Secondo la sura delle Donne: Dio creò gli esseri umani a partire da una sola persona o anima e il termine usato per definirla evoca ambedue i generi

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:41

La sura coranica delle Donne è in buona parte dedicata e rivolta alle donne e al loro statuto giuridico.[1]

Si apre così:

«Nel nome di Dio, il Clemente, il Compassionevole. Uomini, temete Dio, il quale vi creò da una persona sola. Ne creò la compagna e da essi suscitò molti uomini, e donne. Temete quel Dio nel nome del quale vi chiedete favori l’un l’altro e rispettate il grembo che vi ha portato» [Corano 4,1; cfr. 39,6][2]

Secondo questo passo, Dio creò tutti gli esseri umani a venire da una sola persona, o una sola anima (nafs wâhida). Il termine nafs, anima o persona, è morfologicamente maschile ma quasi invariabilmente è concordato al femminile. Molti esegeti si soffermano sull’impiego da parte di Dio nel suo Libro di un simile nome per indicare Adamo, il primo uomo. Tra gli altri, Fakhr al-Dîn al-Râzî (m. 1209) in Chiavi dell’Arcano pensa a un altro nome femminile che il Corano riferisce ad Adamo, cioè khalîfa, vicario di Dio, ‘colui che prende il posto di qualcuno e gli succede’. Questo accostamento è importante: senza dover postulare che il Libro santo dell’Islam celi un principio femminile, è evidente che nella mentalità che lo guida è femminile la nozione di progressione o posterità.

Non è un caso se tra i 99 nomi divini spiccano al-Rahmân e al-Rahîm – «il Clemente, il Compassionevole» – i quali condividono l’etimologia di rahma, misericordia o dono, ma rimandano anche alla matrice, il ventre materno, rahim o rahm. Lo stesso Râzî lo rileva ricordando un detto del Profeta: «Dio è al-Rahmân e la madre è al-rahim, il nome di lei deriva dal Suo». In ogni caso, la descrizione di Adamo come «l’anima sola» lo porta a rilevare il precetto etico primo, la simpatia universale: il Signore ordina il timore di Lui – «uomini, temete Dio» – e subito afferma di averci creati tutti da una sola anima – «vi creò da una persona sola» – in tal modo insegnando che ubbidienza significa meditare sull’origine comune di tutti noi dall’essere umano unico e così moltiplicando affetto e compassione per ogni creatura.

Una volta stabilito che l’«anima sola», il progenitore comune a tutti è Adamo, l’esegesi si trova di fronte a una nuova questione di genere: «ne creò la compagna (zawj)» (sempre 4,1; cfr. 30,21: «Ha creato per voi delle compagne da voi stessi perché riposiate con loro, e ha posto fra di voi amore e compassione»). Anche il termine tradotto con “compagna” è maschile sotto l’aspetto morfologico; letteralmente vale per “l’altro dei due”, senza determinazione del genere. Qualche esegeta, specie in ambiente mistico, raccoglie la noncuranza per il genere implicita nell’impiego di questa voce, che ripete l’indeterminatezza dell’anima primordiale o nafs; è il caso di Qushayrî (m. 1072) in Sottigliezze delle indicazioni, che legge nel “compagno” di Adamo un generico analogo, una riproduzione.

Ma la stragrande maggioranza degli esegeti concorda nel tradurre l’altro di Adamo in Eva, in arabo Hawwâ’. Così annullano l’ambiguità (di nafs), dimenticano la reciprocità (di zawj), e insistono su Eva come parte o porzione del primo uomo. E reintegrano il tema biblico della costola che il Corano tace. Tabarî (m. 923), nella Raccolta delle dichiarazioni, insiste sull’originaria e temporanea unicità dell’uomo che in certo qual modo rispecchierebbe l’eterna unicità di Dio:

«L’Altissimo descrive se stesso, l’Unico, tramite la creazione di tutti gli umani da un individuo unico; così Egli rende noto ai Suoi servi che […] ciascuno ha l’obbligo di rispettare il diritto dell’altro come il diritto del fratello sul fratello»

