Vita e opera della prima donna musulmana ad aver affermato la propria autorità nello studio del Corano, un’opera d’arte da leggersi applicando i metodi della critica letteraria

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Ultimo aggiornamento: 18/06/2024 15:24:27

‘Āʼisha ‘Abd al-Rahmān, nota con lo pseudonimo di Bint al-Shātiʼ, “la figlia della costa”, è stata la prima musulmana ad affermarsi nel campo degli studi coranici. Sarebbe tuttavia errato farne una pioniera del femminismo. La questione delle relazioni di genere è infatti marginale nella sua produzione teologica, mentre la sua visione del ruolo femminile è rimasta legata a posizioni tradizionali. Tuttavia, il suo contributo fondamentale alla storia delle donne, in Egitto come più in generale nel mondo musulmano, è innegabile

 

La prima donna musulmana ad aver affermato la propria autorità nel campo degli studi coranici, una sfera del sapere rimasta per lunghi secoli di dominio esclusivamente maschile, è stata l’egiziana ‘Āʼisha ‘Abd al-Rahmān (1913-1998), meglio nota con lo pseudonimo di Bint al-Shātiʼ, “la figlia della costa”.

 

Nata in una famiglia di piccoli proprietari terrieri nella zona rurale di Damietta, una città costiera situata sul delta del Nilo, ‘Abd al-Rahmān ricevette privatamente la sua prima istruzione, dando presto prova di un’intelligenza vivace che mal si adattava ai limiti imposti dall’istruzione domestica. Grazie all’intercessione della madre e di un bisnonno formatosi nella prestigiosa università di al-Azhar, la giovane ‘Āʼisha riuscì a vincere la resistenza del padre, che per lungo tempo aveva rifiutato di iscriverla alla scuola pubblica, e a completare con successo tutti i gradi di istruzione. La scelta di pubblicare i suoi primi articoli sotto pseudonimo, comune a molte donne del suo tempo, era intesa a proteggere la reputazione della propria famiglia da possibili accuse di immoralità e a evitare così di incorrere nell’ira paterna; al tempo stesso, il nome scelto rappresentava un evidente omaggio alle radici rurali e costiere dell’autrice.

 

Dopo aver conseguito il dottorato di ricerca in letteratura araba nel 1950, ‘Abd al-Rahmān scelse di perseguire la carriera accademica, arrivando a occupare la cattedra di lingua e letteratura araba presso l’università cairota di ‘Ayn Shams (1962-1970), e in seguito quella di esegesi coranica (tafsīr) presso l’università Qarawiyyīn di Fes, in Marocco. Nel corso della sua lunga carriera, ‘Abd al-Rahmān scrisse decine di libri e centinaia di articoli, la maggior parte dei quali era dedicata allo studio del Corano. Le sue pubblicazioni includono anche numerose poesie, racconti, romanzi, un’autobiografia, due trattati sulla questione agraria e svariate opere di critica letteraria. Il più celebre fra i suoi testi teologici è senza dubbio il Commentario retorico-esplicativo del nobile Corano (al-Tafsīr al-bayānī li-l-Qur’ān al-karīm, 1962-1968), un’opera esegetica in due volumi incentrata sulle ultime quattordici sure del Corano, la prima mai pubblicata da una donna.

 

Il Corano come opera d’arte

 

La metodologia esegetica di ‘Abd al-Rahmān era direttamente ispirata alle indicazioni teoriche elaborate dal suo mentore Amīn al-Khūlī (1895-1966), poi divenuto suo marito, uno degli ispiratori di quello che è stato chiamato il “commentario letterario” del Corano. Secondo la prospettiva esegetica proposta da Amīn al-Khūlī, il Corano andrebbe considerato alla stregua di un’opera d’arte, da leggersi applicando i metodi della critica letteraria; una metodologia considerata rivoluzionaria e perfino pericolosa dall’establishment religioso tradizionale, che accusava i suoi fautori di mettere a rischio il dogma dell’inimitabilità del Corano e la sacralità stessa della parola divina.

