto, ma l’interprete è il traduttore dell’orale, posto fisicamente tra due parti che parlano ciascuna la propria lingua. Ma il latino interpretari ha subito un’evoluzione, a quanto sembra sotto l’influsso di hermeneuein, una delle due parole di cui il greco si serve per designare l’attività di traduzione-interpretazione (l’altra è metaphrazein). Quest’ultima si colloca dal lato di traducere/transferre: si tratta infatti di far passare (meta-) da una lingua all’altra (-phrazein). Hermeneuein invece è innanzitutto interpretare nel senso generale di “spiegare”, prima ancora che interpretare nel senso particolare di “tradurre”. Poiché l’origine di hermeneuein era oscura, i greci, popolo acuto come pochi altri, estimatori dell’etimologia come una delle belle arti e incapaci di resistere al piacere di una falsa etimologia, accostavano hermeneia al nome del loro dio Ermes, eponimo dell’ermetismo. Ricordavano così non senza malizia che l’interpretazione, ben lungi dal chiarire le cose, può renderle oscure!

Con “interpretare” si ritrova dunque la stessa ambivalenza che con “tradurre”. Un diritto, l’idea di mediazione, e un rovescio, quello di un’eventuale deriva interpretativa o ermeneutica. Notiamo infine che il termine interpretare può servire per evitare quello di tradurre: com’è noto, le traduzioni del Corano pubblicate nel mondo musulmano si presentano tutte come saggi d’interpretazione, per conformarsi al dogma dello i‘jâz al-Qur‘ân (inimitabilità del Corano). La stessa dualità tradurre/interpretare si ritrova in parecchie lingue occidentali. Un caso particolarmente interessante è quello del tedesco, con la coppia Uebersetzer/Dolmetscher. Uebersetzer è il nome d’agente del verbo uebersetzen, che significa letteralmente e può essere ancora impiegato, sia intransitivamente sia transitivamente, nel senso di passare o far passare dall’altra parte. Dolmetscher invece suona ben strano alle orecchie di un germanista! E giustamente: è un prestito del tedesco all’ungherese tolmács (il tedesco del resto ha avuto in passato Tolmetsch e il tedesco d’Austria ha ancora Dolmetsch). Ma l’ungherese a sua volta l’ha preso in prestito dal turco dilmaç.

La storia della parola è per così dire una sineddoche pars pro toto di quella dell’Europa orientale e centrale, conquistata e occupata per lunghi secoli dagli ottomani. Si potrebbe credere che questa stessa storia sia responsabile dell’entrata nel vocabolario occidentale di dragomanno, drogman, di cui esiste in francese il doppione truchement. Di fatto invece, secondo quanto afferma il Littré [2], il termine è attestato fin dal Medioevo: drugement (Prise d’Orange), drughement (Villehardouin), drugemens (Joinville), truchement (Carlo d’Orleans)… Le tre prime attestazioni (una chanson de geste del XII secolo e due cronisti del XIII secolo) suggeriscono che il vocabolo sia entrato in francese nel corso di un episodio precedente di quella stessa storia conflittuale tra Oriente e Occidente, nel caso specifico in occasione delle Crociate. Le Chansons de geste risalgono a quell’epoca anche se fanno riferimento a un episodio anteriore, le incursioni “saracene”, talvolta seguite da occupazioni temporanee, dell’Alto Medioevo.

Com’è spesso il caso nella storia lessicale, il doppione drogman/truchement ha condotto in francese a uno sdoppiamento. Drogman è utilizzato esclusivamente per l’interprete delle lingue orientali negli Scali del Levante in epoca ottomana. Truchement è ormai usato solo nel senso figurato di “intermediario”.

Interpretativa e Letterale

Quale che sia nel dettaglio la storia di questi due termini (che sembra implicare un gran numero di lingue: oltre al basso latino e al greco di Bisanzio, le lingue romanze come il catalano, lo spagnolo e l’italiano), tutti concordano comunque sull’etimo primo del termine: l’arabo turjumân. Questa parola si collega al verbo tarjama, attualmente utilizzato in arabo sia per tradurre che per interpretare; il nome d’azione di questo verbo, tarjamah, e il participio attivo mutarjim sono infatti impiegati per traduzione e interpretazione, traduttore e interprete. In un certo senso si manifesta in questa scelta una fedeltà alle origini. La parola araba infatti è a sua volta un prestito dall’aramaico.