Ancora Tabarî ricorda che Dio gettò Adamo nel sonno, quindi gli prese una costola dal lato sinistro e, mentre Adamo dormiva e non sentiva nulla, gli riaggiustò quella parte. Dalla costola gli creò la compagna (zawja), Eva, cui diede forma di donna affinché egli riposasse con lei. Secondo un altro antico racconto riportato dal medesimo autore:

«Adamo stava camminando nel Giardino, triste e solitario, non aveva un altro (zawj) con cui riposare. Si assopì e quando si svegliò vide accanto a sé una donna che Dio gli aveva creato dalla costola. “Perché sei stata creata?” – chiese. “Perché tu riposassi con me”– rispose lei»

È dolcissima l’immagine dell’uomo e della donna nel Giardino, la loro convivenza fiduciosa; quel progenitore unico si acquietò, trovò dimora e riparo nel nuovo essere che era il suo reciproco, il suo complementare. Nella sura delle Creature che disseminano è detto:

«Di ogni cosa abbiamo creato una coppia (zawjayni, duale di zawj), perché voi rifletteste [...], non mettete accanto a Dio un altro dio» [Corano 51,49-51]

È completezza nella duplicità, il che serve a meditare sull’unicità singolarissima di Dio. La reciprocità dell’uomo e della donna è illuminata ancora nel Libro, tra l’altro in un versetto della sura della Vacca: «Esse sono una veste (libâs) per voi come voi siete una veste per loro» [Corano 2,187]. Quando legge questo versetto Tabarî pensa all’abbraccio forte tra coniugi, quando il corpo dell’uno diviene per l’altro come l’abito che indossa, proteggendolo dagli occhi della gente e dalla caduta nell’illecito. E, a ribadire il vicendevole dono di quiete e mutua confidenza che fa l’unione coniugale, egli richiama un’altra veste che Dio ha benevolmente disteso sull’umanità: «È Lui che ha fatto della notte una veste per voi, e del sonno un riposo, e del giorno una resurrezione» [Corano 25,47].

 

La donna prima del Corano

Nelle spiegazioni e nei racconti appena citati i progenitori sono figure di una serenità intatta; la costola è parte integrante dell’uomo e non implica riduzione di valore. Però l’esegesi musulmana attesta anche posizioni di diverso intento, che insistono sulla derivazione della donna dall’uomo – nel rispetto di Corano 30,21: tutte le donne «sono create a partire dagli uomini» – e di qui sulla sua recisa subordinazione; e così attestano la misoginia che sappiamo comune al passato semitico. Occorre ricordare che questi racconti figurano in opere più tarde, nelle quali riaffiorano motivi culturali preesistenti alla rivelazione del Corano.

Un esempio è offerto dall’andaluso Qurtubî, “il Cordovano” (m. 1272), nell’opera La raccolta dei precetti del Corano. Scrive:

«Eva venne creata da una costola di Adamo senza che egli ne patisse, perché se avesse sentito dolore nessun uomo proverebbe affetto per la sua donna. Quando si svegliò gli angeli gli domandarono: “Adamo, tu la ami?” “Sì” – disse. Chiesero a Eva: “E tu, Eva, lo ami?” “No” – disse. […] Qualcuno ha affermato che se mai una donna ha parlato con sincerità del suo amore per il marito, quella donna è Eva». «I dotti hanno affermato che la donna è storta – continua Qurtubî – perché venne creata da una cosa storta cioè la costola»

E cita subito un detto attribuito al profeta Muhammad: «La donna è stata creata da una costola e non la puoi raddrizzare; se ti soddisfa, ti soddisfa anche se è storta». Un altro esempio è offerto dal commentario di Suyûtî (m. 1505), Le perle sparse: Dio creò l’uomo dalla terra, così decretando la sua bramosia per la terra, e creò la donna dall’uomo, così decretando la sua bramosia per gli uomini. Pertanto l’autore consiglia: «Rinchiudete le vostre donne».

