Per il musulmano la fede è adesione alla testimonianza del testimone veridico, per l’evidenza intrinseca della testimonianza stessa

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Ultimo aggiornamento: 27/06/2024 11:50:45

Per il musulmano la fede è adesione alla testimonianza del testimone veridico, per l’evidenza intrinseca della testimonianza stessa. Non necessita delle opere ed è sufficiente per la salvezza degli uomini in virtù delle promesse fatte da Dio ai testimoni della sua Unicità e in ragione del tasdîq, l’assenso dell’intelletto o del cuore, che aderiscono a queste promesse.

Abbiamo insistito sulla natura stessa dell’atto di fede e su ciò che, agli occhi dell’Islam, lo costituisce come motivo di salvezza. Possiamo ora concludere che il problema dei rapporti tra fede e opere si è continuamente posto nell’Islam, e in forma acuta. Ma non si è posto secondo gli schemi a cui è abituata la nostra cultura occidentale, cristiana o scristianizzata. Voler identificare troppo rapidamente i dati, da una parte e dall’altra, sarebbe cedere a un’equivalenza frettolosa che condurrebbe al controsenso. Non ci sembra inutile abbozzare, a questo proposito, qualche messa in guardia.

 

[Fede come adesione alla testimonianza]

[…] Nell’Islam esiste un duplice motivo di credibilità riconosciuto da tutti: la veracità del profeta e l’insuperabilità del Corano; ma esso conduce per così dire direttamente l’intelligenza, sul piano stesso dell’intelligenza, al tasdîq [l’assenso] che è la fede. […] Ritroviamo una volta di più questa nozione così profondamente semitica: la testimonianza del testimone veridico, in qualsiasi ordine si collochi, è fonte di conoscenza assolutamente privilegiata. L’intelligenza, allora, vi aderisce con un’immediatezza che non conosce fratture. Diremo che è prima di tutto questa nozione a connotare il tasdîq, parola della stessa radice di sâdiq, l’uomo sincero e veridico […]. Ora, il profeta-inviato è il testimone veridico per eccellenza e l’adesione al suo messaggio condurrà al Testimone supremo e assoluto, Dio. Il tasdîq della fede comporterà pertanto una certezza interiore senza ombre. La determinazione della volontà che conduce l’intelligenza ad assentire a una verità non evidente non ha più ragione d’intervenire. Se con il Padre Chenu[1] affermiamo che la fede, nella Cristianità, è, come atto psicologico, «l’adesione a una testimonianza attraverso una determinazione della volontà», dobbiamo aggiungere che in Islam essa è un’adesione a una testimonianza per l’evidenza intrinseca della testimonianza stessa.

Non si tratta dunque soltanto di un’analisi psicologica più o meno spinta. Il fatto è che intrinsecamente il tasdîq musulmano, esso stesso adesione-testimonianza alla testimonianza profetica, non comporta le relazioni intelligenza-volontà che la tradizione della teologia cattolica individua nell’atto interiore di fede. Ma esso non coincide neppure con la tradizione protestante della fede-fiducia. La fede-fiducia luterana, più che un’adesione intellettuale a delle verità superiori, è infatti il sentimento intimo della propria personale salvezza; da qui il carattere salvifico riconosciuto alla sola fede.

L’Islam situerà certamente il tawakkul, l’abbandono a Dio, nel solco della fede; ma la certezza della salvezza personale sarà subordinata per il musulmano al decreto imperscrutabile di Dio: questo è il senso, per la scuola ash‘arita, dell’utilizzo del «se Dio vuole»[2].  Per il musulmano, come per il protestante, la fede è sufficiente per salvare. Ma per il musulmano, essa non sarà misurata dal sentimento interiore di salvezza operato da Dio nell’anima. La fede sarà salvatrice in ragione delle promesse fatte da Dio a tutti i testimoni veridici della sua Unicità e in ragione del tasdîq dell’intelletto o del cuore che dà il suo assenso a queste promesse. La consegna a Dio presuppone l’adesione di fede al Testimone supremo, credere Deum presuppone credere Deo.