 

Queste accuse sono state respinte con fermezza da ‘Abd al-Rahmān, la quale ha affermato a più riprese nei suoi scritti che l’inimitabile perfezione del discorso coranico è riscontrabile in ogni singola costruzione grammaticale, parola o preposizione compresa nel testo sacro. Lungi dal mettere in dubbio la perfezione del testo coranico, l’analisi linguistico-letteraria è utile invece a metterla in piena luce e a rivelarla in tutto il suo splendore. Nulla nel Corano può infatti essere definito ridondante, al punto che lo stesso concetto di sinonimo è considerato da Bint al-Shāti’ improprio quando applicato al testo sacro. Il metodo da lei proposto e utilizzato per comprendere il reale significato di un termine coranico è di tipo induttivo, basato su una ricerca dei riferimenti incrociati svolta attraverso una lettura trasversale del testo. Il primo passo di ogni lavoro esegetico è quindi quello di raccogliere tutti i versetti che contengono il termine di interesse, per poi confrontarli con i passaggi coranici contenenti parole derivate dalla stessa radice triconsonantica. Tramite questo confronto sarebbe possibile, almeno in teoria, dedurre il vero significato di ogni vocabolo contenuto nel Corano, e quindi comprendere il “vero” messaggio trasmesso agli uomini da Dio. Tuttavia per ‘Abd al-Rahmān nessun interprete può giungere da solo a cogliere il senso profondo dell’intero Corano: una giusta esegesi non può che essere il risultato di uno sforzo collettivo.

La metodologia esegetica utilizzata da Bint al-Shātiʼ era radicata nel principio classico secondo cui il miglior interprete del Corano è il Corano stesso

 

La metodologia esegetica utilizzata da Bint al-Shātiʼ, rivoluzionaria per certi aspetti, era tuttavia radicata nel principio classico secondo cui il miglior interprete del Corano è il Corano stesso. Secondo questa prospettiva, un esegeta dovrebbe evitare il più possibile di ricorrere a strumenti o a fonti differenti dal Corano nel corso della sua analisi linguistica e letteraria, perché questi inquinerebbero la purezza del testo sacro e la chiarezza del messaggio divino. ‘Abd al-Rahman ha condannato soprattutto l’uso delle cosiddette isrā’īliyyāt (le fonti della tradizione giudaico-cristiana), ma la sua critica si è estesa anche ad altri campi del sapere, come gli studi grammaticali basati sulla poesia preislamica. Bint al-Shātiʼ ha invitato a utilizzare molta cautela anche nel ricorso alla scienza classica delle asbāb al-nuzūl (“le cause della rivelazione”), sostenendo che le circostanze in cui un determinato versetto è stato rilevato non avrebbero alcuna influenza causale sul contenuto del testo. ‘Abd al-Rahmān ha inoltre disapprovato fortemente il cosiddetto tafsīr scientifico, una tipologia di commentario coranico diffusasi a partire dal XIX secolo con l’obiettivo di rintracciare nel Corano anticipazioni relative a questioni scientifiche sconosciute al tempo della Rivelazione.

 

In virtù del suo rapporto complesso con la tradizione esegetica premoderna e le nuove metodologie ermeneutiche proposte da Amīn al-Khūlī, l’opus di Bint al-Shātiʼ ha ricevuto le definizioni più diverse, da “modernista” ad “antimodernista”, passando per “neotradizionalista” o “moderatamente conservatore”. Non c’è dubbio che le teorie e i metodi da lei utilizzati siano ben radicati nella scienza esegetica tradizionale; allo stesso tempo, il suo lavoro presenta importanti elementi di novità. Come premesso, la concezione del Corano come “testo linguistico dotato di eccezionale eloquenza”, che è lecito sottoporre a un commento letterario era in sé innovativa, così come il rifiuto dell’approccio atomistico al testo, tipico dei commentari tradizionali, in favore di un’interpretazione tematica frutto di una lettura trasversale. Allo stesso modo, è ben poco canonica la critica, talvolta feroce, che ‘Abd al-Rahmān ha mosso ai commentari tradizionali, denunciati come “privi di metodo” e influenzati dalle opinioni personali degli esegeti piuttosto che dal rigore della loro ricerca. D’altro canto il netto rifiuto di ogni contestualizzazione storica del testo sacro, così come l’idea che il Corano avrebbe un solo “vero” significato, implica una rigidità epistemologica condivisa non solo dai commentari tradizionali ma anche dal moderno radicalismo.

