Dall’autoproclamazione dello Stato islamico, in Egitto si è riacceso un dibattito, mai del tutto sopito, sull’Islam e suo ruolo nella società e nello Stato
Ultimo aggiornamento: 27/06/2024 11:39:46
Dall’autoproclamazione dello Stato islamico, in Egitto si è riacceso un dibattito, mai del tutto sopito, sull’Islam e suo ruolo nella società e nello Stato. Mentre al-Sisi chiede – non senza secondi fini – una “rivoluzione religiosa”, per al-Azhar c’è piuttosto bisogno di una correzione delle interpretazioni adottate da estremisti e terroristi. Alcuni intellettuali, anche da fronti diversi, avanzano proposte più ardite di rivalorizzazione della ragione e di revisione radicale della metodologia tradizionale del diritto islamico.
Da quando l’Isis ha cessato di essere un “emirato di carta” per presentarsi come il restauratore del Califfato[1], nel mondo islamico sono tornate a risuonare con forza parole come riforma, rinnovamento, e addirittura rivoluzione.
Il dibattito sul terrorismo islamista, sul suo nesso più o meno stretto con la tradizione islamica e sulle modalità con cui contrastarlo, ha trovato un terreno particolarmente fertile in Egitto, un Paese in cui da più di un secolo si torna periodicamente a discutere del ruolo dell’Islam all’interno della società e dello Stato. In questo contesto ha avuto ampia eco il discorso con cui il 1° gennaio del 2015 il presidente Abd al-Fattah al-Sisi ha invitato le autorità islamiche ufficiali del suo Paese a intraprendere una vera e propria «rivoluzione religiosa». L’iniziativa di al-Sisi è stata variabilmente interpretata: c’è chi non ha esitato a definire il presidente il “Lutero dell’Islam”[2] e chi invece ha rilevato come le sue parole, «non fossero in alcun modo una novità per i vertici di al-Azhar», pur riconoscendo l’eccezionalità di un «presidente proveniente dall’esercito che pubblicamente rivolge ad al-Azhar e al suo shaykh un discorso sulla loro missione»[3].
Come valutare dunque le parole del presidente egiziano? E più in generale quali sono stati e quali potranno essere gli esiti del dibattito egiziano sulla riforma religiosa? Per rispondere a queste domande occorre da un lato osservare da vicino il comportamento dei singoli attori coinvolti nel dibattito, e dall’altro collocare quest’ultimo nel quadro più vasto delle relazioni tra Stato e istituzioni islamiche nell’Egitto contemporaneo.
Dramatis Personae
Consideriamo innanzitutto il ruolo di al-Sisi. La legittimità del Presidente si fonda in buona parte sulla sua opposizione al regime dei Fratelli Musulmani e del Presidente Morsi, contro i quali nel giugno del 2013 erano scesi in piazza milioni di persone. In quest’ottica, sin dalla sua elezione al-Sisi ha più volte ribadito il bisogno di proteggere le istituzioni dello Stato dagli attacchi e dall’influenza della Fratellanza. Ma già prima che al-Sisi diventasse presidente, il governo formatosi all’indomani della deposizione di Morsi aveva adottato una serie di misure volte a riportare le istituzioni religiose sotto la stretta vigilanza dello Stato, epurandole dei membri della Fratellanza che durante la presidenza di Morsi erano stati nominati in posizioni chiave all’interno del Ministero degli Affari Religiosi (Awqâf), in un evidente tentativo di accaparramento del controllo delle moschee[4]. La retorica di al-Sisi sulla necessità di riformare, o addirittura di “rivoluzionare” l’Islam, che non si limita peraltro al discorso pronunciato il 1° gennaio scorso, va perciò letta innanzitutto nel quadro della lotta contro i Fratelli musulmani, che lui stesso ha definito i «padri putativi di tutte le organizzazioni terroristiche»[5], e contro i gruppi oggi legati allo Stato Islamico che minacciano l’Egitto dal Sinai o dalla Libia.
