Il presidente tunisino vuole far cadere uno degli ultimi tabù nel mondo arabo-musulmano: la disuguaglianza nell’eredità tra uomo e donna. Siamo andati a seguire da vicino un dibattito che si preannuncia rivoluzionario per il ruolo della religione nelle società islamiche
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 17:33:55
Tunisi - “Università femminista” è scritto all’entrata della sede dell’Associazione tunisina delle donne democratiche – ATFD – in un ordinato quartiere residenziale di Tunisi. L’ufficio al piano terra di una anonima villetta bianca è un tempio della lotta per i diritti delle donne in Tunisia, uno dei Paesi del mondo arabo-musulmano più progressisti dal punto di vista delle libertà femminili. All’interno si respira un’aria di attivismo politico – e di sigarette spente male – che riporta a un tempo lontano di militanza e battaglie sociali, in un’Europa più giovane.
Alle pareti sono appese fotografie in bianco e nero di storiche attiviste, immagini di proteste di piazza. I volantini sparpagliati su un tavolo parlano in francese e in arabo della “costituzione della cittadinanza e dell’uguaglianza attraverso lo sguardo delle donne”, “della partecipazione femminile alla vita politica”, pubblicizzando uno spettacolo teatrale sul tema dell’uguaglianza successoria, intitolato Terka, “eredità”. Ed è proprio l’eredità l’ultima battaglia delle associazioni femminili, che in Tunisia hanno una storia lunga e radicata di lotte e di successi.
Khadija Cherif è la numero due dell’ATFD. A fine estate, assieme alle attiviste della sua e di altre realtà, ha festeggiato quello che definisce un successo epocale. Il 13 agosto, nel giorno della donna, il presidente della Repubblica Beji Caid Essebsi ha promesso la revisione di due temi sensibili: il matrimonio tra una donna musulmana e un non musulmano e l’uguaglianza nelle quote ereditarie. La circolare 216 del 1973 – ma che tutti chiamano circolare 73 – che vietava questo tipo di nozze miste è stata abrogata un mese dopo. E il Paese ora dibatte sulla questione dell’eredità.
Era il 1956 quando Bourguiba introdusse il codice dello statuto personale: fu abolita la poligamia, stabilita un’età minima per le ragazze per sposarsi, sostituito il “ripudio” con il divorzio giudiziale
Intervenire sul diritto successorio resta un tabù nel mondo islamico. In Tunisia, persino il leader che è riuscito a strappare alla sharī‘a la regolazione di diversi aspetti del diritto di famiglia aveva preferito a suo tempo non andare allo scontro con le istituzioni religiose e una società ancora conservatrice. Era il 1956 quando il padre fondatore e presidente Habib Bourguiba introdusse il codice dello statuto personale: fu abolita la poligamia, stabilita un’età minima per le ragazze per sposarsi, sostituito il “ripudio” con il divorzio giudiziale, imposto il consenso anche della sposa alle nozze.
«La prima Costituzione della Tunisia indipendente fu varata nel 1959, ma molti dissero allora che la vera legge fondamentale era arrivata tre anni prima, quando Bourguiba aveva messo la Tunisia sulla strada della modernità», spiega Khadija Cherif. Allora però il presidente che, grazie alla vasta legittimità popolare di cui godeva, aveva osato toccare norme regolate da secoli dal diritto religioso si era fermato davanti alla questione dell’uguaglianza successoria.
Laica, repubblicana, attivista e femminista, allontanata dal governo nel 2015 per le pressioni degli islamisti dopo essere stata nominata ministro della Donna, della Famiglia e dell’Infanzia, Cherif pensa che Bourguiba con lo strappo del 1956 si sia iscritto in una lettura modernista dell’Islam, senza arrivare alla separazione tra Stato e “Chiesa”. A differenza del suo illustre predecessore, l’attuale presidente tunisino, salito al potere dopo la rivoluzione del 2011 e la promulgazione di una nuova Costituzione che mette nero su bianco l’uguaglianza tra uomo e donna, giustifica invece la sua proposta estiva sulla base della necessità di conformare le leggi tunisine a quel testo sottoscritto da tutte le parti politiche – laici e islamisti – in un momento di unità nazionale. Non una lettura modernista dell’Islam, dunque, ma una chiara invocazione della divisione tra politica e religione, che mette alle strette gli islamisti di Ennahda, seduti in coalizione con il partito laico del presidente, Nidaa Tounes.
