La città di Dio - L'ordine dell'amore nella città degli uomini Nel libro XIX del De civitate Dei la dottrina del sommo bene si trasforma in un grande inno alla pace, vista come la cifra fondamentale della creazione che tende al suo fine. A livello ontologico essa si presenta come "costituzione ordinata delle parti", mentre a livello etico-politico indica un compito di faticosa costruzione.
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:11:53
la Pace nella Vita Terrena [XIX, 11]
[] La pace è un bene tanto grande, che normalmente non si sente nulla di più dolce, non si brama nulla di più desiderabile e da ultimo non si può trovare nulla di meglio anche nella realtà terrena e mortale. E se volessimo dilungarci un po' su questo problema, non credo che riusciremo pesanti ai lettori, e a causa del fine di questa città, di cui stiamo parlando, e a causa della dolcezza della pace, che è cara a tutti.
la Pace: Aspirazione Universale [XIX, 12]
Chiunque osservi assieme a me le realtà umane e la nostra natura comune, riconosce che come non vi è nessuno che non voglia godere, così non vi è nessuno che non voglia possedere la pace. []
la Pace: Tranquillità dell'Ordine [XIX, 13]
1. La pace del corpo è la costituzione ordinata delle parti; la pace dell'anima irrazionale è la quiete ordinata degli appetiti; la pace dell'anima razionale è l'accordo ordinato della conoscenza e dell'azione; la pace del corpo e dell'anima è la vita ordinata e la salute dell'essere animato; la pace dell'uomo mortale e di Dio è l'obbedienza ordinata nella fede sotto la legge eterna; la pace degli uomini è la condotta ordinata; la pace della casa è la concordia ordinata dei suoi abitanti nel comandare e nell'obbedire; la pace della città è la concordia ordinata dei cittadini nel comandare e nell'obbedire; la pace della città celeste è la società che ha il massimo ordine e la massima concordia nel godere di Dio e nel godere reciprocamente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell'ordine. L'ordine è la disposizione di realtà uguali e disuguali, ciascuna al proprio posto.
Perciò gli infelici, poiché in quanto tali non sono sicuramente nella pace, mancano della tranquillità dell'ordine, in cui non è alcun turbamento; tuttavia, poiché sono infelici giustamente per loro colpa, non possono essere fuori dell'ordine anche in quella infelicità; essi sicuramente non sono uniti agli uomini felici, ma separati da essi dalla legge dell'ordine. Costoro, pur non essendo privi di un certo turbamento, si adattano insieme in qualche modo alle realtà in cui si trovano; perciò è presente pur sempre in loro una certa tranquillità dell'ordine e dunque una qualche pace. A dire il vero, però, essi sono infelici, poiché, anche se non soffrono trovandosi in una relativa sicurezza, non hanno ancora raggiunto il luogo in cui debbano essere sicuri e al riparo da ogni dolore; sono ancora infelici, poiché la loro pace non è in quella legge in cui si regge l'ordine della natura. Il dolore dunque è un turbamento della pace in quella parte da cui esso proviene, mentre la pace rimane in quella parte in cui il dolore non brucia e l'insieme non viene meno.
Come dunque vi è una certa vita senza dolore, mentre non può esservi un dolore senza la vita, allo stesso modo vi è una certa pace senza alcuna guerra, mentre non può esservi alcuna guerra senza una certa pace; e questo non in base a ciò che la guerra rappresenta, ma in base al fatto che essa viene condotta da quelle o contro quelle che sono pur sempre nature. Non potrebbero assolutamente esistere se non esistessero grazie ad una certa pace.
2. Perciò esiste una natura nella quale non c'è alcun male o addirittura nella quale non può esserci; non può esistere invece una natura nella quale non vi sia alcun bene. Per la qual cosa, neppure la natura del diavolo, in quanto natura, è male; ciò che la rende malvagia è la sua perversità. "Non ha perseverato nella verità" (Gv 8, 44), ma non è sfuggito al suo giudizio; non è rimasto nella tranquillità dell'ordine, ma non si è sottratto al dominio dell'Ordinatore. Il bene di Dio, che egli possiede per natura, non lo sottrae alla giustizia di Dio, grazie alla quale viene ordinato nella pena; Dio quindi non perseguita il bene che ha creato, ma il male che quello ha commesso.