 

Una visione conservatrice delle relazioni di genere

 

Questo rapporto complesso fra modernità e tradizione si può riscontrare anche nell’attitudine mostrata da Bint al-Shātiʼ verso la questione dei diritti delle donne e delle relazioni di genere in una società islamica. Nella relativamente ampia letteratura divulgativa e accademica che ha preso in esame il suo lavoro, ‘Āʼisha ‘Abd al-Rahmān è stata spesso indicata come una precorritrice del moderno “femminismo islamico”, una definizione-ombrello (tuttora controversa) in cui vengono fatti rientrare svariati progetti di produzione di conoscenza e di attivismo volti a promuovere l’uguaglianza di genere attraverso un linguaggio islamico. È tuttavia rilevante notare come Bint al-Shātiʼ non abbia incentrato affatto la propria indagine esegetica sulla “questione femminile” o sulle relazioni di genere nell’Islam, problematiche che anzi occupano una posizione del tutto marginale nei suoi scritti teologici – mentre trovano maggior spazio nella sua produzione letteraria, una disparità in sé piuttosto interessante.

 

Nei pochi testi in cui ha affrontato direttamente la questione in una prospettiva teologica, ‘Abd al-Rahmān ha rifiutato esplicitamente l’idea di eguaglianza fra i generi, ritenendole preferibile quella di complementarità, e ha deriso apertamente le sostenitrici di un egualitarismo assoluto:

 

Ci sono ancora donne fra noi che credono a torto d’essere moderne, e guardano all’uguaglianza da questa prospettiva arretrata che chiede l’eliminazione di ogni differenza fra gli uomini e le donne. Vogliono che la donna e l’uomo siano considerati responsabili dei propri modi e del proprio comportamento nella stessa misura. Queste donne hanno persino chiesto di eliminare il suffisso grammaticale che determina in arabo il genere femminile. Non possiamo fare a meno di domandarci, a questo punto, se questo diritto all’uguaglianza dovrebbe permettere alla donna di essere poligama! O forse fra queste donne che chiedono di eliminare il suffisso del genere femminile ce ne sono alcune che trovano ingiusto dover sopportare da sole gli oneri della gravidanza, del parto e dell’allattamento; potrebbero perfino suggerire che in virtù di questo diritto all’eguaglianza, il marito dovrebbe condividere quest’onere e fare a turno con la moglie nel rimanere incinto, partorire e allattare[1].

 

La rivelazione coranica, ha sostenuto Bint al-Shātiʼ, ha già conferito alle donne una piena libertà; questa deve tuttavia essere intesa nei termini del libero arbitrio concesso a tutti gli esseri umani, non come un rifiuto libertario di qualunque tipo di obbligo morale o vincolo sociale. In quanto essere umano, ogni donna è pienamente responsabile delle proprie azioni e del proprio destino, e nessuno – neppure suo padre, suo fratello, o suo marito – può arrogarsi di esserlo in sua vece. Tutti gli esseri umani, a prescindere dal loro genere, hanno il diritto inalienabile di ottenere un’istruzione e di eccellere, se ne sono in grado, in ogni campo del sapere: la reclusione e l’ignoranza imposte alle donne dalla “società dell’harem” sono un crimine contro la stessa religione. Tuttavia, come abbiamo visto, affermare che le differenze naturali tra i generi non esistano era per Bint al-Shātiʼ da considerarsi un’aberrazione quanto la mentalità che regnava all’epoca dell’harem:

 

L’uguaglianza resta strettamente sottomessa alla logica dell’istinto e alle leggi di natura, che non conoscono uguaglianza assoluta fra un uomo e un altro uomo e una donna e un’altra donna, figurarsi fra un intero sesso e l’altro[2].