Per dare seguito alla “rivoluzione” di al-Sisi si è mobilitato (o è stato mobilitato) tutto l’establishment religioso, in vario modo dipendente dallo Stato: il Ministero degli Affari religiosi, Il Gran Mufti e la moschea di al-Azhar, la cui esposizione mediatica e il cui attivismo comunicativo hanno conosciuto un’impennata dopo il discorso presidenziale. Il più sollecito interprete del pensiero del presidente egiziano è stato fino a questo momento il Ministro degli Affari Religiosi, Muhammad Mokhtar Gom‘a. Il 7 marzo del 2015, gli ulema che avevano partecipato al congresso del Consiglio superiore degli affari islamici, un ente affiliato al ministero e presieduto dallo stesso Gom‘a, hanno inviato ad al-Sisi una lettera in cui tra l’altro si leggeva: «il suo appello per un rinnovamento reale del discorso religioso non è caduto e non cadrà nel vuoto»[6].
Leggermente più defilato il Mufti della Repubblica, Shawqi ‘Allam, al quale comunque si deve la definizione dello Stato Islamico come “germoglio satanico”[7]. Dal gennaio di quest’anno il Mufti tiene una rubrica fissa su uno dei principali giornali egiziani, il quotidiano Al-Masrî al-Yawm. Attraverso di essa il Mufti promuove in particolare un’idea di riforma dell’Islam legata alla spiritualità sufi, ma senza disdegnare interventi più direttamente politici, con curiose giustificazioni “teologiche” del ruolo dell’esercito egiziano nella lotta al terrorismo o della coalizione araba impegnata in Yemen.
Un discorso a parte meritano la moschea di al-Azhar e il suo Grande Imam, lo shaykh Ahmad al-Tayyeb, esplicitamente investiti da al-Sisi della missione di rinnovare l’immagine e il discorso dell’Islam. Già prima dell’intervento del presidente, al-Azhar si era spesa per condannare i crimini dello Stato Islamico e promuovere all’interno del mondo musulmano una riflessione sui fattori che ne hanno favorito l’affermazione. Il Grande Imam si è più volte detto molto preoccupato dalla diffusione endemica dell’estremismo. Tuttavia, a differenza delle altre autorità islamiche egiziane, i vertici di al-Azhar sembrano non vedere la necessità né di un rinnovamento, né di una riforma, né tantomeno di una rivoluzione religiosa, concetti che non trovano molto spazio nei loro interventi pubblici. L’idea di fondo è – piuttosto apoditticamente – che i «gruppi violenti e terroristi siano estranei all’Islam per dogma, legge, etica, storia e civiltà»[8]. Il problema non sarebbe dunque rinnovare o riformare l’Islam, quanto contrastare e correggere le interpretazioni distorte introdotte da “estremisti” e “terroristi”. La chiave di volta di questo progetto è la condanna della pratica del takfîr (anatema), che i gruppi islamisti usano per squalificare, ed eventualmente eliminare, i musulmani “devianti” o troppo tiepidi[9].
La critica degli intellettuali
Proprio tale impostazione è stata fortemente criticata da alcuni intellettuali, secondo i quali non basta affermare l’estraneità dell’estremismo all’Islam, ma occorre riconoscere che la violenza impiegata dai gruppi come lo Stato islamico si radica in alcuni elementi effettivamente rintracciabili nella tradizione islamica. La riforma o il rinnovamento di cui si parla non può dunque limitarsi a una correzione puntuale di alcuni aspetti particolarmente problematici, ma richiede un intervento molto più ampio e radicale.
Uno di questi è l’analista ‘Adel No‘mân, che di questioni religiose dibatte regolarmente dalle pagine dei quotidiani Al-Masrî al-Yawm e Al-Watan. Secondo No‘mân, l’operazione più urgente è sottoporre l’intera tradizione al vaglio della ragione e della scienza. In particolare occorre fare pulizia nell’enorme massa di hadîth (tradizioni profetiche) che nel corso della storia islamica sono stati sacralizzati ed elevati al rango della rivelazione, con il risultato di impedire più che di agevolare una comprensione corretta del dato coranico. No‘man sostiene per esempio che la figura del profeta Muhammad che emerge dal Corano è sostanzialmente diversa da quella che si ricava dalla lettura dei libri della tradizione e in particolare dalla raccolta di hadîth di Bukhârî, che insieme a quella di Muslim è considerata canonica per eccellenza dai musulmani sunniti[10]. Si tratta di un approccio abbastanza diffuso tra molti modernisti islamici e che in Egitto aveva già trovato degli illustri rappresentanti in Muhammad Husayn Haykal (m. 1956) e Mahmûd Abû Rayya (m. 1970).