Dio infatti non toglie tutto il bene che ha dato alla natura; una parte ne toglie, un'altra ne lascia, perché ci sia chi provi dolore per ciò che è stato tolto. Del resto, proprio il dolore è una testimonianza del bene che è stato tolto e di quello che è stato lasciato, poiché non si potrebbe provare dolore per il bene tolto, se non fosse stato lasciato del bene. Chi pecca è peggiore se si rallegra del danno recato alla giustizia; chi invece ne è tormentato, se da esso non ricerca del bene, si addolora almeno per la perdita della salute. E poiché la giustizia e la salute sono entrambe un bene, e ci si deve addolorare della loro perdita più che rallegrarsene a meno che essa sia il prezzo per un bene superiore; la giustizia dell'anima è comunque superiore alla salute fisica , indubbiamente è più conveniente il dolore dell'ingiusto nella punizione che la sua letizia nella colpa. Come dunque la letizia per il bene mancato manifesta nel peccato una cattiva volontà, così il dolore per il bene perduto manifesta nella punizione una natura buona. Infatti colui che si addolora per aver perduto la pace relativa alla propria natura, si addolora in base a quel che resta della pace, per cui la natura gli diviene amica. è quindi giusto che nella punizione finale gli iniqui e gli empi piangano in mezzo ai tormenti la perdita dei loro beni naturali, avvertendo che a toglierli è Dio, sommamente giusto, che essi disprezzarono quando Egli li dava loro con somma benevolenza.
Dio dunque, autore sapientissimo di tutte le nature e giustissimo ordinatore di esse, che ha creato il genere umano mortale come il più grande degli ornamenti della terra, ha dato ai buoni dei beni confacenti a questa vita, cioè la pace temporale secondo la misura della vita mortale, nella salute, nell'incolumità, e nella società dei loro simili, e tutto quello che è necessario per conservare e ricuperare questa pace, come quelle cose che vengono incontro in modo adatto e conveniente ai sensi, e cioè la luce, la voce, l'aria che si respira, l'acqua che si beve e tutto ciò che serve a nutrire, a coprire, a curare e ad adornare il corpo. Dio ha dato tutto ciò con la condizione assolutamente giusta che ogni uomo mortale che avrà fatto buon frutto di tali beni adatti alla pace dei mortali ne riceva dei maggiori e più alti, cioè la pace dell'immortalità e la gloria e l'onore che ad essa convengono nella vita eterna per godere di Dio e del prossimo in Dio. Chi invece ne avrà fatto un uso cattivo, non riceverà quella pace e perderà quei beni.
la Pace nell'Amore [XIX, 14]
Dunque ogni uso delle realtà temporali riguarda il conseguimento della pace terrena nella città terrena, mentre nella città celeste riguarda il conseguimento della pace eterna. Se perciò noi fossimo esseri animati privi di ragione, non desidereremmo altro che una ordinata costituzione delle parti del corpo ed una quiete degli appetiti; nient'altro dunque che la quiete della carne e l'abbondanza dei piaceri, perché la pace del corpo possa giovare alla pace dell'anima. Se manca infatti la pace del corpo, viene impedita anche la pace dell'anima razionale, poiché non si può conseguire la quiete degli appetiti; l'una e l'altra insieme invece contribuiscono alla pace reciproca dell'anima e del corpo, riguardante la vita ordinata e la salute. Come quindi gli esseri animati mostrano di amare la pace del corpo quando fuggono il dolore, e la pace dell'anima quando ricercano il piacere nella soddisfazione dei bisogni dei loro appetiti, così fuggendo la morte indicano abbastanza bene quanto essi amino la pace che unisce in loro anima e corpo.
