Una guida ai fatti della settimana in Medio Oriente e nel mondo musulmano attraverso la stampa internazionale e quella araba
Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 15:15:43
Il primo ministro dell’Etiopia Abiy Ahmed ha dichiarato martedì lo stato di emergenza in seguito all’avanzata dei ribelli del Fronte di Liberazione Popolare del Tigrè (TPLF), che si trovano ora a circa 400 chilometri da Addis Abeba, ma non escludono di marciare sulla capitale. Dopo l’avanzata delle forze tigrine nella regione di Afar e Amhara, Ahmed ha invitato i cittadini etiopi a imbracciare le armi per fermare l’avanzata ribelle. Secondo William Davison, esperto dell’International Crisis Group, è da luglio che le forze del TPLF proseguono la loro avanzata, mentre al contrario le forze federali hanno il morale sotto le scarpe. Per cercare di fermare l’offensiva tigrina il governo centrale ha iniziato a bombardare obiettivi nel Tigrè, scrive Colm Quinn su Foreign Policy. Ma i risultati sono controproducenti (oltreché umanamente deprecabili), come ha purtroppo dimostrato l’uccisione di 10 civili in un bombardamento documentato dall’Associated Press a fine ottobre.
L’invasione della capitale non sembra imminente, ma questo non rende la situazione meno grave. Infatti, come ha giustamente sottolineato Foreign Policy, le conquiste tigrine (lo avevamo spiegato anche in precedenti puntate del focus) hanno altre, non meno importanti, conseguenze: ora le Forze di Difesa del Tigrè (TDF) controllano la principale via commerciale che collega l’Etiopia (che non ha sbocchi sul mare) al porto di Gibuti. Questo permette alle forze di Macallè sia di strangolare Addis Abeba bloccandone i rifornimenti, sia – al contrario – di aprire la strada agli aiuti umanitari di cui il Tigrè ha disperato bisogno (e che Addis Abeba bloccava).
L’instabilità prolungata, il senso di pericolo e l’incapacità di arrestare l’avanzata del TPLF (che nel frattempo si è alleato con l’esercito di liberazione oromo) mettono in dubbio la tenuta di Abiy Ahmed. Come ha infatti notato Stratfor, gli alleati del premier potrebbero iniziare a vedere in lui un peso. Se cadesse il governo Ahmed «le sue riforme economiche sarebbero messe in discussione». L’eventualità, seppur non all’ordine del giorno, esiste, e lo certifica la dichiarazione del portavoce del TPLF, che si è detto disponibile a entrare un governo ad interim.
Nel frattempo, gli attori in gioco si accusano vicendevolmente di aver commesso svariate atrocità. Mercoledì sono stati pubblicati i risultati di un’indagine sui crimini di guerra coordinata dalle Nazioni Unite e dalla Commissione per i Diritti Umani Etiope (ente governativo), che hanno evidenziato misfatti compiuti da entrambe le parti. Ma come scrive l’Associated Press, l’inchiesta è stata ostacolata dal governo etiope. Sul punto converge anche The Africa Report, che sottolinea come nello svolgimento dei lavori non siano state visitate località chiave dei massacri nel Tigrè, Axum su tutti. Secondo Addis Abeba, anche l’avanzata del TPLF è macchiata dall’esecuzione sommaria di «più di 100» giovani nella città di Kombolcha.
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La preoccupazione per l’implosione del gigante etiope, con i suoi 120 milioni di abitanti, è tanta. A livello regionale e internazionale si moltiplicano gli appelli al cessate-il-fuoco, tra i quali si segnalano quelli di Washington (tramite l’inviato speciale Jeffrey Feltman) e Nairobi. Uhuru Kenyatta, presidente kenyota, ha definito «particolarmente allarmante» la mancanza di dialogo tra le fazioni in conflitto. In effetti, stando alla ricostruzione fatta da Cara Anna per l’Associated Press, nonostante Feltman abbia sottolineato quante opportunità di dialogo possano crearsi, «Abiy non vuole parlare». Una posizione confermata anche dal fatto che il premier etiope ha invitato i cittadini etiopi tramite un post su Facebook a seppellire utilizzando ogni arma possibile i ribelli tigrini. Facebook – pardon, Meta – ha oscurato il post.
L’odio su base etnica è ormai diffuso in Etiopia, e questo pone un grosso interrogativo sulla tenuta del Paese. Lo dimostra anche un articolo di Le Monde, che parla di una serie di retate ad Addis Abeba contro persone di etnia tigrina, accusate da vicini e amici di essere delle spie.