Storicamente l’aramaico targum designa una traduzione della Bibbia ebraica, specialmente in aramaico, ma una traduzione che è al tempo stesso un commento. Targum neutralizza così la distinzione tra traduzione e interpretazione o, per dirla in greco, tra metafrasi e parafrasi. Il targum è il tipo stesso della traduzione interpretativa, in opposizione alla traduzione “letterale”, ciò che in traduttologia si chiama una traduzione mirata ai destinatari (cibliste) in opposizione a una traduzione fedele alla fonte (sourcière). Un’altra celebre traduzione della Bibbia mirata ai destinatari è la versione greca dei Settanta, che si rivolgeva, oltre che agli ebrei ellenizzati, anche a non-ebrei di cultura greca.

Simmetricamente, mentre la versione latina del Peri Hermeneias di Aristotele s’intitola De Interpretatione, la versione araba porta il titolo di Fî l-‘ibâra. Questo ‘ibâra è il nome d’azione di un verbo transitivo ‘abara che significa “interpretare”, in particolare un sogno (ru‘yâ). Con il nome d’azione ‘ubûr questo stesso verbo significa... “traversare”! È perciò seducente vedere nel primo un utilizzo metaforico del secondo. Si tratterebbe forse per l’onirocrita, come sostiene il Lisân al-‘arab di Ibn Manzûr (1233-1311), di “traversare” il sogno da parte a parte, come un corso d’acqua da bordo a bordo (‘ubr o ‘ibr)? Più verosimilmente si tratta di “tradurre” il sogno, cioè di farlo passare dall'oscurità alla chiarezza. Ciò implica che il verbo di base ‘abara, a seconda della costruzione o del tipo d’oggetto, può essere interpretato come causativo di sé stesso, proprio come il francese passer (se un passant è qualcuno che passa, un passeur è qualcuno che fa passare). Ciò è anche suggerito dal fatto che accanto ad ‘abara si può utilizzare nello stesso senso di “interpretare” il verbo ‘abbara, che può essere compreso anche come un causativo “far passare, far traversare” di ‘abara “passare, traversare”...

A Cominciare dal Medioevo

Se dunque nelle lingue semitiche le frontiere della traduzione e dell’interpretazione sembrano molto meno marcate che nelle lingue indoeuropee, si ritrova nondimeno nelle une come nelle altre la stessa metafora che fa del traduttore-interprete un passeur. L’autore di queste righe è un linguista, poco o tanto sempre nominalista, e gli si perdonerà d’aver consacrato la prima parte di questo breve articolo a un viaggio attraverso le parole che descrivono l’atto di tradurre-interpretare. Ma al tempo stesso l’autore di queste righe è un traduttore letterario: gli si permetterà perciò nella seconda parte di situare la sua attività nella tradizione occidentale di traduzione dalle lingue orientali, in particolare dall'arabo.

Tutto comincia nel Medioevo con una simmetria e una dissimmetria in relazione all’Oriente musulmano. Dissimmetria: dal XII secolo esiste una traduzione del Corano in latino, commissionata da Pietro il Venerabile (1092/1094-1156), abate di Cluny, in occasione del suo soggiorno in Spagna. Se alla stessa epoca esistono traduzioni arabe della Bibbia e dei Vangeli non è perché esse siano state richieste da un’autorità politica e/o religiosa musulmana: è semplicemente perché esistono nel mondo musulmano comunità ebraiche e cristiane che hanno adottato l’arabo come lingua vernacolare. Le versioni arabe della Bibbia e dei Vangeli succedono a quelle aramaiche e siriache come queste avevano preso il posto dell’ebraico e del greco. Simmetrico invece rispetto al movimento di traduzione dal greco verso l’arabo, generalmente attraverso il già citato siriaco, è quello dall’arabo verso il latino, spesso attraverso l’ebraico. Opera sullo stesso tipo di testi, scientifici, tecnici, filosofici. E in questo corpus si nota la stessa assenza di opere letterarie, con una sola e identica eccezione: le favole di Bidpai.

Esse furono adattate in arabo, non dal sanscrito ma da una versione pahlavi, con il titolo di Kalîla wa-Dimna, dal fondatore della prosa araba, il persiano Ibn al-Muqaffa‘ (720-757). Kalîla wa-Dimna fu tradotto una prima volta in latino nella seconda metà del XIII secolo. Nel Rinascimento, come la consacrazione del termine “umanesimo” suggerisce, si produce un cambio di paradigma (in verità preparato già da parecchio tempo): fede e cultura non coincidono più, esse sono soltanto in relazione d’intersezione. È il periodo in cui in Europa si fondano gli studi arabi, in primo luogo in chiave filologica, con la traduzione di grammatiche arabe e ben presto la redazione di grammatiche da parte di arabisti.