Ma poiché nell'uomo è presente un'anima razionale, egli sottomette tutto quel che ha in comune con le bestie alla pace dell'anima razionale, in modo da poter contemplare qualcosa con la mente e comportarsi di conseguenza, realizzando quell'accordo ordinato di conoscenza e di azione in cui abbiamo individuato la pace dell'anima razionale. Perciò egli deve pretendere di non essere molestato nel dolore, né turbato dal desiderio, né dissolto dalla morte per poter conoscere qualcosa di utile e determinare in base a quella conoscenza la propria vita e i propri costumi.
Ma perché egli nella ricerca di questa conoscenza non incorra nella calamità di quest'errore a causa della debolezza della mente umana, c'è bisogno del magistero di Dio, a cui obbedire con certezza, e del suo aiuto, a cui obbedire con libertà. E poiché l'uomo cammina lontano da Dio (cfr. 2 Cor. 5, 6 ss.) finché si trova in questo corpo mortale egli cammina per mezzo della fede e non per visione; perciò egli riferisce ogni pace o del corpo o dell'anima o di entrambe a quella pace che l'uomo mortale condivide con Dio immortale, in modo che la sua obbedienza sotto la legge eterna sia ben ordinata nella fede. Due dunque sono i massimi comandamenti che Dio, nostro maestro, ci insegna: l'amore di Dio e l'amore al prossimo (cfr. Mt 22, 34-40; Mc 12, 28-31; Lc 10, 17 ss.); quindi l'uomo deve amare tre realtà: Dio, se stesso e il prossimo, e non pecca nell'amare se stesso colui che ama Dio. Di conseguenza si deve provvedere per aiutare il prossimo ad amare Dio, quel prossimo che si comanda di amare come se stessi (e così la moglie, i figli, i famigliari, e tutti gli altri uomini che si può); l'uomo stesso deve desiderare di essere aiutato dal prossimo, qualora ne abbia bisogno. Perciò egli sarà in pace, per quanto gli è possibile, con ogni uomo nella pace degli uomini, che è l'ordinata concordia, il cui ordine consiste anzitutto nel non nuocere a nessuno, quindi nel rendersi utile a quanti più individui possibile. Anzitutto quindi l'uomo deve avere cura dei suoi: egli ha l'occasione più opportuna e più facile di aiutarli sia nell'ordine della natura, sia in quello della società umana. Al riguardo l'Apostolo dice: "Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato al fede ed è peggio di un infedele" (cfr. 1 Tm. 5, 8). Qui sorge perciò anche la pace domestica, cioè la concordia ordinata nel comandare e nell'obbedire di coloro che abitano assieme. Quelli che si prendono cura degli altri esercitano un comando, come il marito verso la moglie, i genitori verso i figli, i padroni verso gli schiavi. Obbediscono invece coloro di cui ci si prende cura, come le mogli verso i mariti, i figli verso i genitori, gli schiavi verso i padroni. Ma nella casa del giusto, che vive secondo la fede e che è ancora in cammino lontano dalla città celeste, anche coloro che comando sono al servizio di quelli che sembrano essere comandati (Lc 22, 26 ss.; Gv 13, 16 ss.). Non comanda infatti per passione di potere, ma per dovere di servizio, non per l'orgoglio di comandare, ma per la misericordia di soccorrere.
la Concordia nella Pace Terrena [XIX, 17]
La casa degli uomini che non vivono secondo la fede insegue la pace terrena fra le cose e gli agi di questa vita temporale, mentre la casa degli uomini che vivono secondo la fede attende i beni eterni che sono stati promessi nella vita futura, e si serve come pellegrina delle realtà terrene e temporali, senza lasciarsi prendere da esse e fuorviare dal cammino che tende verso Dio; se ne serve per essere aiutata a tollerare più facilmente e a non aumentare i pesi del corpo corruttibile che aggravano l'anima (cfr. Cap. 9, 15). Per questo l'uso delle realtà che sono necessarie a questa vita mortale è comune ai due gruppi di uomini e alle due famiglie, ma è ben diverso il fine secondo cui ciascuno se ne serve.