In questa situazione, Der Spiegel si è soffermato sulla figura di Abiy Ahmed, un tempo visto come un elemento di speranza per l’Etiopia, ma oramai «sempre più riluttante ad ascoltare i consigli, che crede nel misticismo, è ossessionato dal potere, pensa di essere stato scelto da Dio. E che vede nel premio Nobel [ricevuto] una specie di carta bianca» per fare ciò che crede.
“I Talebani portano stabilità”. Fine del mito
L’Isis torna a colpire in Afghanistan. Questa volta l’obiettivo dei terroristi della branca afghana dello Stato Islamico è stato l’ospedale militare di Kabul, bersaglio di due attentatori suicidi e di un assalto con armi da fuoco, rivendicato dallo Stato Islamico tramite la sua “agenzia” Amaq. Secondo il Washington Post, nell’attacco sono morte più di 20 persone. L’ennesimo attentato testimonia quante difficoltà incontri il nuovo Emirato islamico nel mantenere l’ordine e la sicurezza nel Paese, un elemento chiave sia per la legittimità dei Talebani che per poter attrarre gli investimenti di cui l’Afghanistan ha disperato bisogno. Non a caso il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid ha diramato un comunicato in cui parla solamente di sette decessi tra i civili e tre tra gli assalitori, come a voler sminuire la capacità di Isis-K di arrecare danno all’Afghanistan. Bilal Karimi, il vice di Mujahid, ha al contrario affermato che «in generale la situazione della sicurezza in Afghanistan sta migliorando».
Tuttavia, ribatte in un’analisi su The Indian Express Anju Gupta, analista indiana legata al governo di New Delhi, «gli attentati hanno frantumato il mito secondo cui il governo talebano avrebbe garantito pace e sicurezza». Secondo Gupta poi, i «Talebani 2.0», la fazione che ha siglato gli accordi di Doha, hanno ceduto il passo ai «Talebani 3.0», guidati dal network Haqqani e – qui si intuisce anche la vicinanza di Gupta al governo indiano – completamente eterodiretti da Islamabad.
L’aspetto interessante è però che questo passaggio dai Talebani 2.0 a quelli 3.0 è colto anche da Colin Clarke e Abdul Sayed su Foreign Policy. «Con Sirajuddin [Haqqani] in una posizione di leadership, i Talebani diventeranno inevitabilmente più radicali nel corso del tempo, eliminando ogni speranza [che esistano dei] “Talebani gentili”», anche a causa del legame tra Sirajuddin e al-Qaeda, che rimane molto saldo. Ma non solo: seppur solamente a livello individuale e non organizzativo, non mancano – scrivono Clarke e Sayed – i contatti tra figure del network Haqqani e di Isis-K, che inizialmente si è formato proprio nella zona orientale del confine tra Afghanistan e Pakistan in cui è forte la presenza della rete Haqqani. Infine, il ruolo di Sirajuddin eccede quello ufficiale di Ministro dell’Interno che ricopre all’interno del governo talebano: è infatti sempre Sirajuddin a svolgere il ruolo di mediatore tra i Talebani pakistani e il governo di Islamabad.
Il ruolo degli Haqqani e del Pakistan è uno dei temi trattati da Barnett Rubin, politologo americano che ha partecipato attivamente alle attività diplomatiche in Afghanistan, su War on the Rocks. Rubin conferma che gli Haqqani «sono i Talebani preferiti dal Pakistan», ma soprattutto offre una visione ampia e approfondita delle cause che hanno portato al fallimento dell’impegno americano in Afghanistan. È impossibile riassumerle tutte in poco spazio, ma segnaliamo in particolare: l’inadeguatezza della forma di Stato centralizzato che gli stessi afghani cercavano di portare avanti; la decisione di Donald Rumsfeld nel dicembre 2001 di non negoziare con i Talebani sconfitti; l’impossibilità dopo le operazioni di contro-insorgenza di trasferire il potere a una burocrazia afghana impossibilitata a raggiungere le periferie in un Paese con il più basso tasso di alfabetizzazione del continente; il ruolo degli investimenti cinesi in Pakistan.
Rubin tuttavia non si limita a descrivere il passato, ma giunge a una poco piacevole conclusione: oggi in Afghanistan l’alternativa ai Talebani non sono «Karzai, Abdullah, Saleh o Massoud. È lo Stato Islamico».
Arabia Saudita ed Emirati a zero emissioni entro il 2060. Ma come?
