Rassegna stampa del 3 ottobre 2018

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:55:55

La fine della Guerra Fredda e l’inizio dell’unipolarismo americano sancirono un deciso mutamento nella politica estera degli Stati Uniti. Barak Obama ha cercato di modificare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo e oggi con Trump si assiste all’oscillazione fra conservatorismo in ambito domestico e riformismo nelle relazioni internazionali, suggerisce Stephen Grand per National Interest. È in particolar modo in Medio Oriente che l’amministrazione americana gioca una partita chiave: il riavvicinamento alla monarchia saudita e l’uscita dal JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano, cui ha fatto seguito la reintroduzione delle sanzioni all’Iran, ritenuto il nemico numero uno nella regione.

 

La contrapposizione con Teheran si gioca soprattutto in Siria. Il National Security Advisor John Bolton ha ribadito pochi giorni fa all’Assemblea Generale dell’ONU che la presenza a stelle e strisce in Siria è inestricabilmente legata alla minaccia della Repubblica Islamica. Come evidenziato da Foreign Policy, l’esternazione ha causato non pochi problemi al Segretario alla Difesa, James Mattis, che si è trovato, e si trova tuttora, a cercare di far convivere la costante retorica anti-iraniana con l’impossibilità di una risoluzione unilaterale da parte americana del conflitto siriano e di conseguenza con l’impellenza di un confronto con gli altri attori presenti sul terreno, incluso Teheran. In un tentativo di uscire da questa impasse, Mattis ha parlato di un non meglio precisato raddoppiamento delle forze diplomatiche a Damasco, senza però ricordare che gli Stati Uniti non hanno un ambasciatore nel Paese da anni. Le dichiarazioni di Mattis, pronunciate il 2 ottobre durante la conferenza stampa al Ministero della Difesa francese alla presenza di Florence Parly, suo corrispettivo nell’esecutivo Macron, hanno comunque ricevuto il supporto dell’amministrazione parigina. Parly ha infatti appoggiato la linea Mattis-Trump in Siria, riconoscendo nell’Iran la principale minaccia nella regione e nella Libia una polveriera da monitorare con attenzione.

 

In quest’ultimo Paese, diviso fra il governo di Fayez al-Serraj a Tripoli, che è riconosciuto dall’ONU ma indebolito dal cartello di milizie descritto da Wolfram Lacher e Alaa al-Idrissi (Small Arms Survey), il parlamento di Tobruk con la figura forte del generale Khalifa Haftar, le zone tribali del Fezzan, a preoccupare gli americani è la posizione ambigua assunta dal Cremlino. Su questo aspetto si sofferma l’articolo di Isabella Nardone su Formiche. Se dal punto di vista economico il Ministro dell’Economia Naser al-Darsi, uomo fidato di al-Serraj, ha richiesto il supporto russo per la realizzazione di una ferrovia da Misurata a Sirte, da un punto di vista politico, l’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, ha più volte invocato l’aiuto della Russia nel processo di stabilizzazione del Paese. Mosca non ha tuttavia mai disdegnato un dialogo con il governo di Tripoli.

 

Ma ciò che desta (o dovrebbe destare) maggior preoccupazione in Libia è la situazione umanitaria. Gli scontri di fine agosto hanno fatto registrare 96 morti e 444 feriti, all’interno di uno scenario già critico. In un articolo di The National si ricorda come l’Alto Commissario dell’UNHCR, Kelly Clements, si sia trovata costretta a evacuare il personale di stanza a Tripoli, lasciando oltre 8.000 fra migranti, profughi e rifugiati in balia del Dipartimento per il Combattimento all’Immigrazione Clandestina. Ma se nei centri di detenzione la situazione è drammatica, «le tragedie più gravi sono altrove: è alle milizie che dovete chiedere di rendere conto», dice un rifugiato a Lorenzo Cremonesi per il Corriere della Sera. Violenze di ogni sorta, torture e stupri sono all’ordine del giorno e sembrerebbero eradicare ogni speranza. L’ultimo baluardo lo si trova nella fede e nella cattedrale tripolina dedicata a San Francesco, che raccoglie centinaia di fedeli ogni giorno: si stima che oltre 20.000 migranti siano cristiani. Qui, migliaia di persone si ritrovano per pregare e per cercare sollievo all’interno di un quadro politico, economico e sociale tragico.

 

Per chi lascia il Paese però la situazione è tutt’altro che serena. Gli ultimi mesi, coincisi con il giro di vite del Ministro degli Interni Matteo Salvini in tema di accoglienza, hanno fatto registrare un numero minore di sbarchi (61 al giorno) rispetto al periodo luglio 2017-maggio 2018 (117 al giorno). Allo stesso tempo però il numero di morti in mare è drasticamente cresciuto, passando da 3 a 8 al giorno. Settembre ha rappresentato il punto più alto, e umanamente più basso, degli ultimi anni: circa un migrante su cinque (il 19%) è deceduto o scomparso durante la traversata, secondo l’ultimo commentary ISPI. L’Italia, in prima linea sulla questione migranti e molto interessata allo scacchiere libico, ha dichiarato per voce del Ministro degli Affari Esteri Enzo Moavero Milanesi che ospiterà a Palermo il 12 e il 13 novembre la Conferenza sulla Libia. Repubblica riporta inoltre che, nelle dichiarazioni al Senato, il Ministro ha anche ribadito che al momento l’ambasciatore Giuseppe Perrone, etichettato come persona non gradita da Haftar, non farà ritorno a Tripoli. La questione libica sarà oggetto di discussione anche nell’incontro tra Moavero Milanesi e il collega russo Sergej Lavrov, che ci sarà lunedì 10 ottobre.

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