Sono due versetti coranici a regolare la questione dell’eredità e quella del matrimonio di una donna musulmana con un non musulmano
«Occorreva mettere alla prova Ennahda», spiega Khadija Cherif, facendo eco alle parole scritte sulla rivista francofona Jeune Afrique dalla giornalista tunisina Fawzia Zouari: «Bisogna ammetterlo, è un modo maligno di far uscire Ennahda allo scoperto: il partito islamista locale è in imbarazzo, non può mettersi contro le donne né deludere l’Occidente, che chiama a testimone del suo spirito ‘femminista’ e ‘democratico’».
Islamisti alla prova
Ha un filo di perle che le stringe il velo sotto il mento, Meherzia Labidi. Passeggia in un cortile del palazzo del Bardo, sede del Parlamento tunisino, dove l’azzurro delle porte contrasta con il marmo chiaro delle sottili colonne. Sorride quando dice con orgoglio d’essere stata dal 2011 al 2014 la prima donna vicepresidente di quell’Assemblea. E a chi le chiede come la società tunisina sia cambiata rispetto a quel 1956 in cui Bourguiba si era fermato davanti alla questione dell’eredità, ricorda che dopo la sua nomina sono stati in molti – «e tanti progressisti» – a dirle che era una donna e che non si sarebbe dovuta trovare lì, su quella poltrona: «La donna è cambiata, non la società». Labidi è una deputata di Ennhada, il partito islamista che ha vinto le elezioni del 2011 per poi sostenere un governo tecnico dopo la crisi politica del 2013-2014, quando il movimento fu accusato dai suoi avversari di islamizzazione della società e di incapacità di governare.
Sono due versetti coranici (4,11 e 2,221) a regolare la questione dell’eredità e quella del matrimonio di una donna musulmana con un non musulmano. Se l’uomo musulmano può sposare una donna cristiana o ebrea (le cosiddette “genti del libro”) lo stesso non vale per l’inverso. E chi è contro la revisione delle norme che governano l’eredità ricorda che il Corano sulla questione non lascia spazio a interpretazione: alla donna spetta la metà dell’uomo, la lettera è chiara. Benché il dibattito tocchi pratiche regolate direttamente dal testo coranico, Ennahda è stata sorprendentemente silenziosa sia quando a settembre è stata abrogata la circolare sui matrimoni misti sia mentre il Paese affronta la discussione sul diritto successorio.
«Se dovessi ascoltare il mio lato femminista, direi uguaglianza e basta – spiega Labidi – ma non pretendo di essere più intelligente di Bourguiba. Tra il discorso e la pratica c’è una distanza enorme. All’interno del pensiero giuridico religioso esiste chi chiede uguaglianza: occorre un dibattito in cui siano coinvolti gli specialisti della legge musulmana. C’è una struttura, e se si tocca la questione dell’eredità occorrerà rivedere l’intera struttura della famiglia. Per quanto riguarda il matrimonio, invece, fin dall’inizio dell’era islamica i giuristi anche più conservatori hanno assunto posizioni diverse. Una musulmana che vuole vivere la sua religione può chiedere allo sposo di convertirsi; se invece per lei la religione non è importante, agirà in funzione dell’amore». Meherzia Labidi fa parte dell’ala più “riformista” del partito. Se nel 1977 il leader del movimento islamista Rashid Ghannoushi chiese l’annullamento del codice di statuto personale di Bourguiba e l’instaurazione della sharī‘a, oggi – a giudicare dalle nomine politiche – sembra aver fatto spazio a quest’ala “riformista” a danno della corrente più conservatrice.
