Viaggio dentro alla crisi dell'autorità nel mondo sunnita contemporaneo
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 10:12:58
Questo articolo è l'introduzione a L’usura della sharī‘a
La sfortuna di al-Juwaynī è di aver avuto come discepolo il grande al-Ghazālī. E tuttavia l’imam al-Haramayn – questo il titolo con cui è noto – è un pensatore di notevole originalità, anche se dallo stile spesso contorto. Nato a Nishapur in Persia nel 1028, divise i propri interessi tra diritto e teologia dialettica, seguendo nel primo campo la scuola giuridica shafi‘ita e nel secondo quella ash‘arita, che si andava affermando come espressione dell’ortodossia sunnita. Molto apprezzato dal potente visir selgiuchide Nizām al-Mulk, campione appunto del sunnismo, fu incaricato di dirigere un’importante madrasa nella sua città natale, ove morì nell’agosto del 1085.
Proprio a Nizām al-Mulk è dedicato il Ghiyāthī, l’opera da cui sono tratte le pagine che seguono. Il tema è quello dell’organizzazione del potere nella comunità islamica e nella prima sezione al-Juwaynī, dopo aver criticato la posizione sciita, presenta le funzioni dell’imam-califfo nella visione sunnita, ricalcando in gran parte le tracce dei giuristi del suo tempo, primo fra tutti al-Māwardī (m. 1058)[1].
Un “imamato di usurpazione”
Tuttavia, a differenza di al-Māwardī, il nostro autore non si arresta al quadro teorico e largamente idealizzato del ruolo del califfo che era abituale in queste opere, ma comincia a domandarsi che cosa succederebbe se iniziassero a saltare alcune delle qualificazioni richieste per la guida della comunità musulmana, a cominciare dalla discendenza dalla tribù di Muhammad, i Quraysh. L’autore discute così la possibilità di un “imamato di usurpazione”, cioè del caso in cui un candidato forte, ma privo delle qualifiche richieste, s’impadronisca del potere. Non si tratta di una supposizione di scuola, ma della concreta situazione del suo tempo, in cui l’impero abbaside si trova di fatto sotto la tutela di Nizām al-Mulk e dei sultani selgiuchidi.
Alla fine della seconda sezione l’autore si spinge ancora oltre e inizia a immaginare un’epoca in cui non si riesca più a nominare né un califfo né sultano. In questo caso, conclude al-Juwaynī, il potere dovrebbe andare agli ulema. L’affermazione, come ha mostrato recentemente Sohaira Siddiqui[2], è di estrema importanza perché segnala il passaggio, nell’ultima parte dell’opera, da una riflessione incentrata sulla figura del governante a una visione che mette in primo piano la comunità dei credenti, secondo le linee che saranno sviluppate da Ibn Taymiyya nel XIV secolo. Nel momento in cui si estingue il califfato, anche nella forma di un califfo-fantoccio controllato da un usurpatore, l’autorità torna dunque ai “portatori della sharī‘a”, termine con cui l’autore intende prima di tutto i grandi dottori della Legge.
Ma non è finita qui. Nella terza sezione l’infaticabile giurista-teologo si domanda ancora che cosa accadrebbe se anche i “portatori della sharī‘a” venissero a mancare, ipotizzando, con il gusto per le suddivisioni che lo caratterizza, quattro casi di crescente gravità. Prima scompaiono i “giuristi indipendenti”, capaci di derivare autonomamente nuove norme dalla Legge, poi anche gli studiosi che si limitano ad applicare le dottrine delle diverse scuole giuridiche, quindi si perde la conoscenza dei dettagli della Legge ma restano note almeno le sue linee generali. A questo punto al-Juwaynī si arresta, quasi sull’orlo dell’abisso, ed esamina che cosa resterebbe in piedi dell’ordine islamico: essenzialmente, le norme rituali e il diritto di famiglia, mentre andrebbe perduta l’intera dimensione socio-politica.
Un Islam senza sharī‘a
Non pago, al-Juwaynī getta ancora più in là lo sguardo e discute l’ultimo caso, quello in cui la conoscenza della sharī‘a scompaia totalmente dal mondo. Si tratta di un’ipotesi plausibile? Anche se molti ulema avevano risposto di no, al-Juwaynī non si sente di escluderla a priori perché ogni realtà naturale ha un inizio e una fine. La esemplifica con il caso degli abitanti di un’isola che abbiano ricevuto solo un vago annuncio religioso, senza incontrare dei veri ulema. In un caso del genere – conclude l’autore – dell’Islam resterebbe soltanto la professione monoteista e la profezia, senza più Legge, senza sharī‘a.
In termini puramente negativi e attraverso un accumulo di sottrazioni, al-Juwaynī è dunque arrivato molto vicino a teorizzare quella che in ambito cattolico si chiamerebbe la legittima autonomia delle realtà temporali. Che cosa gli manca per volgerla al positivo? La convinzione che, accanto alla Legge divina rivelata, esista una legge naturale: lo avevano sostenuto con forza i mu‘taziliti, una delle più importanti scuole teologiche dei primi secoli dell’Islam. Gli ash‘ariti però, al-Juwaynī compreso, avevano replicato che bene e male non esistevano in sé, ma solo in relazione alla Legge.
E oggi? L’ipotesi descritta in queste pagine si è in gran parte avverata. Il mondo islamico non ha più un califfo né un governo unitario da parte di un “imam d’usurpazione” o sultano che dir si voglia. Il giurista indipendente, capace di dedurre nuove norme, si è estinto e così pure, in gran parte, la tradizione delle scuole giuridiche. E proprio come previsto dall’autore, della sharī‘a sono rimasti vivi soprattutto i precetti cultuali e le norme del diritto di famiglia. L’alternativa è chiara: o cercare di risuscitare dei giuristi indipendenti oppure riconoscere l’autonomia delle realtà temporali, non più però come un dato puramente negativo, legato alla “usura della sharī‘a”, ma come uno sviluppo storico consapevolmente assunto. Con il suo argomentare ipotetico, al-Juwaynī, senza averne minimamente l’aria, ci ha condotti fin dentro la crisi dell’autorità nel mondo sunnita contemporaneo.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Il passo sui dieci obblighi del califfo è stato tradotto in «Oasis» 20 (2014), pp. 81-82.
[2] Sohaira Siddiqui, Power vs. Authority: Al-Juwaynī’s Intervention in Pragmatic Political Thought, «Journal of Islamic Studies» 28 (2017), pp. 193-220.