No‘mân non pretende che a farsi carico del rinnovamento siano le istituzioni religiose, storicamente incapaci di tale impresa. Esso spetterebbe piuttosto allo Stato e agli intellettuali. Le istituzioni e in particolare al-Azhar dovrebbero invece concentrarsi sulla purificazione dei testi di studio dai metodi «takfiristi e contrari alla ragione e alla scienza». No‘mân ha qui in mente alcuni casi specifici:
Si prenda per esempio il Libro della persuasione di Ibn Abî Shajjâ‘, che viene insegnato al secondo ciclo di al-Azhar: vi si trova che la pena da applicare all’apostata o a chi non compie la preghiera è la morte e che di entrambi è possibile cibarsi senza doverne cuocere la carne […]. Agli esami, all’allievo è richiesto di rispondere correttamente su queste cose, per quanto siano in contrasto con le sue convinzioni e con la logica. […] Torniamo a quanto diceva Muhammad ‘Abduh: la strada per la riuscita e il progresso è la ragione[11].
Più articolata è l’argomentazione di Sherif Younis, che lo storico sviluppa sulla sua rubrica bisettimanale sul quotidiano Al-Ahram. Essa si muove su due piani diversi: da un lato Younis sostiene che a essere problematico è tutto l’impianto metodologico della tradizione islamica e in particolare di quella giuridica. Fondandosi sulla disparità tra i musulmani e gli altri (e all’interno dell’universo islamico tra l’uomo e la donna) essa non può che confliggere con uno dei capisaldi della modernità, e cioè l’universalità dei diritti dell’uomo a prescindere dalle distinzioni di sesso, razza o religione. Dall’altro Younis situa l’origine della violenza delle organizzazioni terroriste come lo Stato Islamico nel risveglio islamista degli anni ’60-’70, il quale a sua volta sarebbe anche uno degli esiti inattesi delle aporie del pensiero riformista di fine Ottocento-inizio Novecento, a partire dal suo grande protagonista Muhammad ‘Abduh[12]. In entrambi i casi, l’esplosione odierna della violenza fondamentalista non sarebbe che il sintomo più macroscopico e terrificante di un profondo malessere dell’Islam e della sua incapacità di rinnovarsi. Su questo punto si può registrare una differenza non secondaria tra No‘mân e Younis. Per il primo, come per diversi altri intellettuali, i musulmani possono uscire dalla crisi riallacciando i fili con la stagione riformista del primo Novecento che i vari fondamentalismi e tradizionalismi hanno spezzato. Per Younis quella stagione è invece parte integrante della crisi.
Alle voci e alle riflessioni di questi intellettuali, si aggiungono le critiche e le accuse ancora più caustiche e veementi di alcuni noti volti televisivi, come Ibrahim ‘Issa e Islam Beheri.
Contestando la tradizione islamica, questi intellettuali e opinionisti mettono più o meno direttamente in discussione anche chi, come al-Azhar, di quella tradizione si vuole custode. In questo modo essi non solo non accettano l’immagine del giusto mezzo con cui la moschea tende ad autorappresentarsi, ma attribuiscono ad al-Azhar una complicità nell’attuale crisi.
La risposta di al-Azhar. Ritorno al passato?
I vertici della moschea naturalmente non hanno accolto di buon grado questi tentativi di delegittimazione. In una nota del gennaio scorso, il grande Imam al-Tayyeb denunciava
la violenta campagna sollevata contro i metodi e la tradizione della nobile al-Azhar […], condotta dai rappresentanti di quelle correnti che vorrebbero trasformare l’Oriente in un pezzo di Occidente, uniformandolo alla sua civiltà e ai suoi valori irrispettosi sia della moralità che della religione[13].