 

La custode del Mistero

Lo stesso insegnava lo hanbalita Ibn Kathîr (m. 1373), discepolo di Ibn Taymiyya (m. 1328), nella Spiegazione del sublime Corano: ingorda e vorace d’uomini, la donna va isolata e imprigionata. Eppure il Corano non associa direttamente la donna alla reclusione, quel che fa invece certo lavoro esegetico successivo; piuttosto alla custodia. E non sempre si tratta di custodia esercitata dall’uomo nei confronti della donna. È detto, ancora nella sura delle Donne: «Le donne buone sono devote a Dio e custodiscono ciò che è nascosto (ghayb), come custodisce Dio [Corano 4,34]». In questo passo la donna è soggetto, non oggetto di tutela; quanto al ghayb che essa è chiamata a custodire, ‘quel che sfugge o è assente’, è un termine carico di significato nel Libro giacché traduce per lo più il Mistero, precluso alla conoscenza delle creature [cfr. Corano 6,59].

I commentatori sono evidentemente turbati dall’accostamento della donna a Dio, l’una e l’altro coinvolti nella custodia del Mistero, e si industriano per limarne i contenuti. Tabarî spiega che le donne pie «custodiscono ciò che è nascosto» nel senso che hanno cura dei loro mariti quando sono lontani da casa ed è così tra i primi portavoce di un caposaldo dell’esegesi successiva: la riduzione del ghayb, l’Inaccessibilità, a una più comune assenza, quella occasionale e temporanea dello sposo. La custodia ordinata alle donne diviene custodia di se stesse durante l’assenza del marito. Come insegna l’allievo del grande Ghazâlî (m. 1111) a Baghdad, Ibn al-‘Arabî (m. 1148), nel suo commentario I precetti del Corano, durante l’assenza dello sposo la donna non farà nulla che dispiacerebbe al marito se egli fosse presente e la vedesse.

Nella Tradizione del Profeta l’ubbidienza al marito si qualifica come il caposaldo dell’etica femminile. Secondo un racconto piuttosto noto, una donna si recò dal Profeta in rappresentanza delle altre donne e disse:

«Questa guerra (jihâd) Dio l’ha prescritta agli uomini; se soffriranno saranno ricompensati, se moriranno saranno vivi presso il loro Signore e avranno da lui nutrimento. E noi, una moltitudine di donne, che stiamo di fronte a loro, a noi non toccherà nulla?» Il Profeta rispose: «Riferisci a tutte le donne che incontrerai che ubbidire al marito e riconoscere i suoi diritti vale altrettanto presso Dio; ma ben poche di voi lo fanno»

Nel contempo, la Tradizione introduce l’idea del necessario occultamento femminile. Il Profeta avrebbe dichiarato che «tra le donne, la migliore è quella che se la guardi ti si nasconde, se le dai un ordine ti ubbidisce, se sei assente custodisce per tuo conto se stessa e anche il tuo denaro». Esistono molte varianti di questo detto profetico, tese a fare dell’occultamento femminile una parte della religione: «Non c’è nulla di meglio per l’uomo, dopo la fede in Dio, di una donna di buon carattere, che gli si nasconde quando egli la guarda […]; non c’è nulla di meglio per il musulmano, dopo l’Islam, della donna bella che gli si nasconde quando egli la guarda, che ubbidisce ai suoi ordini, e che, quando egli è assente, ha cura del denaro di lui e anche di se stessa». «La donna deve mostrarsi sempre piena di pudore di fronte al marito – insegna il damasceno Dhahabî (m. 1348) – e abbassare lo sguardo davanti a lui. Deve ubbidire ai suoi ordini, stare in silenzio quando egli parla, alzarsi in piedi quando giunge, evitare tutto ciò che lo irrita, essere a sua disposizione durante il sonno, non tradire la sua fiducia quand’è assente, non nel letto né nel denaro né nella casa, adornarsi in sua presenza e non farlo in sua assenza, onorare la sua famiglia e i suoi parenti e considerare molto ogni poco che viene da lui».

