Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:16
Il fenomeno migratorio ha cominciato a coinvolgere in modo sensibile l'Italia a partire dalla metà degli anni '80, con un notevole ritardo rispetto ai paesi del Nord Europa, che sono stati invece meta delle migrazioni internazionali fin dagli anni '50, in concomitanza con la ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale e con lo sviluppo industriale degli anni '60. Potremmo dire che l'Italia ha cominciato a divenire meta di immigrazione quando gli altri paesi europei a causa dei mutamenti della congiuntura economica e del fabbisogno del mercato del lavoro hanno progressivamente mutato le proprie politiche migratorie, rendendo più difficile l'immigrazione per motivi economici. L'immigrazione in Italia è cominciata in modo del tutto spontaneo, senza un'incentivazione e una regolamentazione da parte dello Stato Italiano, come era invece avvenuto nei decenni precedenti negli altri Paesi Europei. Si trattava di una situazione del tutto comprensibile dal momento che l'Italia era tradizionalmente un paese di emigrazione. La prima legge organica sull'immigrazione risale al 1990 (legge Martelli), seguita poi da un'ulteriore legge nel 1998 (legge Turco-Napolitano), sostituita dall'attuale legge del 2002 (legge Bossi-Fini). La legislazione si è occupata essenzialmente di due grandi ambiti: da un lato la disciplina degli ingressi in Italia, dall'altro la politica di integrazione degli immigrati nell'ambito della società italiana. A questi si è aggiunta come ulteriore priorità la tutela della sicurezza. La disciplina degli ingressi messa in vigore ogni volta offrendo la possibilità di regolarizzazione agli immigrati presenti in Italia in modo irregolare si è progressivamente precisata individuando nelle quote annuali decise dal governo in ragione delle richieste del mercato del lavoro il criterio fondamentale da applicare per gestire i flussi. Sempre più spazio ha occupato la politica di integrazione, espressione della consapevolezza che il mantenimento di una società coesa richiede una progettualità specifica, che non può non tenere conto del rapporto inevitabile tra politica degli ingressi e politiche di integrazione per garantire l'efficacia di queste ultime in termini di sostenibilità e gestione. Nel dibattito pubblico e mediatico il tema dell'integrazione richiama in primo luogo la dimensione culturale e religiosa, con il rischio, forse, se non di sovrastimare questo aspetto, certamente di ridurre ad esso una complessità ben più grande. In effetti l'integrazione degli immigrati nella società si attua non solo tramite strategie di tipo culturale, ma gioca un ruolo rilevante la dimensione economica e sociale. Non bisogna mai dimenticare che le ragioni che spingono gli immigrati in Italia e negli altri paesi europei sono essenzialmente di natura economica, ed è questo il primo obbiettivo che essi si pongono. L'integrazione economica nel mercato del lavoro italiano è del resto non solo il conseguimento dell'obiettivo specifico della scelta di emigrare, ma è anche il vettore fondamentale attraverso cui si attua l'inserimento nella società italiana. Lavorare significa interagire in un ambito economico entrando in contatto con le sue articolazioni interne, con le istituzioni, significa socializzare con i colleghi e disporre di un reddito con cui mantenere la propria famiglia e rispondere a obiettivi ulteriori che riguardano i figli. La dimensione lavorativa è dunque essenziale per attuare l'integrazione, e il nesso posto tra ingressi e possibilità lavorativa reale tiene conto proprio di questo importante aspetto. Le esperienze europee mostrano come il mancato inserimento nel mercato del lavoro o l'uscita prolungata da esso provocano fenomeni di marginalità e di disagio sociale, che diventano la condizione favorevole anche per il sorgere della conflittualità identitaria di tipo culturale o religioso. L'integrazione economica favorisce dunque l'integrazione sociale. La legislazione italiana si propone di favorire la dimensione sociale dell'integrazione tramite una serie di provvedimenti, che vanno dalla politica sanitaria, alle politiche educative, alle politiche di integrazione culturale. Importanti sono anche le politiche abitative in cui è fondamentale la consapevolezza e l'azione dei singoli comuni, cui compete in prima istanza di evitare il sorgere di quartieri ad alto tasso di popolamento immigrato, per favorire piuttosto la diffusione della popolazione immigrata nel tessuto urbano, al fine di evitare fenomeni di ghettizzazione, spesso anche ricercata da alcuni gruppi immigrati specie nella prima fase migratoria. Sul piano dell'integrazione sociale svolge un ruolo determinante la politica scolastica dell'educazione. A questo riguardo l'Italia ha scelto la via dell'interculturalità, che cerca di evitare i rischi presenti nelle due opposte opzioni del multiculturalismo e della mera assimilazione. Se l'assimilazione nega riconoscimento alle peculiarità culturali dei vari gruppi immigrati e esige una forte e completa adesione al modello culturale del paese di accoglienza, correndo il rischio di generare forme di esclusione o di disagio, il multiculturalismo che postula l'esigenza di tutelare le diversità culturali anche sul piano giuridico in nome dell'equivalenza di tutte le culture genera fenomeni di disintegrazione sociale, perché non si pone l'obiettivo di elaborare una cultura condivisa e un sistema di valori che superi le diversità, ottenendo una comune adesione. L'interculturalità cerca di coniugare insieme il rispetto della diversità con l'esigenza di aderire a valori comuni, la qual cosa implica entrare in relazione simpatetica