La studiosa musulmana amina wadud è convinta che per rispettare il valore universale del testo sacro dell’Islam occorra interpretarlo da una prospettiva femminile
Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:17:04
*Le iniziali del nome sono state lasciate in minuscolo per volontà dell’autrice
Nel 2005 ha fatto scalpore per aver guidato una preghiera del venerdì in una moschea di New York. Ma il suo impegno per la parità di genere non si limita ai gesti controcorrente. La studiosa musulmana americana amina wadud è infatti convinta che per rispettare il valore universale del testo sacro dell’Islam occorra interpretarlo da una prospettiva femminile, senza la quale esso rimane prigioniero di una cultura patriarcale.
Il suo libro Qur’an and Woman. Rereading the Sacred Text from a Woman’s Perspective è un testo fondante per gli studi di genere nell’Islam. In che cosa consiste il suo metodo?
Il mio metodo si sovrappone ai metodi classici di analisi del Corano. Ad esempio utilizzo le discipline tradizionali, le cosiddette ‘ulūm al-Qur’ān, le scienze coraniche, ma estendo il loro raggio di applicazione. L’aspetto nuovo nel mio approccio è la lettura di genere (reading for gender), ovvero l’uso del genere come costruzione e categoria di analisi per determinare la misura in cui i testi partecipano alla definizione delle norme patriarcali del loro tempo o invece traducono queste norme per scopi più universali, spirituali e fondati sulla giustizia.
Quale immagine della donna emerge dai testi sacri?
A emergere dal Corano è l’esistenza di una teleologia, cioè di una finalità della creazione umana. Secondo questa teleologia l’essere umano è khalīfa, vale a dire un agente morale che custodisce l’ordine segreto del divino, del Creatore, di Allah sulla terra. Quindi, il compito delle donne, e dunque la loro identità o personalità principale, è essere agenti del divino sulla terra.
Che cosa aggiunge alla comprensione dell’Islam la prospettiva femminile?
Siccome essere femminista può significare molte cose, devo fare una precisazione. Il mio non è il femminismo inteso come nuova costruzione del XXI secolo, ma è un femminismo che adotta l’Islam come strumento per realizzare la giustizia sociale, l’uguaglianza e la dignità umana in tutti i contesti, pubblico, privato, economico, spirituale, artistico ed estetico. La base per la costruzione di questo tipo di femminismo è la lettura di genere che ho menzionato prima, perché ritengo che l’Islam e le sue fonti primarie siano destinati a tutte le persone, di ogni tempo e ogni luogo, a prescindere dal genere, dall’identità di genere e dalla posizione di genere. La tendenza alle interpretazioni patriarcali e la loro egemonia nel corso del tempo sono invece il riflesso di una prospettiva limitata su qualcosa che ha implicazioni universali.
I miei insegnanti e supervisori musulmani, tutti maschi, non hanno incoraggiato molto i miei metodi e i miei obiettivi Se combiniamo questa metodologia islamica con il femminismo inteso semplicemente come uno dei tanti progetti, ideologie, prospettive e ambiti di studio, e cioè una sorta di epistemologia che rivolgendosi alle donne coinvolge l’umanità in generale, capiamo perché il termine “femminismo” sia ancora molto problematico per, direi, la stragrande maggioranza dei musulmani. Ed è la ragione per cui io non uso mai questo termine da solo ma, per definire il mio attivismo, preferisco l’espressione “femminismo islamico”. E lo distinguo persino dal “femminismo musulmano”, perché sono sì una musulmana e una femminista islamica, ma non mi trovo d’accordo con tutte le femministe musulmane, alcune delle quali sono laiche o liberali e non si riferiscono specificamente all’Islam, ma possono ricorrere ad altri metodi per affermare l’idea di uguaglianza e di dignità. Quindi è davvero importante distinguere il femminismo islamico dal femminismo in generale.
C’è qualche studioso/a musulmano/a in particolare che l’ha influenzata nel suo percorso?