La “campagna” ha tuttavia sortito qualche seppur minimo effetto, convincendo al-Azhar a intraprendere una parziale revisione dei manuali utilizzati nei suoi istituti. Allo stesso tempo però la moschea si è anche attivata per ribattere alle accuse degli intellettuali “occidentalizzati”, dedicando per esempio un inserto speciale del suo settimanale, Sawt al-Azhar (“La voce di al-Azhar”), a una dettagliata confutazione delle critiche mosse alla tradizione islamica[14].
Lo scontro tra la moschea e gli intellettuali in merito all’interpretazione dell’Islam non è comunque un fatto inedito, dato che già a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 era accaduto qualcosa di simile. In quel periodo, gli ulema di al-Azhar avevano ritrovato una certa libertà di espressione dopo il lungo silenzio a cui li aveva costretti il regime di Nasser. I dignitari religiosi, sfruttando il più ampio margine di manovra concesso loro dal regime di Mubarak in funzione anti-islamista, cercarono allora di esercitare «un potere di censura che non è loro riconosciuto dalla legge […], ma che essi praticano nei fatti, dando prova di un interventismo crescente nell’ambito della produzione intellettuale e artistica»[15]. Chiamati a svolgere il ruolo di arbitri tra gli islamisti e i laici, gli ulema della moschea cairota finirono per rivolgersi contro i secondi[16]. La vicenda più drammatica di quegli anni è legata al nome di Farag Foda. Nel 1986, questo poliedrico intellettuale e attivista (fu agronomo, giornalista, militante per i diritti umani) finì nel mirino di al-Azhar per le prese di posizione a favore dello Stato laico. L’opposizione crescente degli uomini di religione culminò nella refutazione del suo pensiero da parte di un gruppo informale di ulema, la nadwat al-‘ulamâ’ (seminario degli ulema) e infine nel suo assassinio, il 7 giugno del 1992, per mano di militanti islamisti. La nadwa, a cui gli intellettuali laici imputarono la responsabilità morale dell’omicidio, condannò l’attentato, ma allo stesso tempo dichiarò che Foda meritava la morte, anche se non quel tipo di morte, essendo un miscredente (kâfir) e un apostata (murtadd)[17]. Anche la dolorosa vicenda di Nasr Hâmid Abû Zayd, costretto all’esilio dopo essere stato condannato per apostasia, era iniziata con la critica di al-Azhar alle sue pubblicazioni sul Corano.
Non un Lutero musulmano, ma…
C’è dunque il rischio che questa storia si ripeta? Non necessariamente, perché al-Sisi non è Mubarak, l’Azhar di oggi non è l’Azhar di inizio anni ’90, e sia la situazione egiziana che quella internazionale sono mutate. È vero che anche Mubarak aveva schierato le autorità religiose ufficiali contro gli islamisti, ma allo stesso tempo aveva messo in atto una spregiudicata politica del divide et impera, con lo scopo di agire da mediatore tra islamisti, ulema e laici. Così, mentre mobilitava gli ulema contro gli islamisti, allo stesso tempo facilitava l’ingresso di molti di questi ultimi nei ranghi di al-Azhar. Al-Sisi sembra molto più determinato a tenere sotto stretto controllo le forze islamiste, anche se sulla sua azione politica non potrà non pesare il rapporto con i salafiti che hanno appoggiato la destituzione di Morsi. Nessuno può inoltre escludere che al Presidente non convenga mantenere in vita un nucleo sufficientemente vitale di contestazione islamista da offrirgli una legittimazione permanente come garante della sicurezza dello Stato.
Finora la “dottrina al-Sisi” ha operato su due livelli: da un lato una correzione minima di alcuni contenuti particolarmente spinosi della tradizione islamica; dall’altro un maggior coordinamento tra le istituzioni che hanno il potere di influire sui contenuti del discorso religioso (al-Azhar, il Gran Mufti, i Ministeri degli Awqâf, dell’Educazione, dell’Informazione e della Cultura), che sotto Mubarak agivano invece in ordine sparso e con orientamenti e obiettivi molto diversi, in uno spettro che andava dal liberalismo all’islamismo[18].