Ma già attraverso le antologie vengono resi noti testi geografici, storici e ben presto puramente letterari. Secondo l’arabista tedesco Johann Fück (1894-1974), storico degli studi arabi in Europa, è al 1629 che risalirebbe la prima stampa, a Leiden, di una poesia araba, la lâmiyyat al-‘Ajam di al-Tughrâ‘î (1061-1121) [3], pendant della celebre lâmiyyat al-‘Arab di Shanfara (fine del VI - inizio del VII secolo) e che sarà nuovamente edita e ritradotta nel 1661 da Edward Pococke (1604-1691). Lo Specimen Historiae Arabum (1650) di quest’ultimo e più ancora la Bibliothèque Orientale (1697) di Barthélémy d’Herbelot (1625-1695) mostrano l’estensione delle conoscenze accumulate in Europa sull’Oriente musulmano nel corso del XVI e XVII secolo. Gli ultimi anni del Seicento e l’inizio del Settecento conoscono in materia di traduzione due figure d’eccezione. La prima è il francese Antoine Galland (1646-1715). Che cosa può aver spinto l’editore della Bibliothèque Orientale, giunto alla sera della sua vita, a intraprendere la traduzione di un manoscritto ricevuto da Aleppo, di cui scrisse, in una lettera del 19 ottobre 1701, «avrò di che divertirmi durante le lunghe serate»?[4] Forse la nostalgia di una gioventù avventurosa che tra il 1670 e il 1688 lo vide soggiornare quasi quindici anni nel Levante (1670-1675, 1677, 1679-1688).

La sua traduzione è il tipo stesso della “bella infedele”, per almeno due ragioni: il manoscritto utilizzato da Galland rappresenta soltanto un quarto circa delle Mille e una Notte. Di fronte al successo dei primi tomi e alla pressione della domanda Galland dovette aggiungere altri racconti che non appartenevano al corpus arabo delle Notti, ma che in Occidente ne divennero il simbolo: Aladino e la lampada magica, Ali Babà e i quaranta ladroni. La seconda ragione è che Galland trasforma in opera scritta in una lingua letteraria omogenea un testo che è espressione in primo luogo della letteratura orale e in cui il manoscritto, redatto in una lingua molto eterogenea, è il supporto per l’esecuzione del narratore. Ma la traduzione di Galland va giudicata sulla base dell’effetto che produsse: senza di essa e senza la sua bellezza le Notti non sarebbero diventate universali e senza questa universalizzazione il mondo arabo mai se ne sarebbe riappropriato, come avvenne con l’edizione del Cairo del 1835.

Il Fascino della Poesia Orientale

La seconda figura è l’inglese Sir William Jones (1746-1794). Jones è uno studioso importante in più di un campo, ma nel nostro il suo titolo di gloria è prima di tutto d’essere l’autore di un’opera teorica (1774) sulle “poesie asiatiche” (araba, persiana, turca) [5] e di una pratica, essendo il primo traduttore in una lingua moderna della più celebre antologia della poesia preislamica, le Mu‘allaqât (1782): prima di lui erano state tradotte, in latino, la sola Mu‘allaqa di Tarafa (1742) dal grande arabista tedesco Johann Jakob Reiske (1716-1774) e quella di Imru‘ al-Qays da Gerard Johannes Lette (1748), la cui opera conteneva una versione inedita dello stesso poema, anch’essa in latino, di Levinus Warner (1619-1665). Jones non inaugura soltanto una tradizione di traduzione delle Mu‘allaqât nelle diverse lingue europee che giunge fino ai nostri giorni. Egli è anche all’origine di un’infatuazione per la poesia “orientale”, in particolare in Germania, attraverso la riedizione (1777) dei suoi Commentari a cura di Johann Gottfried Eichhorn (1752-1827).

Questa passione, potentemente sostenuta dall’opera di traduttore di Joseph von Hammer-Purgstall (1774-1856), non fu confinata agli ambienti accademici. È curioso osservare che Edward W. Saïd (1935-2003), gran denigratore dell’ “orientalismo” – costruzione “essenzialista” come poche altre! – ha dato all’orchestra israelo-araba da lui fondata insieme all’amico musicista Daniel Barenboïm il nome di una delle più belle opere prodotte dall’ “orientalismo dell’immaginario”, il West-östlicher Divan (1819-1827) di Goethe (1749-1832). Il XIX secolo è, lo si sarà già compreso, il grande secolo dell’orientalismo, tanto accademico quanto estetico, l’uno nutrito dell’altro. Tra tante opere edite e tradotte, tra tanti nomi che meriterebbero d’essere citati, si menzionerà qui soltanto una figura singolare, quella di Friedrich Rückert (1788-1866), autentico esperto di lingue orientali e non meno autentico poeta: i melomani sanno che un certo numero delle sue poesie sono diventate dei Lieder, in particolare di Gustav Mahler (1860-1911). La sua duplice qualifica ne fece il traduttore, tra gli altri, dell’antologia poetica di Abû Tammâm (prima metà del IX secolo), la Hamâsa, del dîwân di Imru‘ al-Qays e delle Maqâmât di al-Harîri (1054-1122), «opere che appartengono alla letteratura tedesca» [6].