Nei primi anni di studio e durante tutto il periodo del dottorato, che poi avrebbe portato alla pubblicazione del mio primo libro, Qur’an and Woman, tutti i miei insegnanti e i miei supervisori erano maschi. Quelli musulmani, tra i quali c’era anche un esperto di studi coranici, non hanno incoraggiato molto i miei metodi e i miei obiettivi. Certo, da allora sono trascorsi 35 anni e le cose sono cambiate, ma all’inizio avevo pochissimi maestri. Ho tratto grande beneficio dell’insegnamento di Fazlur Rahman, il quale però non ha mai usato il genere come categoria di pensiero perché questo approccio doveva ancora essere sviluppato. Per mia fortuna, nel corso della vita ho incontrato persone che ancora oggi si dedicano a queste questioni.
L’Islam è vivo, e per questo ogni giorno è oggetto di riforma Tra queste c’è Zainah Anwar, la direttrice del movimento globale Musawah, Ziba-Mir Hosseini, studiosa di origini iraniane che ha fatto il dottorato in Gran Bretagna e attualmente vive a New York, Saadia Yacoob, una brillante studiosa di diritto islamico e Marwa Sharafeldin, un’attivista egiziana che svolge un ruolo di coordinamento all’interno di Musawah. In realtà, tutti quelli che lavorano con Musawah hanno in qualche modo influenzato la mia vita. Questo movimento infatti mette intenzionalmente in relazione studiosi e attivisti, associando la produzione di un nuovo sapere nell’ambito del femminismo islamico con l’impegno per il cambiamento politico e il riconoscimento costituzionale dell’uguaglianza. Sono stata fortemente influenzata anche da studiosi provenienti dal contesto americano tra cui Kecia Ali, il cui brillante lavoro sull’etica comprende in particolare l’etica di genere e la sessualità, studiosi musulmani queer come Scott Siraj al-Haqq Kugle, attivisti in quel campo come Muhsin Hendricks dal Sudafrica, e infine studiosi più giovani tra cui Sa‘diyya Shaikh, anche lei di origini sudafricane. Sono tutte persone deliziose e che contribuiscono positivamente a questo lavoro. Ma sono arrivate dopo, diciamo negli ultimi tre decenni, perché il mio impegno inizialmente è stato un atto piuttosto solitario.
Quali reazioni hanno provocato i suoi studi in ambito accademico e tra i religiosi musulmani?
Nei circoli accademici, specialmente nel campo degli studi islamici e coranici, ho semplicemente sollevato la questione dell’esclusione del genere. E l’ho fatto in modo tale che è diventato importante prenderla in considerazione. La lettura di genere non è un prodotto esclusivamente delle donne o per le donne, anche se siamo noi le beneficiarie di questi studi, l’assenza dei quali consente agli uomini di proteggersi, come se il campo islamico e coranico fossero neutrali. Ma non lo sono. In alcuni casi, sono stati una prerogativa maschile. Quindi, il mio lavoro ha favorito il dibattito tra gli studiosi sulla necessità di prendere in considerazione il genere come strumento di analisi.
Negli ambienti confessionali c’è poi un’ampia gamma di musulmani che non sono contenti di ciò che il mio lavoro implica in termini di uguaglianza incondizionata, reciprocità e giustizia per le donne. Vorrebbero metterlo in discussione, ma molti di loro sono disinformati. Ho incontrato meno problemi nel contesto accademico di quanti ne abbia incontrati nei contesti confessionali, che sono patriarcali e un po’ bloccati nelle loro convinzioni. È da qui che provengono le reazioni negative. Mi sono chiesta se queste reazioni avessero la stessa credibilità che io mi sono conquistata come studiosa, o se invece generassero semplicemente una sorta di influenza carismatica nella comunità dalla quale provenivano. Sono giunta alla conclusione che queste reazioni non sono credibili, anche perché in molte comunità confessionali le persone non conoscono veramente il mio lavoro. Se ci si focalizza solo su alcune conclusioni, come le donne imam e la creazione di moschee inclusive, si rischia facilmente di affermare che non è un buon lavoro. E l’unico aspetto che si percepisce è che questo metterà in discussione i privilegi patriarcali.
Non possiamo mettere in pratica gli insegnamenti del Corano se non interagiamo intimamente, criticamente, dettagliatamente e amorevolmente con esso
Nei suoi studi lei parla di una “teologia riformata”. Che cosa intende con questo termine?