Dal canto suo al-Azhar mantiene una posizione conservatrice refrattaria a qualsiasi riforma veramente incisiva. Tuttavia il suo impegno contro il takfîr dovrebbe impedirle di svolgere il ruolo di censore con la stessa rigidità e intransigenza del passato. Il recente caso di Islam Beheri rappresenta da questo punto di vista un importante banco di prova. Nell’aprile del 2014, Beheri è finito al centro di un’accesissima controversia per aver criticato al-Azhar e la tradizione islamica nel corso del suo programma televisivo “Con Islam”. Gli argomenti di Beheri non sono molto diversi da quelli espressi sulla stampa da un intellettuale come ‘Adel No‘mân, ma il suo tono polemico è molto più esasperato. Al-Azhar ha risposto prima accettando che due professori della sua università dibattessero pubblicamente con Beheri, e poi chiedendo all’autorità competente di sospendere l’emissione del programma. Ma se la moschea è tornata a far ricorso al vecchio sistema della censura, interpretando in modo probabilmente molto estensivo il ruolo di «riferimento fondamentale per le scienze religiose e le questioni islamiche» che la Costituzione egiziana del 2014 le assegna (art. 7), essa è anche stata attenta a non superare la “linea rossa” dell’anatema, sconfessando uno shaykh sufi che aveva di fatto incitato alla condanna a morte di Beheri. Al-Sisi ha invece dichiarato che la riforma è responsabilità delle istituzioni e non delle singole persone, mettendo così implicitamente a nudo i limiti della “rivoluzione” da lui stesso invocata[19].
Resta peraltro da valutare quale possa essere l’effettiva influenza di al-Azhar. È vero che nei suoi istituti e nella sua università si formano imam che poi predicano nelle moschee di tutto il mondo. Ma allo stesso tempo essa subisce la concorrenza di altre voci, spesso meno “moderate”, che sembrano avere un seguito ben superiore al suo[20].
Insomma, con buona pace di alcuni osservatori entusiasti delle parole di al-Sisi, l’Islam non ha ancora trovato il suo Lutero. Ma siamo sicuri che proprio un Lutero serva all’Islam? L’idea era stata lanciata già più di un secolo fa da al-Afghânî e da allora tanti candidati si sono fatti avanti, ma nessuno di essi è sembrato rispondere ai requisiti richiesti. Ma allora, se vogliamo mantenere il parallelo con il Cristianesimo, perché non auspicare la comparsa di un Newman (la tradizione come realtà vivente e dunque suscettibile di sviluppo pur nella fedeltà all’origine) o di un Maritain (la possibilità di distinguere senza nostalgie la religione dalle sue forme storiche)? In questo senso, sono tanti gli spunti che si offrono al pensiero religioso islamico, e a un dialogo interreligioso che ambisca ad andare oltre le dichiarazioni di principio.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.
Note
[1] Cfr. Cole Bunzel, From Paper State to Caliphate. The Ideology of the Islamic State, The Brookings Project on U.S. Relations with the Islamic World, Analysis Paper n. 19 (marzo 2015), http://www.brookings.edu/~/media/research/files/papers/2015/03/ideology-of-islamic-state-bunzel/the-ideology-of-the-islamic-state.pdf.
[2] Si veda per esempio Peter Smith, Islam’s Martin Luther?, «Quadrant Online», 7 gennaio 2015, http://quadrant.org.au/opinion/qed/2015/01/islams-martin-luther/.
[3] Mokhtar Awad, Nathan J. Brown, Mutual Escalation in Egypt, «The Washington Post», 9 febbraio 2015, http://www.washingtonpost.com/blogs/monkey-cage/wp/2015/02/09/mutual-escalation-in-egypt/.