Negli anni ’80 e ’90 sono stati centinaia i militanti islamisti a finire in prigione per un’idea: quella dell’avvento di uno Stato islamico fondato su leggi tratte dai testi sacri, Corano e hadīth
È martedì mattina e al Palazzo del Bardo è appena terminato un incontro del gruppo parlamentare di Ennahda: i membri fanno una pausa alla mensa del Parlamento, dove il menù propone couscous di verdure con carne di agnello e rayeb, latte fermentato. Ajmi Lourimi, deputato, figura considerata tra gli ideologi del movimento, dichiara di non avere una posizione sulla questione dell’eredità, così come, spiega, Ennahda non possiede una posizione chiara od omogenea sul dibattito: «Penso si possa essere comunque un buon credente e difendere l’uguaglianza in materia di eredità. Non occorre essere laici o atei per rendersi conto che si tratta di una questione di ordine sociale, con un aspetto economico».
Eppure, negli anni ’80 e ’90 sono stati centinaia i militanti islamisti, come lo stesso Lourimi, a finire in prigione per un’idea: quella dell’avvento di uno Stato islamico fondato su leggi tratte dai testi sacri, Corano e hadīth. E se nel 2016 Ennahda ha annunciato la storica decisione di separare ciò che tradizionalmente è unito nei movimenti islamisti della regione – predicazione (da‘wa) e politica – molti suoi rivali vedono in questo cambio di direzione non un’evoluzione verso una sorta di “democrazia musulmana” sulla falsariga delle democrazie cristiane europee, ma una questione di opportunismo politico. «Sono diventati realisti nel momento in cui sono arrivati al potere e lo hanno esercitato in una società liberale che assomiglia più all’Italia che allo Yemen. E che non vuole uno Stato islamico», spiega Lazhar Akremi, ex ministro ed ex portavoce del partito del presidente.
Tunisi, quartiere popolare nei pressi della Medina
È forse troppo presto per capire se il silenzio di Ennahda oggi sia legato a quella decisione di separare predicazione e politica, a una reale evoluzione o al mero calcolo. “Specializzazione”, comunque, e non “separazione”, ci tiene a sottolineare Ajmi Lourimi. Per Samir Dilou, avvocato, ex ministro per i Diritti umani e portavoce di due governi di Ennahda, il passo del 2016 significa «lasciar perdere l’Islam politico, voltare la pagina dell’Islam politico: è un cammino. La Tunisia non ha bisogno di un partito pan-islamico, ma tunisino e senza legami con altre confraternite. Le domande in Tunisia devono avere risposte in Tunisia. Dire ‘l’Islam è la soluzione’ (lo slogan elettorale dei Fratelli musulmani egiziani) è come andare da un dottore che dice al paziente ‘la medicina è la soluzione’. Occorre dare risposte alle persone non nell’ambito religioso, perché non hanno bisogno di riscoprire la loro religione. Hanno bisogno di ricette politiche, economiche… La questione della separazione significa rispettare la legge dei partiti, come nel commercio: abbiamo avuto il permesso di vendere frigoriferi, non possiamo vendere reattori nucleari». È una spiegazione però che non convince attiviste laiche e femministe come Khadija Cherif, secondo la quale non ci sarebbe stata alcuna divisione tra predicazione e politica dentro Ennahda: «La predicazione avviene oggi in maniera più discreta. Quello che mi preoccupa è il lavoro che Ennahda fa a livello di educazione, sui giovani, nel sociale, tramite istituti privati non controllati dallo Stato. Il giorno che avrà la maggioranza farà come Erdoğan: alla fine ha islamizzato la società».