 

Nel sostenere questa tesi ‘Abd al-Rahmān ha fatto ricorso, seppure superficialmente, alla sua metodologia esegetica, andando in cerca dei passaggi coranici in cui compare il concetto di eguaglianza (musāwā). La sua conclusione è che nel testo sacro tale termine, e i suoi derivati, non sono mai utilizzati in riferimento al sesso o al genere, ma ad altre questioni, e in generale in senso negativo: non sono uguali i credenti e i miscredenti (es. Cor. 59,20), né, fra i credenti, quanti scelgono di combattere il jihad e quelli che invece «se ne restano a casa» (Cor. 4,95), «quelli che sanno e quelli che non sanno» (Cor. 39,9). Mascolinità e femminilità, tuttavia, non sono definite in termini di uguaglianza, bensì di complementarità. È bene quindi che le donne, o almeno quante fra loro hanno «giusti istinti», accettino volentieri il «grado» (daraja) di preferenza che Dio ha attribuito agli uomini su di loro (Cor. 2,228). Tale differenza non dovrebbe essere considerata come un’umiliazione, dal momento che il Corano ha posto gradi di preferenza anche tra i suoi Profeti. D’altro canto, il privilegio maschile viene da lei ricondotto a una dimensione puramente contrattuale; il grado di preferenza concesso da Dio agli uomini non sarebbe automatico, legato alla semplice biologia, ma resterebbe subordinato all’assunzione da parte degli uomini delle proprie responsabilità, economiche e morali, nei confronti della famiglia (Cor. 4,34). Qualora gli uomini abdicassero ai loro doveri, perderebbero ogni privilegio concesso loro.

 

Questa visione “conservatrice” delle relazioni di genere si ritrova anche nell’opera Le donne del Profeta, una raccolta di biografie delle mogli di Muhammad pubblicata da ‘Abd al-Rahmān nel 1963. Nel leggere questo testo colpisce come Bint al-Shāti’ abbia trascurato quasi completamente il ruolo sociale e politico svolto da queste donne nella prima comunità musulmana, per concentrarsi unicamente sulla loro vita domestica. Di quest’ultima sono inoltre evidenziati soprattutto gli aspetti negativi: al lettore e alla lettrice è offerto un quadro biografico incentrato sulle rivalità, le gelosie e i piccoli vizi che caratterizzavano le diverse mogli del Profeta. Emblematica in questo senso è la figura di ‘Āʼisha, la più giovane fra di loro e la favorita, secondo la tradizione, agli occhi di Muhammad. Nella biografia dedicatale dall’omonima ‘Abd al-Rahmān, la narrazione viene interrotta con la morte del Profeta, avvenuta quando la giovane vedova aveva appena 18 anni e il suo ruolo di spicco all’interno della comunità musulmana era appena iniziato. La sua intelligenza e la posizione di moglie favorita del Profeta le conferirono un ruolo fondamentale nella trasmissione delle tradizioni attribuite a Muhammad (hadīth); ma ‘Āʼisha non esitò a dire la sua anche nelle questioni politiche e successorie. Dopo l’assassinio del terzo califfo ‘Uthmān e l’elezione di ‘Alī, cugino e genero del Profeta, come suo successore, ‘Āʼisha rifiutò di riconoscere l’autorità di quest’ultimo. Trovò sostegno presso alcuni alleati, e la contesa sfociò in una battaglia, cui ‘Āʼisha partecipò in prima persona, seppur nascosta in un baldacchino montato su un cammello fulvo – una presenza tanto importante, la sua, che lo scontro sarebbe stato ricordato come la “battaglia del cammello”. Nella biografia dedicatele da Bint al-Shātiʼ non c’è tuttavia alcun riferimento all’importante ruolo religioso e politico da lei avuto nella prima comunità musulmana; l’interesse dell’autrice è riservato solo agli aneddoti della sua vita matrimoniale.

