«L’universalità deve essere costruita attraverso l’idea di consenso progressivo. Si può evitare l’uso della forza bruta»
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:40
A colloquio con Abdullahi Ahmed an-Na‘im, sudanese, docente negli Stati Uniti, discepolo del grande pensatore riformista Muhammad Taha, giustiziato a Khartoum nel 1985. «L’universalità deve essere costruita attraverso l’idea di consenso progressivo. Si può evitare l’uso della forza bruta».
Professore, in un testo del 1994 che abbiamo di recente ripubblicato su Oasis l’allora Cardinal Ratzinger affermò che «non esiste la nuda fede o la pura religione. In termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo, la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura». Come vede Lei questa relazione?
Sono d’accordo con l’idea di fondo: l’assunto per cui la missione si limiterebbe alla trasmissione di un messaggio religioso è fuorviante perché la fede ha un potere trasformante sulla cultura. Proprio per il fatto che la fede non è una pura idea, ma si incarna in una cultura, chi si impegna a propagare la fede si impegna anche a trasformare la cultura. Ecco perché guardo con interesse al processo di auto-definizione comunitaria che ha luogo attualmente in Africa. Per fare un esempio concreto, i missionari trasmettono solo il Cristianesimo o anche i valori della cultura a cui appartengono? Un missionario africano in Europa non è uguale a un missionario europeo in Africa, anche se condividono la stessa fede. Il bagaglio culturale è molto diverso. Tuttavia, pur accettando queste premesse, osservo che nella circolarità fede-cultura occorre considerare anche l’aspetto delle relazioni di potere. C’è un’asimmetria nella distribuzione del potere, alcune società sono molto povere e la missione finisce per riflettere questa situazione. Ecco perché, per tornare all’esempio di prima, i missionari cristiani in Africa sono stati percepiti in passato come punte avanzate della colonizzazione europea. E quello che succede in alcune parti del mondo è frutto del risentimento che scaturisce da questa situazione.
Una cosa è considerare, nella dinamica fede-cultura, anche le relazioni di potere; ma un’altra è concludere che proprio per questa disparità di forze il contatto tra culture non dovrebbe aver luogo.
Non dico questo. Io credo nell’universalità, ma l’universalità non è un dato scontato e non basta proclamarla a parole, bisogna costruirla attraverso l’idea di consenso progressivo. Per raggiungerlo è necessario tener conto delle relazioni di potere. Questo vale per ogni tipo di universalismo, non solo per le fedi. Prendiamo il caso degli Stati Uniti e del loro progetto di democratizzare l’Iraq o l’Afghanistan: non hanno ottenuto il contrario di quel che speravano?
Anche l’universalità dei diritti umani, di cui Lei si occupa da molti anni, si gioca sul piano delle relazioni di potere?
Certamente, la ragione per la quale mi sono dedicato così a fondo al tema dei diritti dell’uomo e della democratizzazione è proprio per riconsiderare l’impatto del potere. Il potere è una cosa ambigua, non solo materiale. Il punto non è che tutti possano raggiungere lo stesso livello di potere, ma che lo si possa trasformare in un tipo di potere diverso, perché se c’è una pressione diplomatica e dell’opinione pubblica ed economica si può evitare l’uso della forza bruta. Quando si è dotati di autorità e prestigio, si può svolgere un’azione incisiva. Il mio è uno sforzo per sostenere i valori umani attraverso il soft power.
Prendiamo il caso degli Stati Uniti dopo l’Undici Settembre, guardiamo alla guerra in Afghanistan. Per il presidente George Bush l’idea di dichiarare guerra era attraente e semplice, ma alla fine questa decisione ha creato più problemi di quanti non ne abbia risolti. Il mio scopo è creare consapevolezza della necessità di ricorrere a forme alternative di potere come le istituzioni internazionali. Non lasciare che gli stati si risolvano le questioni fra di loro ma coinvolgere tutta l’umanità... mi sembra che le due cose siano parecchio diverse. Per parlare di dialogo interreligioso, tolleranza e rispetto e per praticarli, servono istituzioni e sistemi normativi. Finché restano il tentativo di singoli, non hanno possibilità di riuscita, ma se si lavora insieme, non si penserà più in termini di quello che l’altro vuole estorcermi o impormi, ma in termini di comunità umana.
Eppure, per creare istituzioni internazionali è necessario riferirsi a valori comuni. Spesso si sente dire che i diritti umani sono un grimaldello escogitato dagli occidentali per intromettersi negli affari degli altri stati. Da quello che dice, mi sembra di capire che Lei non sia d’accordo con questa obiezione.