 

[Il limitato valore delle “prove” razionali]

 […] Certamente alcuni autori del kalâm [teologia apologetica] insisteranno sul valore razionale della “fede scientifica”, sulle “prove” che la loro disciplina apporta alle dottrine credute. Ma precisamente: il tasdîq, adesione-testimonianza alla testimonianza profetica, non cambia di natura per il fatto di essere in tal modo corroborato. Il kalâm, nello spirito di chi lo praticò, non fa altro che esplicitare e mettere in opera le “dimostrazioni” già implicitamente veicolate dal fermo giudizio di veridicità dell’intelletto. L’esperto di scienze religiose è in grado di rendere ragione della sua fede, di rispondere ai dubbi o alle obiezioni dei negatori, la sua scienza però non gli dà l’oggetto della fede. Questo lo riceve dal testo coranico. Gli argomenti razionali del kalâm, siano essi dimostrativi o di convenienza, restano su un piano di apologia difensiva.

Come se non bastasse, non è questa la prospettiva con cui spiriti tra loro così diversi come Ghazzâlî e Ibn Taymiyya[3], ma entrambi diffidenti nei confronti della scienza del kalâm, situano la perfezione della fede: essi intendono ricercarla in un approfondimento vissuto dell’adesione intellettuale di base. È allora, e in prolungamento, che appaiono i valori affettivi del sentimento religioso. Non c’è, come nella Cristianità, trasmutazione di piano. L’adesione alla Parola profetica è intrinsecamente della stessa natura dell’adesione a una parola umana garantita [da un testimone affidabile]. Ma qui il contenuto di questa Parola e il valore del Testimone sono tali che, nei cuori desiderosi di vivere interiormente il loro tasdîq, nasce il desiderio delle cose di Dio, in quei sentimenti di gioiosa ubbidienza e d’abbandono sui cui insiste Ibn Taymiyya.

Ghazzâlî accordava un valore ben limitato alla “fede scientifica”, nella misura in cui precisamente essa potrebbe condurre lo spirito ad aggrapparsi ad argomenti apologetici come se fossero “prove” assolute. Basta vedere il modo in cui sviluppa il suo Munqidh[4], il suo sforzo di fondare il giudizio di veridicità sulla base, ai suoi occhi ben più fondata, di un’esperienza interiore, essa stessa partecipe dell’esperienza profetica. […]

 

[L’opzione filosofica: una reale alternativa?]

Non saremmo lontani dal credere che Ibn Rushd [Averroè] resti un po’ debitore del suo nemico Ghazzâlî nel disprezzo che testimonia verso gli esperti di kalâm. Ma la ragione profonda del suo atteggiamento è tutt’altra. La falsafa [la filosofia greco-islamica] si opponeva esattamente a questo primato dato al giudizio di veridicità, e dunque si opponeva alla dominante musulmana della fede-testimonianza. È molto facile farsi delle illusioni sulla problematica della falsafa in generale e su Ibn Rushd in particolare. È vero, le ragioni che dà della necessità di una rivelazione saranno in parte riprese dalla teologia ebraica (Maimonide) e cristiana (Tommaso d’Aquino) – almeno per quanto concerne le verità accessibili in sé alla ragione; ma, al contrario del pensiero ebraico e soprattutto cristiano, tutto resta finalizzato dalla conoscenza d’ordine superiore degli uomini «radicati nella scienza», ai quali l’unico Intelletto Agente schiude il mondo degli intellegibili. La rivelazione profetica non è più che trascrizione in simboli e allegorie immaginative, accessibili al “volgo”, di questa realtà alla portata dei saggi. […] Siamo agli antipodi di una trascendenza dei valori della fede come tali.

 

[Passare dalla Testimonianza al Testimone]

Ma ritorniamo alla fede religiosa dell’Islam e della Cristianità. […] La fede dell’Islam si concepisce essa stessa essenzialmente come testimonianza. E se tra le discussioni delle scuole si deve individuare una dominante, diremo che le opere, l’obbedienza alle opere prescritte, perfezionano e completano la fedeltà del credente. Nel suo nucleo indivisibile la fede aderisce, per un giudizio di veridicità, alla missione del profeta-inviato, testimone a sua volta della veracità di Dio. E Dio solo merita in ultima analisi e fino in fondo il Nome di “Testimone veridico”, “Testimone stesso del Reale”, diceva al-Hallâj[5]: Egli è Colui che rende testimonianza di Sé a Sé nella sua eternità.