Zero emissioni di CO2 entro il 2050. Nella settimana in cui ha preso il via COP26 a Glasgow è Sultan al Jaber, amministratore delegato della Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC) e inviato speciale per il clima degli Emirati Arabi Uniti a prendere, primo tra i Paesi della regione, questo impegno. Poco dopo l’Arabia Saudita ha fatto una promessa simile, spostando il traguardo di 10 anni. Come ha scritto il New York Times, non sarà facile raggiungere questo obiettivo per un Paese che guida le classifiche sulle emissioni pro capite. Per farlo Abu Dhabi ha programmato di spendere 163 miliardi di dollari nei prossimi 30 anni «per ridurre le emissioni dalle centrali elettriche che ora bruciano enormi quantitativi di gas naturale in parte per raffrescare i palazzi durante [i periodi] di atroce caldo nel Golfo». Secondo John Kerry, inviato speciale per il clima del Governo americano, il caso emiratino «è un esempio per gli altri Paesi produttori». Se da un lato è chiaro che queste iniziative sono in parte motivate da ragioni di immagine, dall’altro segnalano che i grandi Paesi petroliferi sono consapevoli di dover partecipare allo sforzo per ridurre il riscaldamento globale, sostiene il New York Times.
Tuttavia, come ha scritto Reuters, «molti analisti e attivisti affermano che questi impegni non indicano un significativo allontanamento dai carburanti fossili da parte dei giganti energetici del Medio Oriente, che hanno affermato che queste fonti di energia sono cruciali per i prossimi decenni». Lo riferisce anche il Financial Times, che spiega come secondo i Paesi produttori è necessario continuare a esportare petrolio e gas per avere le risorse economiche con le quali finanziare la transizione a fonti di energia meno inquinanti. «Il diavolo è nei dettagli: nessuno di essi (Arabia Saudita ed Emirati) ha rilasciato un percorso dettagliato di come arrivare a zero emissioni […]. Perciò è molto difficile sapere se hanno sviluppato piani credibili», ha affermato Li-Chen Sim, del Middle East Institute.
Rassegna della stampa araba, a cura di Chiara Pellegrino
Un vertice di Glasgow in Libano, per abbassare la temperatura dello scontro politico
Uno dei grandi temi che questa settimana ha occupato le prime pagine di molti quotidiani arabi è la crisi tra il Libano e l’Arabia Saudita, scoppiata a seguito di alcune dichiarazioni del ministro dell’Informazione libanese, George Kordahi, in un’intervista rilasciata a fine agosto (quando non era ancora ministro) e diffusa a fine ottobre. Kordahi ha toccato la spinosa questione dell’ormai quasi decennale guerra in Yemen guidata dall’Arabia Saudita, simpatizzando per gli houthi, gruppo armato sciita sostenuto dall’Iran. Le sue dichiarazioni non sono piaciute al governo saudita, che ha rotto le relazioni con il Libano e richiamato il suo ambasciatore a Beirut. Lo stesso hanno fatto poco dopo anche gli Emirati, il Kuwait e il Bahrein. Khoury Rajeh su al-Nahār l’ha definita «una crisi senza precedenti nella storia delle relazioni tra il Libano e gli Stati del Golfo».
Dopo giorni di tensioni, Beirut ha chiesto la mediazione della Francia, degli Stati Uniti, dell’Oman e del Qatar. L’ex ministro libanese Sejean Azzi, sempre su al-Nahār ha commentato in maniera sarcastica che il Libano chiede l’aiuto esterno per mediare con «gli Stati del Golfo arabi, fratelli e amici», mentre non ha bisogno di alcuna mediazione per interagire con la Siria e l’Iran, con cui ha stretto una pericolosa amicizia che ha condannato il Paese alla più totale emarginazione. Che cosa fare per calmare le acque? Secondo Azzi bisogna a) dichiarare il Libano neutrale rispetto a tutti i conflitti della regione; b) chiudere tutti i valichi illegali tra il Libano e la Siria per impedire il contrabbando; c) istituire un processo serio alle bande accusate di contrabbandare merci illegali in Arabia Saudita. L’ex ministro ha concluso in maniera ironica invocando un vertice di Glasgow in Libano, per abbassare la temperatura del dibattito politico libanese.
Nelle ultime ore la crisi ha assunto una dimensione anche economica perché l’Arabia Saudita ha deciso di chiudere le proprie frontiere alle esportazioni libanesi. Un problema non da poco, come ha spiegato ad al-Arabī al-Jadīd Raouf Abu Zaki, presidente della camera di commercio libanese-saudita, secondo il quale «il Libano è quasi completamente isolato dai mercati del Golfo, che costituiscono il suo polmone economico, soprattutto in termini di esportazioni». Nel 2020, infatti, il Libano ha esportato nel Golfo merci per un valore di circa un miliardo di dollari, di cui 220 milioni solo in Arabia Saudita. Il blocco delle esportazioni avrà perciò molte ripercussioni non solo sull’agricoltura, l’industria e l’artigianato libanese, ma anche sui negoziati con il Fondo Monetario Internazionale e sul tasso di cambio del dollaro, destinato a salire ulteriormente.