 

Una riflessione sul ruolo politico avuto da ‘Āʼisha dopo la morte di Muhammad si trova tuttavia in un’altra opera di Bint al-Shātiʼ, una biografia dedicata a sayyida Zaynab, nipote di Muhammad e figlia di ‘Alī (Al-sayyida Zaynab, batalat Karbalā’, “Signora Zaynab, eroina di Karbala”, 1966). Nella storia musulmana la figura di Zaynab è ricordata soprattutto per il coraggio con cui affrontò il lutto dopo aver assistito impotente al massacro del fratello Husayn e delle sue truppe nella battaglia di Karbala, l’evento che ha segnato l’ascesa del califfato omayyade e lo scisma tra sunnismo e sciismo. Nell’introduzione a questa biografia, ‘Abd al-Rahmān ha messo a paragone la capacità di sopportazione di sayyida Zaynab e la tragicità della sua figura con l’intraprendenza politica di ‘Āʼisha – una comparazione tutta a sfavore di quest’ultima. ‘Abd al-Rahmān ha condannato apertamente l’intromissione di ‘Āʼisha nelle questioni politiche, peraltro sostenendo che la sua opposizione ad ‘Alī fosse dettata da meschine ragioni personali piuttosto che da un reale interesse per la vita pubblica. A muoverla sarebbero stati il rancore verso ‘Alī, che consigliò al Profeta di ripudiarla dopo che alcuni ne misero in dubbio la fedeltà coniugale, e la gelosia verso la moglie di ‘Alī, Fātima. Questa era infatti figlia di Khadīja, la prima, adorata moglie di Muhammad, e ebbe quei figli che ‘Āʼisha non partorì mai.

 

Sulla base dell’analisi che ha offerto della figura di ‘Āʼisha e delle altre mogli del Profeta, alcune studiose hanno accusato ‘Abd al-Rahmān di aver interiorizzato l’assunto misogino che vorrebbe le donne incapaci di svolgere un ruolo politico con competenza, per la loro scarsa razionalità e la tendenza a lasciarsi guidare in ogni contesto dalle proprie passioni ed emozioni. Secondo la storica Ruth Roded, ad esempio,

 

La grande popolarità delle biografie di Bint al-Shatiʼ nel mondo arabo ha avuto conseguenze negative. La sua descrizione dei vizi di queste donne rispecchia gli stereotipi e le convenzioni che sono anche troppo diffusi in questa società. Il fatto che a dare questa immagine negativa delle donne sia stata un’altra donna, una studiosa islamica per di più, ha conferito maggiore legittimità a questa prospettiva[3].

Né femminista né reazionaria

 

Di certo, parrebbe quantomeno inappropriato definire ‘Abd al-Rahmān un’autrice femminista; d’altronde lei stessa ha rifiutato esplicitamente questa definizione. Tuttavia il suo contributo fondamentale alla storia delle donne, in Egitto come più in generale nel mondo musulmano, rimane innegabile; un contributo che dev’essere letto non tanto nelle sue riflessioni teoriche sulla questione femminile, quanto dal punto di vista dell’esempio fornito dalla sua stessa persona. ‘Āʼisha ‘Abd al-Rahmān è stata sotto molti aspetti una pioniera: nata negli anni tumultuosi dell’occupazione coloniale, era parte di una generazione di donne che dovette combattere duramente per ottenere un’istruzione e partecipare attivamente alla vita pubblica del proprio Paese; e il successo da lei ottenuto è stato senza precedenti nella storia egiziana. Bint al-Shātiʼ ha portato nella dimensione della realtà qualcosa che qualche decennio prima non sarebbe stato neppure pensabile: una donna che si afferma negli studi religiosi, che insegna a un pubblico misto di uomini e donne, che pubblica quel commentario coranico che il suo stesso maestro non era riuscito a produrre di sua mano.