[4] Cfr. George Fahmi, The Egyptian State and the Religious Sphere, Carnegie Middle East Center, 18 settembre 2014, disponibile al collegamento http://carnegie-mec.org/publications/?fa=56619.
[5] Lally Weymouth, Egyptian President Abdel Fatah al-Sissi, who talks to Netanyahu ‘a lot,’ says his country is in danger of collapse, «The Washington Post», 12 marzo 2014, http://www.washingtonpost.com/opinions/egypts-president-says-he-talks-to-netanyahu-a-lot/2015/03/12/770ef928-c827-11e4-aa1a-86135599fb0f_story.html
[6] Risâlat al-‘ulamâ’ li-l-ra’îs, 5 marzo 2015, http://www.awkafonline.com/portal/?p=15207.
[7] Chiara Pellegrino, “Germoglio satanico”: lo Stato islamico per gli ‘ulamâ’, 12 novembre 2014, http://www.oasiscenter.eu/it/articoli/rivoluzioni-arabe/2014/11/12/germoglio-satanico-lo-stato-islamico-per-gli-ulam%C3%A2.
[8] Nass Kalimat al-Imâm al-Akbar fî mu’tamar mukâfahat al-Irhâb bi Makka al-mukarrama, 22 febbraio 2015, http://www.azhar.eg/ar-eg/التفاصيل/rtMID/1593/ArticleID/2457/نص-كلمة-الإمام-الأكبر-في-مؤتمر-مكافحة-الإرهاب-بمكة-المكرمة.
[9] Per un giudizio sulla portata e sui limiti di questa proposta si veda Martino Diez, Terroristi o miscredenti: la vera trappola dell’Islam, «Avvenire», 28 febbraio 2015.
[10] Cfr. ‘Adil Nu‘mân, Nabiyyunâ fî-l-Qur’ân… wa nabiyyunâ fî-l-Bukhârî, «Al-Masrî al-Yawm», 23 marzo 2015, http://m.almasryalyoum.com/news/details/687116
[11] Id., Mashaykhunâ wa tajdîd al-khitâb al-dînî, «Al-Masrî al-Yawm», 20 gennaio 2015, http://www.almasryalyoum.com/news/details/635374.
[12] Si veda l’articolo di Sherif Younis in questo stesso numero della rivista.
[13] Ghadan al-Jum‘a al-Imâm al-akbar yakshuf sirr al-hamla al-muthâra didda manâhij al-Azhar al-Sharîf, 29 gennaio 2015, http://www.azhar.eg/ar-eg/التفاصيل/ArtMID/1593/ArticleID/2207/غدًا-الجمعةالإمام-الأكبر-يكشف-سر-الحملة-المثارة-ضد-مناهج-الأزهر-الشريف
[14] «Sawt al-Azhar» 809 (27 marzo 2015), inserto speciale, pp. 2-5, http://sout.azhar.eg/sawt-al-azhar/Archive.
[15] Malika Zeghal, Gardiens de l’Islam. Les oulémas d’ Al Azhar dans l’Egypte contemporaine, Presses de Sciences Po, Paris 1996, p. 306.
[16] Ibid.
[17] Ibi, p. 330.
[18] Cfr. Sharîf Yûnis, Mawqi‘ al-dawla wa-l-Azhar min al-islâh al-islâmî, «Al-Ahram», 16 marzo 2015, http://www.ahram.org.eg/NewsQ/368665.aspx.
[19] Cfr. Elisa Ferrero, Al-Azhar sotto tiro, http://www.terrasanta.net/tsx/articolo.jsp?wi_number=7449&wi_codseq=BLOG03&language=it
[20] Colpisce la differenza tra il numero di fan della pagina facebook di al-Azhar (a metà aprile di quest’anno circa 24.000) e quelli della pagina dell’Unione Mondiale degli Ulema musulmani (più di 1.200.000), presieduta da al-Qaradawi, ideologo di riferimento dei Fratelli Musulmani e nemico giurato del Grande Imam al-Tayyeb da quando quest’ultimo ha appoggiato la destituzione di Morsi. Il dato non è scientificamente probante, ma è significativo.