Ancora Dhahabî ricorda che mostrare gli ornamenti da sotto il velo, profumarsi per uscire di casa, indossare panni drappeggiati sui fianchi alla maniera beduina è un comportamento che Dio aborrisce: non occultarsi, particolarmente nell’abbigliamento, è cosa assai disdicevole per la donna. 

L’accostamento delle donne a Dio già rilevato a proposito del ghayb – «custodiscono ciò che è nascosto» Corano 4,34 – è più esplicito nel seguito del versetto: «custodiscono […] come custodisce Dio». Secondo queste parole, le donne ripetono o devono ripetere un’azione divina. Ma, da capo, la letteratura di commento traduce il tutto nell’ubbidienza della moglie al marito e infine nell’obbligo di castità al di fuori del matrimonio. La prima domanda che gli esegeti si pongono è: che cosa custodisce Dio? Alcuni, come Râzî, pensano che, trattandosi nella fattispecie di donne, Dio custodisca i diritti delle donne. La questione ha ricadute giuridiche: le donne devono custodire i diritti dei loro mariti come contraccambio dovuto dell’attenzione che Dio presta loro, come doverosa restituzione delle cose buone che il Signore ha decretato a loro favore ordinando ai mariti d’essere equi e di proteggerle. Qualcuno offre la seguente parafrasi: le donne devono custodire i mariti durante l’assenza di questi ultimi, tanto quanto esse custodiscono Dio, tanto quanto Lo temono; questa possibilità di interpretazione si fonda sull’uso idiomatico della lingua araba: “custodire Dio in qualcosa” significa “far conto di Lui a un dato proposito”. Altri autori, come lo hanbalita Ibn Kathîr, limitano la custodia richiesta alle donne alla custodia della loro castità al di fuori del regime coniugale, dunque all’astensione da atti sessuali illeciti (zinâ). A commento della custodia, Ibn Kathîr cita un detto del Profeta:

«Se una donna prega le sue cinque volte [al giorno], se adempie al suo digiuno del mese [di ramadân], se custodisce la sua castità e ubbidisce al marito, le verrà detto: “Entra in Paradiso dalla porta che più ti aggrada”»

Torniamo alla sura delle Donne. Il passo già esaminato e relativo alle credenti era immediatamente preceduto da un’affermazione molto nota e continuamente citata – «gli uomini sono preposti alle donne» [Corano 4,32] – ma spesso senza attenzione al contesto scritturale. Va infatti ricordato che qui la priorità maschile non è generalizzata e metastorica – come quando è detto che le donne «sono create a partire dagli uomini» Corano 30,21 – ma rientra in un discorso squisitamente giuridico, relativo alle quote ereditarie, tema che questa sura affronta fin dai primi versetti. E va ricordato il seguito del passo: «Per ognuno abbiamo stabilito dei parenti ai quali spetta parte dell’eredità dei genitori e dei parenti […]. Gli uomini sono preposti alle donne perché Dio ha prescelto alcuni di voi sugli altri e perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle» [Corano 4,33-34].

La superiorità dell’uomo è innegabilmente dichiarata, ma con rilevanza solo finanziaria, e per di più offrendo la motivazione razionale del precetto: «perché essi donano parte dei loro beni per mantenerle». Interessante è notare che questa motivazione è secondaria alla volontà di Dio – «Dio ha prescelto alcuni esseri sugli altri» – e così, per l’ennesima volta nel Corano, la ragione umana con i suoi frutti si trova subordinata alla divina libertà di scelta.

Procediamo nella lettura della sura delle Donne: «Quanto a quelle di cui temete atti di disobbedienza ammonitele, poi lasciatele sole nei loro letti e poi battetele, ma se vi ubbidiranno non cercherete pretesti per maltrattarle, Dio è grande e sublime» [Corano 4,34]. I commentatori in coro insistono sulla gradualità delle ritorsioni; le percosse sono estrema ratio e, nel caso si rivelino necessarie, i colpi saranno leggeri. Inoltre spiegano che la disubbidienza femminile in questione, definita dal Libro nushûz, cioè supponenza o alterigia, è in particolare la renitenza alle relazioni sessuali, che la sura della Vacca prescrive all’uomo come lecite in qualsivoglia modo entro un’unione legittima [cfr. Corano 2,223]. La disubbidienza di tipo nushûz è comunque ventilata anche in riferimento all’uomo, sempre nella sura delle Donne, con il senso finale di ripudio: «Se una donna teme allontanamento (nushûz) o avversione da parte di suo marito, non sarà male per loro che si mettano d’accordo in pace, poiché la pace è bene» [Corano 4,128].