Nel corso dei 1400 anni della loro esistenza, l’Islam e il pensiero islamico hanno subito continue riforme, di minore come di più vasta portata. Ciò significa che c’è stata un’abitudine costante a pensare e ripensare la comprensione della fede e dei suoi obiettivi. È un processo assolutamente normale. Oggi stiamo vivendo qualcosa di analogo, che è speciale solo perché ci troviamo in un’epoca in cui l’accesso alle informazioni è istantaneo e questo ha un impatto globale. Ogni minimo potenziale cambiamento produrrà un effetto a catena, di portata maggiore e molto più rapidamente rispetto al passato.
L’altro aspetto che incide sul dovere di riforma e sulla natura eccezionale di questo processo in epoca contemporanea è quella che io definisco la massa critica dell’iniziativa autonoma delle donne musulmane. Le donne infatti si stanno muovendo in tutti i contesti, e rappresentano una forza di cui tenere conto, a differenza di quanto è accaduto nei 1441 anni precedenti di storia. Quindi, quando parlo di riforma intendo la necessità di affrontare criticamente le fonti islamiche primarie e il loro impatto etico e morale sulla realtà dei musulmani nel mondo. In un certo senso, ciò equivale ad altri movimenti di riforma del passato ma, come ho detto, con alcune eccezioni rispetto alla portata di tali riforme.
Secondo lei quali aspetti della tradizione islamica richiedono una riforma urgente e profonda?
Innanzitutto, dobbiamo chiarire la differenza tra quelle che considero le fonti islamiche primarie, cioè il Corano e la Sunna (le pratiche consolidate del Profeta, la pace sia su di lui), e tutto ciò che è venuto dopo, che è una costruzione nata dall’interazione degli esseri umani con le fonti primarie e/o dalla loro relazione con Allah, il Creatore. Le fonti primarie non sono soggette a riforma. Il Corano esiste così com’è, e le tradizioni del Profeta, a prescindere dall’accuratezza con cui sono riportate, non sono riformabili. Come il Corano, anche la Sunna è una sorta di luce divina. Queste cose non possono essere modificate, ma devono essere messe in pratica nella vita reale dalle persone reali. Per me l’Islam è vivo, e per questo ogni giorno è oggetto di riforma. Per quanto amore abbiamo per il Corano, non ci è di alcuna utilità se non possiamo metterlo in pratica. E non possiamo metterlo in pratica se non interagiamo intimamente, criticamente, dettagliatamente e amorevolmente con esso. Pertanto, anche se considero il Corano immutabile, nulla di ciò che facciamo in base a esso è immutabile allo stesso modo. Tutto è soggetto all’intervento umano e dunque a riforma.
Guido le preghiere solo se si verificano due circostanze: un invito e la mia disponibilità ad accettarlo senza sentirmi a disagio
La preghiera del venerdì che ha guidato a New York nel 2005 è stata molto controversa. Molti studiosi musulmani sostengono che l’imamato sia tradizionalmente una prerogativa maschile. Su quali basi propone un’interpretazione diversa?
Sono degli esseri umani, maschi nella fattispecie, ad aver stabilito che l’imamato fosse riservato agli uomini, con ciò violando il principio coranico di uguaglianza, giustizia e dignità per ogni essere umano, maschio o femmina. Ma gli uomini non hanno un diritto esclusivo di stabilire che cosa è o che cosa non è l’Islam, perché anche le donne hanno voce in capitolo. Il Corano non contiene alcuna indicazione a favore dell’imamato come prerogativa esclusivamente maschile, né vieta alle donne di accedervi. E neppure Muhammad si è espresso in questo senso, anzi ai suoi tempi ha assegnato l’imamato a una donna. Secondo me questo indica che l’interpretazione umana delle fonti divine è un processo continuo e può essere cambiata. Anzi, in alcuni casi deve essere cambiata. Perciò, qualunque siano gli argomenti addotti contro l’imamato delle donne, si tratta di costruzioni elaborate da uomini, che, come tali, possono essere decostruite da altri uomini, o da uomini e donne insieme.
Guida ancora le preghiere?