Bint al-Shātiʼ fu parte di una generazione di donne che dovette combattere duramente per ottenere un’istruzione

 

Il suo successo non è arrivato senza scandalo. In occasione di una sua lezione all’università di al-Azhar, nel 1959, la prima mai tenuta da una donna, uno shaykh la fermò prima che salisse sul palco, chiedendole di farsi da parte e di non introdurre una pericolosa innovazione (bid‘a) in una venerabile università. Bint al-Shātiʼ rifiutò e prese il suo posto, di fronte a una platea di oltre seimila persone; di nuovo, fu avvicinata da un altro shaykh, che le porse uno scialle e le intimò di coprirsi i capelli. Lei rifiutò una seconda volta, pronunciando un discorso appassionato in cui accusava gli studiosi di al-Azhar di aver frainteso il significato del velo islamico (hijāb); nonostante lei fosse a capo scoperto, il suo abbigliamento era modesto e perfettamente appropriato per il luogo e il pubblico.

 

Per quanto non fosse una sostenitrice dell’uguaglianza di genere, Bint al-Shātiʼ non esitò a difendere i diritti delle donne nelle questioni che le stavano più a cuore, soprattutto in ambito socioeconomico. Ad esempio, quando nel 1961 fu chiamata dal governo nasseriano a partecipare al comitato che avrebbe redatto la nuova Carta di Azione Nazionale, ‘Abd al-Rahmān non esitò a criticare la riforma agraria, che considerava le proprietà in mano alle donne come un’estensione di quella dei mariti e dei figli maschi. In un dibattito televisivo, di fronte a un ampio pubblico, affermò che l’Islam aveva riconosciuto l’indipendenza economica delle donne e insisté che la legge dovesse considerarle come soggetti pienamente autonomi.

 

Sarebbe quindi un errore liquidare Bint al-Shātiʼ semplicemente come una figura reazionaria, così come lo sarebbe attribuirle arbitrariamente un’etichetta femminista nella quale non si è mai riconosciuta. Per comprendere meglio quella che può apparire come contraddittorietà, può essere utile riferirsi alla critica della teoria femminista offerta dall’antropologa Saba Mahmood nell’ormai classico Politics of Piety: The Islamic Revival and the Feminist Subject. In questo saggio, incentrato sull’attivismo femminile nelle moschee del Cairo, Mahmood ha proposto una reinterpretazione radicale del concetto di agency – un termine inglese ormai ampiamente diffuso ma quasi intraducibile in italiano[4]. La teoria femminista ha – secondo Mahmood – teso a imporre una visione normativa di libertà e di agency nel senso di resistenza al potere, secondo una logica binaria che tende a classificare ogni azione e comportamento in termini di sottomissione a tale potere o di sovversione dello stesso. Questa logica binaria risulta del tutto inadeguata a valutare percorsi di vita, azione e pensiero sviluppati in contesti diversi da quelli euroamericani:

 

Se la capacità di cambiare se stessi e il mondo è storicamente e culturalmente determinata […] allora il significato e il senso di agency non possono essere determinati a priori, ma devono emergere dall’analisi del modo in cui particolari concezioni rendono possibili determinate responsabilità, modi di essere e di agire[5].

 

‘Abd al-Rahmān può forse apparire una figura contraddittoria agli occhi occidentali; ma l’apparente contraddittorietà del suo discorso rispecchia tutte le ambiguità proprie del suo contesto storico in fatto di emancipazione femminile. Come ho avuto modo di argomentare altrove, sotto il governo di Nasser le donne sono infatti rimaste oggetto di un “doppio discorso” culturale e legislativo, che le definiva come cittadine uguali agli uomini nella sfera pubblica ma ne sanciva al tempo stesso la subordinazione alla volontà dei loro tutori – uomini – nella sfera privata e familiare[6].