Il già ricordato studioso di Tradizione profetica, Dhahabî, insegna che è un dovere per la donna non rifiutare il marito quand’egli la desidera. Il Profeta avrebbe infatti affermato più volte che ciò comporta il biasimo degli angeli e che, «se il marito invita la moglie nel proprio letto, lei ci deve andare anche se il letto fosse sopra un braciere». Lo stesso autore insegna poi che la moglie non dovrà vantarsi della propria bellezza né disprezzare il marito per la sua bruttezza se è brutto. E riporta un fatto accaduto al celebre filologo di Bassora Asmâ‘î (m. 828) in uno dei suoi viaggi di studio tra i beduini:

«Giunsi nel deserto e incontrai una donna bella con un marito brutto. Le chiesi: “Come puoi rassegnarti a stare sotto un uomo come questo?” Rispose: “I casi sono due: o lui è ubbidiente con Chi lo ha creato, e io sono la sua ricompensa, oppure io ho peccato, e lui è la mia punizione”»

Per converso, giacché alla donna è ordinato di ubbidire a suo marito, Dhahabî ricorda al marito di agire bene con la moglie e sopportare con pazienza il suo eventuale cattivo carattere, perché Dio ha detto «trattatele con gentilezza» [Corano 4,19]; e il Profeta avrebbe dichiarato che «voi avete un diritto sulle vostre donne e le vostre donne un diritto su di voi» e che «il migliore di voi è chi è migliore con la sua famiglia».

La superiorità degli uomini è affermata in un altro noto passo coranico: «Le donne si comportino come ci si comporta con loro, come si conviene; ma gli uomini sono un gradino sopra di loro, Dio è potente e saggio» [Corano 2,228]. La reciprocità nel comportamento di uomini e donne è spesso intesa dai commentatori musulmani come un rendersi piacevoli a vicenda; il Profeta avrebbe infatti gradito la donna che si adornava per lui tanto quanto egli stesso gradiva adornarsi per una donna. Oppure come un allietarsi a vicenda, particolarmente sotto il profilo sessuale. Ma nel Corano l’ambito è piuttosto, e nuovamente, giuridico, il contesto puntuale è quello del ripudio (talâq): una volta che il divorzio sia ratificato, la donna dovrà attendere tre periodi mestruali prima di risposarsi, nell’eventualità di una gravidanza.

La superiorità dell’uomo sembra dunque riferirsi al minor tempo richiesto all’uomo in vista di un nuovo matrimonio; tuttavia, a monte, essa è evidentemente sottintesa dal divorzio unilaterale (cfr. per questo Corano 65,1-2).

 

Maggiore Capacità Giuridica

In ogni caso, l’esegesi si adopera per definire la superiorità maschile con dovizia di particolari. Secondo Tabarî, il «gradino sopra di loro» riguarda l’eredità, maggiore nel caso di un uomo, o il jihâd in senso bellico, cui solo gli uomini sono chiamati, o il potere e la signoria, o il dono nuziale che spetta solo agli uomini; richiama perfino la barba che all’uomo è concessa e alla donna no. Ma, soprattutto, il «gradino» è l’adempimento da parte dell’uomo di tutti i suoi doveri nei confronti della moglie e l’indulgenza con lei, e vuol dire che l’Altissimo obbliga l’uomo a portare pazienza e a rispettare tutti i diritti della donna. In queste antiche proposte la superiorità maschile, sempre enfatizzata, si traduce per lo più nella maggiore capacità giuridica, maggior numero dei diritti ma anche degli obblighi legali.