Al-Sharq al-Awsat, quotidiano di proprietà saudita, ha preso evidentemente le parti del gigante del Golfo, imputando la crisi a Hezbollah, che continua a esercitare la sua egemonia sul Libano e cerca di «trasformarlo in una punta di diamante del piano del grande Iran contro la regione». Le ritorsioni economiche dell’Arabia Saudita, ha concluso il giornalista libanese Hanna Saleh, faranno cadere ulteriormente il Paese nella morsa iraniana.
Su Asas Media, l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid ha esortato il ministro Kordahi a rassegnare le dimissioni, accusandolo, questa volta su al-Sharq al-Awsat, di agire con il sostegno del «partito armato», cioè di Hezbollah.
Un’interpretazione completamente diversa della vicenda è data dal quotidiano filo-Hezbollah al-Akhbār, per il quale il Libano se l’è cercata. Limitando i suoi rapporti commerciali con alcuni Paesi e rifiutandosi di aprirsi a nuovi mercati, in riferimento evidentemente all’Iran, il Libano si sarebbe reso ricattabile dal Golfo. Il vicesegretario di Hezbollah, Naim Qassem, ha preso ufficialmente posizione contro l’Arabia Saudita, esortandola a scusarsi per aver commesso «un atto di aggressione ingiustificata» contro il Libano.
L’Algeria sul piede di guerra contro il Marocco
Nel frattempo, nel Maghreb è scoppiata l’ennesima crisi tra l’Algeria e il Marocco. Lunedì, Algeri ha accusato Rabat di essere responsabile dell’uccisione di tre camionisti algerini che si trovavano alla guida dei loro mezzi nel Sahara Occidentale. Il governo algerino ha parlato di «terrorismo di Stato» e promesso una «punizione», mentre per ora il Marocco ha mantenuto un profilo basso. La stampa marocchina infatti ha serbato il silenzio sull’accaduto mentre i media algerini si sono mostrati molto agguerriti. Il quotidiano al-Masā’ ha titolato «L’assassinio non resterà impunito» e ha accusato il Marocco di aver voluto attaccare deliberatamente l’Algeria proprio nel giorno in cui il Paese celebrava il sessantasettesimo anniversario della Rivoluzione. Al-Shurūq ha raccontato con toni abbastanza militanti le storie di vita dei tre algerini morti in quello che ha definito un «vile attentato» che «accende il fuoco del conflitto».
I quotidiani panarabi hanno invece osservato gli eventi in maniera più distaccata e si sono concentrati soprattutto sul futuro dei rapporti tra i due Paesi coinvolti. Su al-‘Arabī al-Jadīd, la giornalista Joumana Farhat ha scritto di non vedere alcuna soluzione all’orizzonte per risolvere in maniera pacifica questo conflitto che si protrae da decenni, perché nessuno dei due Paesi sembra motivato a perseguire una reale politica del cambiamento.
Il quotidiano londinese al-Quds al-‘Arabī teme un’escalation militare tra i due Paesi qualora il Marocco decidesse di abbandonare la «diplomazia di contenimento» e ha lasciato presagire una «catastrofe» dai rischi imprevedibili, con possibili ripercussioni diplomatiche e politiche in tutta l’area del Nord Africa e del Medio Oriente. Secondo al-Quds al-‘Arabī, inoltre, il fatto che l’Algeria abbia alzato molto i toni soprattutto nell’ultimo anno riflette la necessità del presidente ‘Abdel Majid Tebboune di rafforzare il suo governo. Parlare del conflitto con il Marocco sarebbe un modo per distogliere l’attenzione degli algerini dai problemi del Paese.
In breve
L’Egitto, la Giordania e gli Emirati stanno moltiplicando i loro sforzi per riportare la Siria nella sfera d’influenza araba, nel tentativo di sottrare il Paese all’influenza turca (al-Monitor).
La Tunisia ha emesso un mandato d’arresto internazionale contro l’ex presidente Moncef Marzouki dopo che quest’ultimo ha invitato la Francia a non sostenere il governo di Kais Saied (al-Jazeera).
È il 29 novembre la data fissata per la ripresa dei negoziati sul nucleare iraniano (Financial Times).
L’azienda israeliana NSO Group, sviluppatrice del controverso software Pegasus, è stata inserita dagli Stati Uniti nella blacklist delle aziende con cui non è permesso fare business (BBC News).
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