Lo status socioculturale “ibrido” di Bint al-Shāti’ e la sua relativa prudenza politica hanno fatto sì che né le femministe né le islamiste l’abbiano considerata un’autrice abbastanza radicale

 

Bint al-Shātiʼ è stata in un certo senso l’incarnazione esemplare di questo doppio discorso; rimasta per tutto il corso della sua vita a cavallo fra due mondi, ha mantenuto salde le radici nel contesto rurale e tradizionale in cui è cresciuta e colto al tempo stesso le opportunità offertele da un Egitto in rapido mutamento. Questo status socioculturale “ibrido” e la sua relativa prudenza politica hanno fatto sì che né le femministe né le islamiste l’abbiano considerata un’autrice abbastanza radicale; anche se, forse, furono proprio queste caratteristiche a permetterle di raggiungere l’apice del successo e guadagnare il sostegno quasi incondizionato del potere. Ricevette infatti medaglie al merito da tutti i presidenti che hanno governato l’Egitto nel corso della sua vita: Nasser, Sadat e Mubarak. Qualunque valutazione si voglia fare della sua posizione sulle tematiche di genere, l’importanza di Bint al-Shātiʼ nella storia del pensiero islamico contemporaneo resta innegabile, così come la sua influenza sulle generazioni successive di donne che, in numero sempre maggiore, hanno reclamato il diritto a prendere parte a un discorso religioso da cui sono rimaste escluse fin troppo a lungo.

 

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Bibliografia

Aisha Abdul Rahman, The Islamic Concept of Women’s Liberation, «al-raida» n. 125 (2009), pp. 37-43.

‘Aishah Bint al-Shati’ ‘Abd al-Rahman, Islam and the New Woman, «Alif. Journal of Comparative Poetics», n. 19 (1999), pp. 194-202.

Bint al-Shati’, The Wives of the Prophet Muhammad, Gorgias Press, Piscataway (NJ) 2006.

Mervat Hatem, ‘A’isha ‘Abd al-Rahman: an Unlikely Heroine. A Postcolonial Reading of her Life and Some of her Biographies of Women in the Prophetic Household, «Journal of Middle East Women’s studies», vol. 7, n. 2 (2011), pp. 1-26.

Ellen Anne McLarney, Soft Force. Women in Egypt’s Islamic Awakening, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2015.

Shuruq Naguib, Bint al-Shati’s Approach to Tafsir: an Egyptian Exegete’s Journey from Hermeneutics to Humanity, «Journal of Islamic Studies», vol. 17, n. 1 (2015), pp. 45-84.

Margherita Picchi, Genere, modernità e politiche sociali nell’Egitto di Nasser, «Storia del pensiero politico», n. 1 (2018), pp. 43-62.

Ruth Roded, Bint al-Shati’s “Wives of the Prophet”: Feminist or Feminine?, «British Journal of Middle Eastern Studies», vol. 33, n. 1 (2006) pp 51-66.

 

 

Note

[1] Aisha Abdul Rahman, The Islamic Concept of Women’s Liberation, «al-raida» n. 125 (2009), pp. 37-43, qui 40.
[2] Ibid.
[3] Ruth Roded, Bint al-Shati’s “Wives of the Prophet”: Feminist or Feminine?, «British Journal of Middle Eastern Studies», vol. 33, n. 1 (2006), pp 51-66, qui 66.
[4] Si intende qui per agency una “libertà di agire” intesa in senso positivo, non come una semplice assenza di vincoli sovraimposti ma come possibilità assertiva di agire nel mondo.
[5] Saba Mahmood. Politics of Piety: The Islamic Revival and the Feminist Subject, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2005, pp. 14-15.
[6] Margherita Picchi, Genere, modernità e politiche sociali nell’Egitto di Nasser, «Storia del pensiero politico», n. 1 (2018), pp. 43-62.