Così sarà anche in seguito, però la spinta verso la subordinazione femminile avrà efficacia via via maggiore. Ad esempio l’iranico Tabarsî (m. 1154), di fede sciita, nel Compendio delle dichiarazioni insiste sull’incomparabilità dei diritti di uomini e donne, maggiori quelli degli uomini e maggiori di molto; e riferisce di una donna che aveva domandato al Profeta se i suoi diritti nei confronti del marito fossero pari a quelli di lui nei confronti di lei: «No e poi no, sono cento contro uno!» – aveva risposto Muhammad. Anche Qurtubî si esprimerà, come altri, nel senso di una spiccata servitù della donna, e ricorderà a sua volta un detto profetico continuamente citato: «Se dovessi ordinare a qualcuno di prosternarsi ad altri che a Dio, ordinerei alla donna di prosternarsi di fronte a suo marito». Ma aggiunge che l’uomo ha l’obbligo di essere generoso con la donna, nel denaro come nei modi e nell’indole.

Soprattutto la forza come prerogativa dell’uomo è invece rilevata dal grande Râzî, che non dimentica la simpatia e la solidarietà tra generi in vista di quel vicendevole riposo su cui il Corano si sofferma. Scrive che la donna sta nelle mani dell’uomo come un prigioniero che non sa far nulla. Ma proprio per questo l’uomo dovrà avere molta cura della donna: proprio perché Dio ha decretato che gli uomini fossero un gradino sopra le donne, essi sono chiamati a rispettare tanto di più i diritti delle donne; Dio li mette in guardia affinché non arrechino danno alle loro compagne, perché tanto più si è beneficati da Dio, tanto più grave è l’eventuale colpa commessa. Il comportamento lesivo da parte dell’uomo nei confronti della donna si traduce infine come ingratitudine al creatore per i doni ricevuti, colpa gravissima. L’autore ha ripreso l’idea coranica della superiorità maschile come dono e non fatto dovuto; l’uomo deve ringraziare il Signore, non approfittare della precedenza decretata a suo vantaggio ma farne umilmente buon uso.

«L’intento del brano – continua Râzî – è l’ottenimento del vantaggio comune, spartito tra i due, perché scopo dell’unione tra uomo e donna è la quiete, la confidenza, l’affetto, l’incrocio delle stirpi e la maggiore serenità nella vita. Tutto questo è condiviso da entrambe le parti»

Sulla stessa linea un contemporaneo come Sayyid Qutb (m. 1966), il teorico dell’Islam integrale e politico, nel commentario All’ombra del Corano: quel che conta in una donna è prima di tutto la devozione a Dio, devozione interiore che attiene alla reciproca serenità e al mutuo affetto, ma innanzitutto alla cura, al riparo, beneficio spartito da entrambe le parti dell’essere umano unico che Dio creò all’inizio, perché Dio ha voluto onorare l’uomo facendolo in due parti. Musulmana è colei che custodisce, in assenza del marito e di più in sua presenza, l’inviolabilità del santo legame coniugale. La posizione dei due autori, evidentemente, non rispecchia la mentalità di tutti; nondimeno testimonia una continuità: l’istanza coranica sulla reciprocità, il contraccambio e il vicendevole conforto quali cardini della relazione tra uomo e donna non è andata – né deve andare – perduta.

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
 

[1] Riprendo qui  La creazione della donna  e il suo ruolo  nella tradizione  islamica, in G. Filoramo  (a cura di), Le religioni  e il mondo moderno, vol. IV (Nuove tematiche  e prospettive), Einaudi,  Torino 2009, 341-373.

[2]  La traduzione dei passi coranici è di chi scrive, in corso di stampa  per l’editore Mondadori.  

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Ida Zilio-Grandi, Percorsi del femminile nella tradizione musulmana, «Oasis», anno VI, n. 11, giugno 2010, pp. 91-96.

 

Riferimento al formato digitale:

Ida Zilio-Grandi, Percorsi del femminile nella tradizione musulmana, «Oasis» [online], pubblicato il 1 giugno 2010, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/donna-nella-tradizione-musulmana.

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