Anche la città terrena che non vive secondo la fede, desidera fortemente la pace terrena e ripone la concordia dei cittadini nel comandare e nell'obbedire, nel far sì che ci sia una certa armonia delle volontà degli uomini riguardo ai problemi che toccano la vita mortale. La città celeste invece, o piuttosto quella parte di essa che è pellegrina in questa condizione mortale e vive secondo la fede, necessariamente si serve anche di questa pace, finché non passi la condizione mortale alla quale tale pace è necessaria. Perciò mentre conduce la sua vita itinerante come una schiava presso la città terrena, avendo già ricevuto però la promessa di redenzione e il dono spirituale come pegno, non esita a obbedire alle leggi della città terrena, secondo cui si regge tutto ciò che serve per mantenere questa vita mortale, cosicché, condividendo entrambe la stessa condizione mortale, si conservi fra le due città la concordia per ciò che riguarda quella condizione.
A dire il vero, però, la città terrena ebbe al suo interno alcuni sapienti, che la sapienza divina respinse; essi, o con una semplice supposizione o perché ingannati dal demonio, credevano che si dovessero chiamare in causa molti dèi nell'ambito delle realtà terrene, affidando a ciascuno di essi in certo senso diverse incombenze: ad uno il corpo, ad un altro l'anima; per quel che riguarda il corpo, poi, ad uno il capo, ad un altro la nuca, ad altri altre parti ancora; allo stesso modo per quanto riguarda l'anima, ad uno fu affidato l'ingegno, ad un altro la dottrina, ad un altro la collera, ad un altro la concupiscenza; fra le cose che riguardano questa vita, ad uno fu affidato il bestiame, ad un altro il frumento, ad un altro il vino, ad un altro l'olio, ad un altro i boschi, ad un altro il denaro, ad un altro la navigazione, ad un altro guerre e vittorie, ad un altro i matrimoni, ad un altro i parti e la fecondità, e via dicendo.
La città celeste invece ha riconosciuto che si deve venerare un unico Dio e a Lui soltanto si deve offrire con fede e devozione quel culto che in greco si dice, con la conseguenza che non ha potuto condividere con la città terrena le stesse leggi religiose, dovendo quindi dissentire da essa; è divenuta quindi così intollerabile agli occhi di quanti la pensavano diversamente, dovendo sopportare la loro collera, il loro odio e il loro impeto di persecuzione, salvo quando riusciva a respingere l'animosità dei suoi avversari, qualche volta facendosi forza delle sue moltitudini e sempre grazie all'aiuto divino. Questa città celeste quindi, finché è pellegrina sulla terra, chiama cittadini da tutte le nazioni e raccoglie la società pellegrina fra tutte le lingue, senza badare a diversità di costumi, di leggi, di istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza eliminare o distruggere nessuna di esse, anzi accettando e seguendo tutto ciò che tende ad un unico e medesimo fine della pace terrena, nonostante la diversità da nazione a nazione, purché ciò non costituisca un ostacolo per quella religione che insegna a venerare l'unico, vero e sommo Dio.
Anche la città celeste usa quindi, nel suo cammino, della pace terrena, protegge e desidera l'armonia delle volontà umane in ciò che riguarda la natura mortale degli uomini, fatta salva la devozione e la religione, e riferisce questa pace terrena alla pace celeste, che è la vera pace, da ritenersi e da definirsi l'unica pace della creatura razionale; questa è la società che ha il massimo di ordine e di concordia nel godere di Dio e nel godere reciprocamente in Dio. Quando ciò sarà raggiunto, la vita non sarà mortale, ma pienamente e sicuramente vitale, e il corpo, che mentre si corrompe appesantisce l'anima (cfr. Sap 9, 15), non sarà più animale, ma spirituale, completamente sottomessa alla volontà, senza alcun bisogno. Questa pace la si possiede finché si è pellegrini nella fede e in questa fede si vive nella giustizia, riferendo al conseguimento di quella pace tutto ciò che di buono si compie verso Dio e verso il prossimo, poiché la vita della città è indubbiamente una vita sociale.
[Brani estratti da Agostino, La Città di Dio, traduzione di Luigi Alici, Bompiani Editore, Milano 1997]