Nel palazzo dei saggi
È un antico palazzo quello in cui sorge Beit al-Hikma, l’accademia tunisina di scienze, lettere e arti. Il nome rimanda alla prestigiosa casa del sapere islamico del califfo al-Ma’mūn a Baghdad nel IX secolo. La fondazione tunisina, di cui fanno parte scrittori, scienziati e intellettuali, sorge sul lungomare di Cartagine. Maioliche colorate decorano l’ufficio di Abdelmajid Charfi, presidente di Beit el-Hikma, professore emerito dell’università di Tunisi e membro di quella commissione di “saggi” istituita dal presidente Essebsi per riflettere sulla questione dell’eredità. Secondo Charfi, considerato uno dei maestri del pensiero islamico modernista, il rumoroso silenzio di Ennahda su queste riforme tiene conto del rapporto di forze e del fatto che la richiesta arrivi dal capo del partito con cui gli islamisti hanno un’intesa. Allo stesso tempo, «riflette ciò che avviene nella società: una parte della base di Ennahda ma anche dei suoi leader è cambiata, anche se rimane all’interno del movimento chi rifiuta qualsiasi affronto a quello che ritiene essere il consenso della comunità musulmana». E certo è che oggi i rapporti di forza sono sfavorevoli a Ennahda, indebolita dalla prova di governo del 2012-2014. La crisi del Golfo ha inoltre affievolito il sostegno del Qatar e l’America e l’Occidente, che in un primo tempo avevano appoggiato gli islamisti nella regione, hanno fatto un passo indietro. Il partito mantiene un basso profilo e quindi per ora l’unica vera opposizione – almeno sulla carta – alle proposte riformiste del presidente tunisino è arrivata da istituzioni religiose ufficiali. La Zaytuna, università e moschea e debilitato tempio del sapere islamico tunisino, ha pubblicato un comunicato in cui si oppone sia all’abrogazione della circolare 73 sul matrimonio sia alla riforma del diritto successorio. Lo stesso ha fatto la prestigiosa università egiziana di al-Azhar, intervenendo nel dibattito nazionale tunisino.
Per Mounir Rouis, direttore dell’istituto di Teologia della Zaytuna, non ci sono né dubbi né spazi di manovra: i testi sacri sono chiari sia sulla questione del matrimonio sia sull’eredità. Eppure, sembra voler tendere una mano al governo: «La Zaytuna non è sempre contro, non è contro per il gusto di essere contro, ma vuole essere coinvolta nei dibattiti che toccano la religione: siamo pronti a inviare esperti. Bourguiba aveva coinvolto gli ulema nell’elaborazione del codice di statuto personale». Allora, tra gli esperti di religione a difendere quella riforma c’era stato uno dei maggiori pensatori islamici e intellettuali tunisini, Fadhel Ben Achour. «Sono felice di sedere ora sulla scrivania che fu sua, torneremo a questi fasti», dice il professore indicando l’enorme tavolo in legno massiccio ingombro di libri e fascicoli colorati. Tradizionalmente, l’istituzione religiosa nell’Islam sunnita è legittimista – ricorda Abdelmajid Charfi, che non si aspetta dalla Zaytuna una vera opposizione alle riforme proposte che vada oltre il semplice comunicato: «Nella storia dell’Islam, i rappresentanti di istituzioni ufficiali non dicono mai di no al potere politico; al contrario, lo seguono. Questi stessi rappresentanti lasciati senza intervento del potere politico hanno posizioni conservatrici, ma possono cambiarle in funzione del potere politico».
Dire ‘l’Islam è la soluzione’ (lo slogan elettorale del Fratelli musulmani egiziani) è come andare da un dottore che dice al paziente ‘la medicina è la soluzione’
Nella commissione in cui siede il professor Charfi ci sono personalità con un background islamico modernista, ma mancano giuristi o esperti religiosi. Lo stesso mufti della Repubblica, Othman Battikh, che ha appoggiato l’abrogazione della circolare 73, resta contrario alle riforme proposte sull’eredità, così come il ministro per gli Affari religiosi, Mohamed Khalil. E tuttavia «non è inusuale nella storia dell’Islam adottare nuovi approcci al testo – spiega Mariem Masmoudi, attivista tunisino-americana che lavora sui processi costituzionali per l’International Institute for Democracy and Electoral Assistance. Bourguiba, lui stesso un avvocato, non ha fatto tutto da solo, ma ha lavorato con una squadra di cui facevano parte anche esperti religiosi delle istituzioni tradizionali: questo, che non accade oggi con Essebsi, gli ha permesso di conquistare anche le frange più conservatrici dell’opinione pubblica».