Guido le preghiere solo se si verificano due circostanze: un invito e la mia disponibilità ad accettarlo senza sentirmi a disagio. Non vado mai in un posto che impone alle persone l’imamato femminile, perché non tutti potrebbero essere pronti e l’atto di adorazione dei musulmani, che è così intimo e così centrale per il loro benessere spirituale, perderebbe tutto il suo senso se la guida femminile diventasse un’imposizione. Per questo ho rifiutato molti inviti. Una delle ragioni è che personalmente non sono una fan dei gruppi: preferisco di gran lunga pregare da sola. Stare di fronte a una congregazione è già di per sé un’enorme responsabilità, e a questo si aggiunge il fatto di non essere nelle mie corde.
Non vado mai in un posto che impone alle persone l’imamato femminile, perché non tutti potrebbero essere pronti Per me è quindi una sfida enorme. Fortunatamente, una delle mie prime dichiarazioni in merito all’idea delle donne imam ha avuto un’ampia diffusione. Nella fattispecie ho sempre affermato che nelle nostre comunità e per le nostre comunità è utile e necessario familiarizzarci con le donne come guide della preghiera e del rituale. Col tempo il riconoscimento è cresciuto e io non mi sento più costretta a guidare le preghiere. Ormai ci sono donne che lo fanno letteralmente in tutto il mondo.
Oltre a essere una studiosa, lei è anche un’attivista: può approfondire la relazione tra i suoi interessi accademici e la loro applicazione concreta alla vita dei musulmani?
Il mio interesse per l’Islam è iniziato quando ero adolescente. Ero particolarmente interessata alla religione: sono nata e cresciuta come cristiana in una famiglia amorevole, eppure anche lì notavo che non tutti praticavano la fede allo stesso modo. Ho esplorato altre confessioni cristiane e alla fine mi sono allontanata dalla mia famiglia per vivere con altre persone che praticavano in modo diverso, erano cattolici, unitariani universalisti ed ebrei. Quando ho iniziato l’università, a diciassette anni, avevo da poco iniziato a leggere di tradizioni religiose al di fuori del contesto americano. Ho seguito il buddismo per un anno e ancora oggi pratico la meditazione. Quando ho iniziato a leggere sull’Islam ero mossa dallo stesso desiderio, quello di comprendere. Leggendo il Corano in inglese ho provato una commozione così grande che ho iniziato immediatamente a lavorare per rimuovere qualsiasi barriera tra me e la comprensione del testo in lingua originale. Ho investito una decina d’anni in questo processo prima di entrare in una scuola di studi avanzati specializzata in studi coranici. Dopo il diploma ero disoccupata.
Faccio conoscere alle persone la lettura critica dei testi perché capiscano che la posizione in cui uno si trova quando legge il testo fa la differenza Nella mia vita si è manifestata allora una luce divina: tutte le candidature che ho mandato nel contesto statunitense sono state rifiutate e sono finita in Malesia, all’Università islamica internazionale. Nell’arco di un mese ho iniziato a frequentare un gruppo di donne che stavano fondando l’organizzazione “Sisters in Islam”. È stata la prima e l’ultima volta che ho fatto parte di un gruppo. Quest’esperienza mi ha dato veramente tanto. Ho infatti potuto connettere quelle meravigliose idee teologiche ed etiche che avevo nella testa al modo in cui le donne lottano per l’uguaglianza e per la giustizia, come cittadine musulmane che credono nell’Islam ma non nel fatto che questo vada interpretato e applicato secondo una prospettiva patriarcale. L’idea di base delle Sisters in Islam è che l’Islam appartiene a tutti noi, perciò tutti dovremmo avere voce in capitolo su come esso debba trovare applicazione nella nostra vita. È la cosa più bella che mi sia successa, oltre a innamorarmi del Corano già nella sua versione inglese. Ha segnato l’inizio della cooperazione tra la mia utopia teorica e la realtà sul terreno, specialmente nei contesti dove esiste qualche tipo di statuto personale musulmano o di diritto di famiglia musulmano, ciò che purtroppo non è il caso degli Stati Uniti. Il mio attivismo è globale e non incentrato sugli Stati Uniti, anche se, come donna musulmana, sono molto legata alle mie origini afroamericane. In America non abbiamo la legge islamica, esiste una sorta di comprensione comunitaria musulmana condivisa, ma che resta priva di effetti giuridici. Tuttavia, riflettere sulla relazione tra la teologia e il diritto, che è la pietra angolare dell’Islam, mi costringe a pensare in modo diverso i testi sacri, l’etica o la teologia. Ne ho tratto grande beneficio, ma allo stesso tempo credo sia abbastanza facile affermare che, per quanto riguarda lo statuto personale, ho beneficiato anche delle traiettorie dei movimenti di riforma musulmani.
