Nel suo Energy Kingdoms: Oil and Political Survival in the Persian Gulf Jim Krane analizza l’impatto politico ed economico che la scoperta di gas e petrolio ha avuto sugli Stati del Golfo, permettendone lo sviluppo, la modernizzazione e il boom economico
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:02:42
Jim Krane, Energy Kingdoms: Oil and Political Survival in the Persian Gulf, Columbia University Press, New York 2019
Nel suo Energy Kingdoms: Oil and Political Survival in the Persian Gulf Jim Krane analizza l’impatto politico ed economico che la scoperta di gas e petrolio ha avuto sugli Stati del Golfo, permettendone lo sviluppo, la modernizzazione e il boom economico. Tra gli esempi che permettono di comprendere la portata e la rapidità delle trasformazioni avvenute in questi Paesi spicca l’Oman, dove ancora nel 1970 l’istruzione – esclusa quella religiosa – era garantita da tre sole scuole per 700.000 abitanti.
Ma ancor più eclatante è la storia di Mohammed Alabbar, il magnate emiratino dell’immobiliare che nell’arco di alcuni decenni è passato dall’infanzia trascorsa sotto un tetto di palme intrecciate alla costruzione del Burj Khalifa di Dubai (attualmente il più alto grattacielo al mondo), così imponente da richiedere una stazione elettrica interna al centocinquantesimo piano. Il problema evidenziato dall’autore, e annunciato dal sottotitolo del volume, è che le stesse politiche che hanno portato fuori dalla povertà gran parte degli abitanti della regione, minacciano oggi la sopravvivenza delle petromonarchie.
È a questo punto che si apre la riflessione politica di Krane, il quale per anni si è occupato di Golfo come giornalista e ora è ricercatore al Baker Institute della Rice University di Houston. Secondo le teorie della modernizzazione, il rapido passaggio dall’estrema povertà all’estrema ricchezza avrebbe dovuto causare la fine del dispotismo degli sceicchi. Al contrario, con la possibile eccezione del Kuwait, lo sviluppo economico ha reso le monarchie del Golfo «più autocratiche, non meno» (p. 56).
Quest’esito imprevisto è stato spiegato dalla teoria dei rentier states di Luciani e Beblawi: dopo il picco del prezzo del petrolio verificatosi nel 1973 i regnanti hanno comprato la fedeltà dei cittadini, eliminando quasi ogni forma di tassazione e distribuendo sussidi alla popolazione. Secondo Luciani e Beblawi, le petromonarchie sono economie allocative: lo Stato offre servizi ai cittadini non in forza delle tasse che riscuote, ma grazie alla rendita da idrocarburi. S’istituisce così un contratto sociale che prevede lo scambio tra fornitura di welfare e sostegno politico, eliminando allo stesso tempo il prelievo fiscale, che creerebbe un pericoloso (per lo Stato) accountability link.
A 30 anni dalla formulazione di questa teoria, Krane si propone di verificarne la tenuta. Se da un lato essa mantiene un grande potere esplicativo, dall’altro ha un fondamentale difetto: i sussidi in ambito energetico portano la domanda interna di energia a un livello talmente esagerato da mettere a rischio la capacità stessa di esportare petrolio, e dunque beneficiare della rendita. In effetti, mostra Krane, nei Paesi del Golfo si è verificato un processo che non ha eguali nel mondo: i price signals sono stati neutralizzati dai sussidi e così, non cogliendo il valore economico della materia prima, la domanda interna ha continuato a crescere. Bastano alcuni numeri per capire questa tendenza: la porzione di produzione energetica assorbita dal mercato interno dei Paesi del Golfo è passata dal 4% del 1973 al 25% odierno, mentre una famiglia kuwaitiana consuma in media 36 volte l’energia utilizzata da una famiglia tedesca.
Il tema è particolarmente delicato per l’Arabia Saudita, che spende il 9,5% del suo Pil in sussidi. Peraltro, se Riyad perdesse la sua spare capacity, verrebbe meno anche la disponibilità statunitense a garantire la sicurezza del suo alleato. A ciò si aggiunge la preoccupazione ambientale: più consumi di idrocarburi significa più emissioni di gas serra, con l’effetto di rendere una politica interna dei Paesi del Golfo un problema globale.
Benché un consumo interno così elevato metta a rischio la capacità di esportazione dei Paesi produttori, il dato passa sostanzialmente inosservato fino al 2008, quando l’International Energy Agency segnala il pericolo insito in questo meccanismo. Ma le incognite, sottolinea Krane, non sono solo economiche. Infatti, il circolo vizioso innescato dai sussidi finisce per erodere anche l’autorità dei regnanti, facendo diminuire la rendita petrolifera e dunque la capacità di erogare servizi.
Gli effetti dannosi dei sussidi sono dunque chiari, così come chiaro è il percorso da intraprendere: eliminarli o almeno riformarli drasticamente. Il problema è che la teoria rentier li ritiene una componente essenziale del contratto sociale: se venissero aboliti, salterebbe lo schema che regola i rapporti tra Stato e sudditi, generando instabilità. Tuttavia Krane dimostra, attraverso alcuni esempi come Dubai, Iran e Arabia Saudita, che il sistema dei sussidi è riformabile senza che questo faccia saltare il contratto sociale o induca richieste di partecipazione democratica. Occorre dunque concludere che la teoria dei rentier state è sbagliata? No, secondo Krane il punto è che nel tempo si è sviluppata una nuova consapevolezza del prezzo dell’energia. Oggi «gli effetti dannosi dei sussidi sulla domanda prevalgono sui loro benefici per la legittimazione politica. Allo stesso tempo nuove circostanze hanno fornito una copertura politica per le riforme» (p. 150).
Gli effetti collaterali del consumo interno di energia, i problemi fiscali generati dal calo dei prezzi del petrolio, la pressione internazionale per la diminuzione delle emissioni di gas serra, il cambio generazionale nelle leadership nel Golfo e le potenziate capacità repressive dei regimi sono tutti fattori che rendono fattibile una riforma dei sussidi. Ma è soprattutto la minaccia di instabilità rappresentata dall’Isis e dai movimenti islamisti a rinsaldare i legami tra sudditi e famiglie regnanti, creando – sostiene Krane – uno spazio politico per l’attuazione di riforme. I sussidi, e in questo consiste l’aggiornamento della teoria rentier, non vengono percepiti dai loro beneficiari come diritti acquisiti, ma come «customary privileges» (p. 154) cedibili in cambio non di partecipazione democratica ma di un bene collettivo particolarmente prezioso: la sicurezza. Il percorso è lungo, ma non impraticabile secondo Krane. Su di esso pesano però due enormi incognite, trattate nel finale del volume: le conseguenze delle politiche di decarbonizzazione sulla domanda globale di petrolio e i cambiamenti climatici, che proprio nel Golfo potrebbero mietere le loro prime vittime.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Claudio Fontana, Gli effetti collaterali della manna petrolifera, «Oasis», anno XVI, n. 31, dicembre 2020, pp. 150-152.
Riferimento al formato digitale:
Claudio Fontana, Gli effetti collaterali della manna petrolifera, «Oasis» [online], pubblicato il 10 dicembre 2020, URL: /it/gli-effetti-collaterali-della-manna-petrolifera