Non si può negare che i diritti umani possono diventare un puro pretesto, finendo strumentalizzati in senso imperialistico. Ma questa non è una ragione sufficiente per opporvisi. Anche supponendo che gli Stati Uniti o l’Italia usino i diritti umani per tornaconti di politica estera, bisogna chiedersi perché lo fanno. Lo fanno perché l’ideale dei diritti umani ha un valore, è un’idea forte, abbastanza forte da nascondere altre motivazioni meno nobili. La vera domanda allora è: come contrastare la tendenza all’uso imperialista dei diritti umani? L’impulso imperialista non è solo europeo o occidentale, è universale, esiste in ogni popolo, anche nelle nostre famiglie. Come rassicurare chi si sente minacciato dall’egemonia altrui? Quando parlo di diritti umani e di legalità internazionale, mi riferisco alla necessità di impedire che il potere di qualcuno schiacci gli altri.
Di solito il discorso sui diritti umani è articolato in termini decisamente laici perché si ritiene che, se fosse formulato in termini religiosi, non riuscirebbe a raggiungere lo stesso grado d’universalità. Lei è d’accordo? Il suo essere musulmano aggiunge qualcosa al discorso laico sui diritti umani? Che cosa precisamente?
L’idea di una fondazione unicamente secolare dei diritti umani è votata al fallimento. I musulmani sono credenti, perciò chiedere loro di lavorare e sacrificarsi per proteggere i diritti umani sulla base di una giustificazione puramente secolare non è realistico. In realtà, non esiste un unico fondamento dei diritti umani. Mi si può chiedere e io posso chiedere ad altri di aderire a questi valori, ma abbiamo ragioni diverse per aderirvi. Il diritto dei credenti di sostenere i diritti umani e di aderirvi è tanto importante quanto quello dei sostenitori laici dei diritti umani. La stessa idea di diritti umani implica il diritto di ognuno di scegliere le ragioni per le quali vi aderisce. Se mi impedisci di aderire ai diritti umani in forza delle giustificazioni che io vi do, mi privi di un mio diritto. Mi puoi sfidare a essere all’altezza del mio impegno a favore dei diritti umani, ma non puoi mettere in discussione le ragioni di questo mio impegno.
Il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, com’è noto, non enuncia alcuna fondazione dei diritti umani, ma questo non significa né che Dio non abbia niente a che fare con i diritti umani, né che i diritti umani discendano da Dio. Significa solo che la questione rimane aperta. Maritain diceva che il valore dei diritti umani non è diminuito dal fatto che non tutti vi riconoscano lo stesso fondamento. Nel tempo il nostro accordo sui diritti umani influenzerà anche il nostro accordo sulle ragioni del consenso. Condividiamo il nostro impegno per i diritti umani, ognuno per una ragione particolare, e con il passare degli anni questo impegno creerà una comprensione comune intorno ai diritti umani e intorno a chi è degno di essere chiamato umano che influenzerà le rispettive ragioni dell’adesione. Il nostro impegno all’inizio non sarà completo né assoluto, si svilupperà nel tempo. Ma sapere che più parti, in buona fede, cercano di approfondire le ragioni della loro adesione ai diritti umani rincuora. Sapere che anche gli altri stanno coltivando il loro interesse per la pace spinge le parti in causa ad abbassare la guardia.
In sintesi, l’impegno comune aiuta a trovare le ragioni comuni. E più le ragioni si avvicinano più l’impegno si intensifica. All’inizio i punti di contatto possono essere limitati, ma nella misura in cui ci impegniamo in questo processo il consenso si allarga e si approfondisce. E più si approfondisce più le persone diventano fiduciose. Credo che questa sia una visione realista delle cose. A volte penso che stiamo costruendo una cultura dei diritti umani… certo qualcuno potrà continuare a non essere d’accordo. Non è ingenuità, io mi considero un ottimista pragmatico, mi rifiuto di essere pessimista. Se lasciassi il campo ai fondamentalisti, gliela darei vinta per diserzione, permettendo loro d’impossessarsi dell’Islam. Ma se lotto, vinco anche se perdo, perché lotto per i miei valori.
A proposito di fondamentalismo, Lei ha dovuto lasciare il Suo Paese...
Penso sia più onorevole lasciare il proprio paese che morire invano, perché l’esilio consente di continuare la lotta. L’importante è essere una forza positiva, che onora la propria tradizione. Io mi rifiuto di arrendermi al fondamentalismo. Per me il fondamentalismo è uno stato mentale. È curioso vedere come nella nostra esperienza quelli che un tempo erano marxisti tendono a diventare fondamentalisti. C’è un’arroganza di fondo che li accomuna. E comunque non ci sono solo fondamentalismi religiosi. Può esistere un fondamentalismo laico, come per esempio fu il fascismo o il nazismo. Io resisto al fondamentalismo perché è una negazione della mia umanità. Infatti qual è il senso ultimo dei diritti umani? È la mia libertà. Mi rifiuto di cedere la mia libertà. Potete uccidermi ma non eliminare la mia esperienza morale. Il mio investimento sui diritti umani e sulla legalità internazionale, la mia scommessa sulla creazione di solidarietà tra persone parte dalla convinzione che ogni cultura abbia al suo interno forze che perseguono l’egemonia e forze che perseguono la condivisione di potere e risorse. Privilegiando una cultura della solidarietà trascendiamo i confini culturali e geografici per dar vita a uno spazio di condivisione. Ho bisogno dei diritti umani per proteggere il mio stesso spazio. Sono io il primo ad averne bisogno.