Può dirci qualche cosa di più sulle Sisters in Islam e sul movimento Musawah a cui esse hanno dato vita?
Sisters in Islam è un’organizzazione mentre Musawah è un movimento, entrambi con sede in Malesia. In Musawah io non ho alcun ruolo istituzionale. Non sono tra i membri fondatori né tra gli organizzatori. Vengo coinvolta soltanto in qualità di studiosa in progetti specifici sulla costruzione della conoscenza o in seminari di formazione dedicati all’uguaglianza e alla giustizia nell’Islam.
Entrambe le realtà – una a livello nazionale, l’altra a livello internazionale – condividono l’idea che l’Islam sia una religione fondata su un Dio giusto e che la giustizia non sia un’idea astratta, ma vada applicata. La sua applicazione ha cambiato di significato nel tempo: oggi non può esserci giustizia senza uguaglianza. Gli Stati si vantano di aver sancito l’uguaglianza a livello costituzionale e di aver firmato trattati e documenti internazionali, tra cui la Convenzione sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione della Donna (CEDAW). Li hanno firmati, ma poi hanno espresso delle riserve in nome dell’Islam ed è sempre in nome dell’Islam che non la applicano. Noi vigiliamo che ci sia una coerenza: non si possono riconoscere i diritti umani e la dignità umana e poi impedire alle donne di guidare e chiedere liberamente il divorzio. Le disuguaglianze ci sono in molti Paesi e seguono più o meno gli stessi schemi. Parliamo di uguaglianza, di giustizia e di dignità umana, ma sono discorsi astratti e quando si tratta del controllo patriarcale sulle donne, sui bambini e sulla famiglia le cose cambiano. Noi perciò lavoriamo per creare una relazione coerente tra gli ideali islamici e la loro applicazione alle donne e alla vita delle donne.
Nel Novecento il suo lavoro è stato preceduto da quello di altre donne, che hanno svolto un ruolo rilevante nel campo della produzione intellettuale islamica. Penso per esempio a Bint al-Shāti’, la prima donna araba a scrivere un commentario coranico in età contemporanea. Si è mai confrontata con la sua opera?
Sì, conosco Bint al-Shāti’. Quando studiavo alla scuola di specializzazione avevo cercato di ottenere dei finanziamenti per tornare in Egitto (ci ero già stata al secondo anno di università per il programma di lingue). Avrei voluto lavorare con lei e intervistarla. Ma non ci sono riuscita. Più tardi ho capito che Bint al-Shāti’ era sì una donna che faceva esegesi, e questo era fantastico, ma negava il genere come categoria di pensiero. Mi ci è voluto un po’ per comprendere che si tratta di una differenza sostanziale. In nessuno dei miei lavori parlo del genere come categoria di pensiero. È qualcosa che, dal punto di vista metodologico, si è sviluppato in maniera molto più coerente negli ultimi dieci o quindici anni, quindi dopo le mie due pubblicazioni principali. Capire a fondo quel metodo, che prima utilizzavo solo in maniera intuitiva, ha significato poterlo insegnare agli altri. Ed è quello che faccio da quando sono in pensione. Faccio conoscere alle persone la lettura critica dei testi perché capiscano che la posizione in cui uno si trova quando legge il testo fa la differenza. Ma quando si arriva ad affermare che la propria posizione è la stessa di Dio, allora non va bene. La propria è solo una possibilità tra le altre. L’unico modo per valutare i danni e i benefici di un’interpretazione è guardare all’impatto che essa ha sulla vita delle persone reali.
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