Nel XX secolo, malgrado tragedie e rovesciamenti, il lavoro continua con i suoi alti e bassi e nell’ultimo periodo con uno spettacolare allargamento in direzione della letteratura araba moderna. Si perdonerà a un francese di fare un solo nome, quello del suo compatriota André Miquel (nato nel 1929), a motivo di una carriera di traduttore di eccezionale longevità e fecondità. Inaugurata nel 1957 con una traduzione di Kalîla wa-Dimna, essa culmina nel 2005 e 2006 con la pubblicazione nella Bibliothèque de la Pléiade dei tre tomi della traduzione, in collaborazione con Jamel Eddine Bencheikh (1930-2005), delle Mille e una Notte: e questo tre secoli dopo la versione di Galland e un secolo dopo quella di Joseph-Charles Mardrus (1868-1949), altra “bella infedele” edita tra il 1899 e il 1906 e che conobbe la sua ora di gloria ed ebbe la sua importanza storica. Tra tante altre traduzioni di Miquel si citerà ancora una traduzione integrale (prodezza corrente nel XIX secolo, ma diventata rara nel XX) del dîwân di Qays ibn al-Mulawwah (VII secolo d.C.), detto Majnûn Laylà («colui che è pazzo per Laylà»), la cui storia e mito hanno nutrito l’immaginario di più di uno scrittore orientale o occidentale. Due parole in conclusione. Questo immenso lavoro di traduzione che da secoli ha luogo dall’arabo verso le lingue europee, classiche o moderne, meriterebbe un primo bilancio.

Si osserverebbe sicuramente che alcune opere di riferimento sono state tradotte molte volte e in molte lingue: le Mille e una Notte, le Mu‘allaqât, la Muqaddima di Ibn Khaldûn (1332-1406), per citare un’opera in ciascuno dei tre grandi generi rappresentati nella letteratura araba: racconto, poesia, saggio [7]. Si osserverà anche che alcune opere importanti sono state tradotte raramente o addirittura mai. E si osserverà infine che la molteplicità delle traduzioni non è garanzia di successo: un traduttologo notava ad esempio che la grande forma canonica della poesia araba classica, la qasîda, non ha mai raggiunto la notorietà dello haiku giapponese o ancora, nell’ambito persiano, delle quartine (rubayât) di Omar Khayyâm (1048-1131) [8]. Si è visto che l’arabo condivide con le lingue europee la metafora del “passaggio” nel vocabolario del tradurre e dell’interpretare. Perché vi sia “dialogo” occorre però che il passaggio funzioni nelle due direzioni. Un rapporto della UNDP (United Nations Development Programme) del 2003, spesso citato e talvolta contestato (molte traduzioni non sono probabilmente registrate), indicava che «la Grecia (che conta 11 milioni di abitanti) in fatto di libri traduce venti volte di più che l’insieme dei paesi arabi (284 milioni d’abitanti)» [9]. È dal Golfo che sembra venire oggi la presa di coscienza che molti capolavori della letteratura universale semplicemente non sono disponibili in arabo. Tradurre è un’attività con un futuro.


Note

[1] Il siriaco è l’aramaico di Edessa, grande lingua veicolare del Cristianesimo orientale a partire dal III secolo d.C. e per molto tempo ancora, dopo la comparsa dell’Islam.

[2] Dictionnaire de la langue française, Gallimard/Hachette, Paris 1968, s.v. drogman e truchement.

[3] Johann W. Fuck, Die arabischen Studien in Europa bis in den Anfang des 20. Jahrhunderts, Harrassowitz, Liepzig 1955, 81.

[4] Citato da Janine Miquel-Ravenel, Antoine Galland, inventeur des Mille et une nuits, Geuthner, Paris 2009, 115.

[5] Sir William Jones, Poeseos Asiaticae Commentariorum libri sex cum appendice, T. Cadell, London 1774.

[6] «...gehoren der deutschen Literatur», secondo Fuck, Die arabischen Studien, 168.

[7] Adatto liberamente la tipologia dei discorsi proposta da Roland Barthes in Introduction à l'analyse, structurale des récits, «Communications» 8 (1966), 4, n.1.

[8] André Lefevere, Translation, Rewriting and the Manipulation of Literary Fame, Routledge, London-New York 1992, capitolo VI: Translation:poetics. The Case of the missing qasidah, 73-86.

[9] Citato in Louis-Jean Calvet, La mondialisation au filtre de la traduction, «Hermès» 49 (2007), 45-57.

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