con la cultura e l'ordinamento etico-socio-politico della società di accoglienza. In particolare l'educazione interculturale non afferma l'equivalenza pratica di tutte le culture, ma afferma l'universalità di una serie di valori fondamentali che esprimono la dignità della persona umana, declinati in precise strutture giuridiche, politiche e sociali. Tali valori identificati nei diritti universali dell'uomo e nei principi costituzionali fungono nello stesso tempo da quadro di garanzia per l'espressione della diversità culturale, ma anche da griglia critica nei suoi confronti, nel senso che quelle diversità culturali che si pongono in modo conflittuale rispetto a tali valori fondamentali condivisi non possono trovare spazio di accettazione. A fronte di una crescente consapevolezza della sconfitta del modello multiculturale nel promuovere l'integrazione testimoniata in Europa dall'esperienza britannica e olandese e dai crescenti limiti che emergono dal modello assimilazionista cui è riconducibile la politica francese, che si trova però oggi a dovere affrontare in modo nuovo le sfide della diversità culturale e religiosa l'opzione per una politica educativa interculturale sembra particolarmente interessante e destinata a maggiori successi, perché evita i due rischi opposti del relativismo e di un insufficiente riconoscimento del pluralismo. Se è vero che l'integrazione è un percorso complesso, in cui interagiscono diverse dimensioni, è anche vero che la dimensione culturale e religiosa è oggetto di enfasi particolare in rapporto a una specifica componente di popolazione immigrata presente in Italia e in Europa, ovvero la popolazione musulmana. In tutti i paesi europei, inclusa l'Italia, alcuni settori di immigrati di origine musulmana hanno infatti utilizzato la propria appartenenza religiosa intesa in senso collettivo come vettore per attuare il proprio inserimento nelle società europee. In particolare in nome della specifica identità religiosa islamica hanno aperto un dialogo con le istituzioni rivendicando tutta una serie di diritti connessi alla pratica religiosa, ma i cui campi di applicazione in prospettiva islamica risultano assai ampi, toccando anche ambiti delicati quali l'eguaglianza tra i sessi e la laicità delle istituzioni. Queste iniziative hanno fatto giustamente temere derive di tipo comunitarista, quasi che i musulmani vogliano inserirsi in Europa come una sorta di comunità coesa, mantenendo proprie specificità anche sul piano giuridico, invece che inserirsi come singoli residenti o cittadini portatori di una fede religiosa specifica, ma leali alla cittadinanza comune. Questi timori non sono peregrini perché un simile progetto è certamente vagheggiato dalle correnti fondamentaliste, che anche in Europa hanno le proprie organizzazioni. è tuttavia assai dubbio che tale atteggiamento progettuale sia proprio della gran parte degli immigrati di origine musulmana, che non mostrano in Europa un alto tasso di religiosità (la frequenza alle moschee interessa dal 6% al 12% della popolazione musulmana a seconda dei paesi europei; in Italia è attestata alla percentuale più bassa), e dunque non hanno generalmente atteggiamenti militanti. Al fine di promuovere una integrazione compiuta dei musulmani in Italia bisogna però evitare tre errori nel medio periodo. Il primo è quello di legittimare come interlocutori dello Stato proprio quegli organismi islamici di ispirazione fondamentalista che, in quanto militanti, sono particolarmente attivi nel presentarsi come rappresentanti dell'intera comunità musulmana, ma la cui rappresentatività non è reale. Il secondo errore potrebbe essere quello di optare per un atteggiamento puramente di attesa che i vari organismi musulmani riescano a esprimere una linea unitaria per fungere da controparte dello Stato, magari con la segreta convinzione che questo non avverrà. È invece auspicabile che le istituzioni competenti pongano quesiti specifici alle diverse organizzazioni musulmane per verificare il loro grado reale di adesione ai quei valori fondamentali dell'ordinamento sociale e istituzionale italiano di cui si è parlato sopra; tale adesione implica non solo la leale partecipazione a una società comune, ma anche la presa di distanza netta da determinate istituzioni giuridiche ben presenti all'interno dell'Islam, quali in particolare il non riconoscimento dell'eguaglianza tra i sessi, la forte riserva rispetto al riconoscimento della piena libertà di coscienza di ogni essere umano e la difficoltà a distinguere la sfera religiosa dalla sfera politica e giuridica. Solo se si pongono in modo chiaro tali interrogativi si potrà favorire l'emergere di quell'Islam moderato che spesso non trova ancora canali organizzati per fare sentire la propria voce e divenire interlocutore efficace nel processo di integrazione. Infine il terzo rischio da evitare è il fallimento dell'integrazione professionale e sociale delle seconde generazioni, nate o scolarizzate in Italia. Se questo avvenisse in modo significativo, si potrebbero creare condizioni atti a favorire fenomeni di affermazione identitaria conflittuale, che finirebbero per sposare le prospettive dell'Islam fondamentalista, come avviene in taluni situazioni urbane della Germania. È questa una riprova dell'interconnessione tra le diverse dimensioni del processo di integrazione che una politica efficace deve tenere presente nel medio periodo. In Italia, che oggi dopo circa venti anni di coinvolgimento nei flussi immigratori conta oltre due milioni di immigrati, il processo di integrazione è tutto sommato agli inizi e sembra impostato in modo efficace nelle sue linee fondamentali, anche se i suoi esiti sono nel futuro.