Un guadagno per due
Di battaglia parla esplicitamente Bochra Belhaj Hmida, presidente della commissione governativa che lavora sulla questione dell’eredità, mentre rammenda un abito di pizzo azzurro seduta nella sua abitazione nel sobborgo chic di La Marsa, a pochi chilometri da Tunisi. «Nel mondo arabo musulmano è la politica ad aver messo la religione al suo servizio, per mantenere lo status quo. Quando non si vuole toccare il Corano, è perché si vuole mantenere lo status quo; quando si vuole cambiare, si trovano i mezzi per farlo. Ho il diritto di non scegliere la via più retrograda perché se si è retrogradi sui diritti delle donne lo si è su tutto». Avvocato, femminista della prima ora, per Hmida la nuova sfida rappresenta il culmine di anni di battaglie. Oggi per lei è possibile toccare la legge perché le donne in Tunisia sono attori economici indipendenti e capi di famiglia.
Sia per l’università egiziana di al-Azhar sia per quella tunisina della Zaytuna non ci sono né dubbi né spazi di manovra: i testi sacri sono chiari
Chi difende la priorità della sharī’a nelle questioni familiari parla spesso della richiesta di una élite, non di una domanda popolare. Se è vero che il matrimonio tra una musulmana e un non musulmano coinvolgeva una volta soltanto le donne più ricche, che andavano a studiare o lavorare all’estero, oggi per Hmida la maggior parte di questi matrimoni accade tra i più poveri, tra le donne che lavorano nelle piccole fabbriche con proprietari e dipendenti stranieri, o tra gli immigrati in Europa. Anche la questione dell’eredità coinvolgerebbe soprattutto le donne più povere, perché nelle fasce più ricche o più educate è facile che la questione sia risolta tramite un lascito testamentario o una donazione. Per Hmida, si tratta di riforme che avranno un forte impatto altrove nella regione: «Quello che accade in Tunisia oggi rafforza le donne negli altri Paesi musulmani, visto che i governi sono in concorrenza tra di loro. M’infastidisce l’espressione ‘eccezione tunisina’: mette in forse la lotta di altre donne. Noi tunisini abbiamo interesse a non rimanere soli, a non rimanere un’eccezione. E lo siamo sempre di meno».
Non sono certo mancate alla presidente Bochra Hmida le critiche per quello che sta facendo. Se chi è contrario alle proposte di Essebsi sulla questione dell’eredità dice – soprattutto in area islamista – che non è il momento adatto per toccare temi così divisivi in un’era di difficile transizione, dal campo laico e dai gruppi nati dalla rivoluzione del 2011 la critica è quella di lavorare con un presidente in odore di ancien régime, che non avrebbe per nulla a cuore le donne, ma soltanto il profitto politico. A breve sarà scelta una data per le elezioni municipali, finora posticipate e nel 2019 il leader novantenne vorrebbe ripresentarsi alle presidenziali. L’abrogazione della circolare sul matrimonio è stata annunciata il giorno dopo l’adozione da parte del Parlamento di un progetto di legge di amnistia degli ex funzionari del regime di Zine El-Abidine Ben Ali. Parte della società civile indignata accusa il presidente di voler coprire con il suo femminismo un controverso passo indietro. La risposta di Hmida è tagliente: «Non è un mio problema. In quanto femminista voglio che la donna guadagni in civiltà. Se lui ci guadagna in quanto presidente meglio per lui. Non mi farò certo scappare un’occasione per fare avere più diritti alle donne».
Tra controversie politiche, dubbi islamisti e aspettative femministe, l’unico elemento certo è che la discussione avverrà in Parlamento, con i mezzi di una ancora imperfetta democrazia messa alla prova. D’altronde, dopo una dettagliata argomentazione sulle ragioni in difesa delle tradizionali norme sull’eredità, la deputata di Ennahda Meherzia Labidi conclude così la sua esegesi: «E se in Parlamento la maggioranza è per l’uguaglianza, alla buon’ora, ma che tutto avvenga attraverso un dibattito: Dio non ci farà finire all’inferno per questioni di eredità».
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