Non sapremmo definire meglio l’atteggiamento del mu’min [credente] nelle sue note più esclusive ed esigenti che citando alcune frasi di Louis Massignon:

«Dio non è alla portata degli uomini, non bisogna permettere agli uomini di cercare di raggiungere Dio. Muhammad stesso, in occasione della sua “ascensione notturna”, ha conosciuto il rapimento che conduce al cospetto della città santa inaccessibile dove risiede la gloria di Dio. Non ha pensato a penetrare nell’amore di Dio. Un abisso ci separa da Dio. Dio è solo. Appaiono così il rigore e l’intransigenza di una fede monoteista in un popolo in cui i profeti sono considerati come gli annunciatori di un Giudizio ultimo che ci ridurrà tutti alla nostra origine; venuti a ricordare agli uomini che Dio è separato, inaccessibile, e che la fede, la fede pura, è probabilmente il solo dono degno di essere a lui offerto»[6].

[…] Credere, per Dio, nella Parola discesa sul Profeta-Inviato, attraverso un giudizio dell’intelletto che dichiara veridico il messaggio, ecco ciò che costituisce lo “statuto” del mu’min e che basta a creare nell’uomo il “compiacimento” (ridwân) divino. Tuttavia, e il messaggio stesso lo reclama, questa adesione-testimonianza alla Parola del Testimone supremo, tende, come prolungamento normale, a rimettersi a Dio in totale fiducia. Si tratta di un cammino verso il Mistero irrivelato? Sarà questo il dramma sempre rinascente degli uomini assetati di Dio, nell’Islam: cercare la via sconosciuta che conduca dalla Testimonianza al Testimone. Così i più grandi sufi tenteranno precisamente di realizzare, nell’amore e per amore, l’Unicità della Testimonianza, wahdat al-shuhûd. Fu il dramma di alcuni cammini che si conclusero nel sangue, sempre esposti tuttavia al rischio della degradazione della fede in una “gnosi” che, con il pretesto di superarla, venne a diluirla nel monismo dell’Unicità dell’Essere, wahdat al-wujûd[7].

Di fronte alla questione che gli “assetati di Dio” posero instancabilmente alla fede dell’Islam, sta la linea dei pii credenti o dei pii antenati, nella sua testimonianza “monolitica” della Trascendenza inaccessibile, abbandonata a Dio in una consegna di tutto l’essere attraverso un atto di fiducia (tawakkul) che “non fa domande”.

 

(Louis Gardet, Dieu et la destinée de l'homme, Vrin, Paris 1967, pp.395-407 passim)

 

[1] La psychologie de la foi dans la théologie du XIIe siècle, Institut d’études médiévales d’Ottawa, 1932, p. 117.
[2] La scuola ash‘arita è una delle due principali correnti teologiche riconosciute nell’Islam sunnita. Una delle sue tesi afferma che non si può dire «io sono in verità credente» senza aggiungere «se Dio vuole», appunto perché l’essere credente (e la salvezza che ne deriva) sono in ultima analisi in mano a Dio (N.d.T.).
[3] Teologo hanbalita rigorista, punto di riferimento dei moderni salafiti, morto a Damasco nel 1328 (N.d.T.).
[4] La salvezza dalla perdizione, di cui abbiamo offerto alcuni passi nell’articolo precedente (N.d.R.).
[5] Il celebre mistico crocifisso a Baghdad nel 922 (N.d.T.).
[6] Tratte da Le salut de l’Islam, «Jeunesse de l’Église», p. 7.
[7] Gardet si riferisce qui alla distinzione, avanzata da Massignon, tra la mistica della “unità della testimonianza”, il cui campione sarebbe al-Hallâj (m. 922), e nella quale si manterrebbe la distinzione tra testimone e oggetto della testimonianza, e quella della “unità dell’essere”, la cui figura chiave è Ibn al-‘Arabî (m. 1240) e che sfocia nel monismo per cui “Dio solo è” (N.d.T.).