Come Le è nata questa convinzione?
Il mio maestro, Mahmud Taha, è stato veramente una persona ispirata, quello che i cristiani chiamano un santo. Ha perdonato le persone che l’hanno ucciso, mentre io non ne sono capace. Anche se non mi hanno eliminato fisicamente, ammazzando il mio maestro hanno ucciso qualcosa di molto prezioso dentro di me. Vederlo perdonare i suoi assassini mi ha sconvolto. Vent’anni dopo capisco più del giorno in cui ho lasciato il Sudan, ma ancora lotto per riuscire a perdonare quelli che hanno ucciso il mio maestro. Quando ho lasciato il Paese ero molto arrabbiato. Adesso ho un passaporto americano e a volte mi è possibile tornare in Sudan per qualche giorno. Allora vedo che i Fratelli Musulmani hanno fatto per la missione del mio maestro più di quanto avremmo potuto fare noi, suoi discepoli.
Quando negli anni Settanta e Ottanta parlavamo del pericolo del fondamentalismo, la gente non ci capiva. Ma adesso, dopo aver vissuto sotto il fondamentalismo, le persone colgono subito il cuore del nostro ragionamento. Dio agisce in modo misterioso, ed è sorprendente vedere come, permettendo ai fondamentalisti di andare al potere, Dio ha reso evidente alle persone i pericoli del fondamentalismo meglio di come avremmo potuto fare noi con i nostri discorsi. Per i cristiani la morte di Gesù deve essere stata traumatica. Ma vedervi un bene per tanti, la salvezza come si dice nella Bibbia, cambia il modo con cui possiamo guardare all’ingiustizia insita nella morte di Gesù.
Può dire che buona parte dell’educazione che ha ricevuto è passata per il sangue del suo maestro Taha? Come lo ha conosciuto? Era una personalità famosa e popolare in Sudan?
Famoso sì, popolare no. Mi sono trasferito a Khartoum nel 1965 per andare all’Università. A quel tempo Taha era conosciuto come un oratore molto carismatico, ma le sue opinioni erano controverse e molti lo accusavano di essere eretico e ci mettevano in guardia dal prestargli ascolto. Mi ricordo che un giorno ero andato a trovare i miei genitori in una piccola città di provincia a nord di Khartoum, e al cinema locale non c’era niente di interessante. Un mio amico mi invitò ad assistere a una lezione di Taha e visto che non c’era niente di meglio da fare decisi di andarci. Lo sentii parlare e da quella sera non ho più potuto andarmene o rinnegare il suo messaggio. Sentivo che non solo parlava a me, ma parlava per me. Nei suoi discorsi si percepiva la pienezza del cuore ed era questa pienezza a renderlo forte. Taha insisteva a dire che si doveva praticare quello che si predicava oppure smettere di predicare. Lui credeva nell’unità di pensiero, parola e azione. Amava ripetere, citando Gesù «la mia parola non tornerà a me invano». La mia non è una buona traduzione dall’arabo, ma sono sicuro che riconoscete questo detto: siccome Gesù parlava dalla pienezza del suo cuore, le sue parole raggiungono i cuori di chi lo ascolta...
Da come la racconta, la sua è stata una vera testimonianza.
Come vi accennavo, vedo una dimensione biblica nella sua vita. Quanto è successo non può essere considerato un fatto accidentale, ma è il frutto di un disegno che ha permesso a molti di beneficiare della sua vita e della sua opera. Questo è almeno quello che mi sento di dire, per me e per la mia esperienza. Anche nel caso di Gesù molti sul momento non l’hanno riconosciuto o lo hanno rinnegato e hanno capito solo successivamente. Per me c’è un parallelo tra la vita di Gesù e quella di Taha. Sul momento la sua morte mi è sembrata un delitto senza senso, poi ho capito quale valore avesse. Sono stato davvero fortunato ad avere avuto la possibilità di conoscere e apprezzare la vita di uno che mi ha mostrato che cosa significhi essere veramente musulmano. Perché realmente non ho mai conosciuto un musulmano migliore di Taha.
Il valore dei santi e dei profeti è mostrare che la perfezione umana è possibile, che non è solo un ideale romantico, ma può essere raggiunta. Penso sia questo il messaggio più potente che per volontà divina ci rivelano. Taha era una persona compiuta, come altri grandi, Gandhi o il Dalai Lama. I santi e profeti infatti hanno tutti qualcosa in comune. Il mondo ha bisogno di ancore spirituali. La tradizione musulmana sufi parla della presenza di “poli” (aqtâb), senza i quali il mondo non potrebbe andare avanti. E sempre la tradizione sufi afferma che spesso i più grandi santi sono anche i più nascosti. Se però sei tanto fortunato da incontrarne uno e riconoscerlo, questa è davvero la benedizione di Dio su di te.