Nonostante le piccole dimensioni e la scarsa consistenza demografica, in pochi decenni la Federazione guidata da Abu Dhabi e Dubai ha saputo ritagliarsi un ruolo geopolitico di primo piano

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:58:02

Recensione di Kristian Coates Ulrichsen, The United Arab Emirates. Power, Politics and Policy Making, Routledge, Abindon Oxon-New York 2017

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Una delle dinamiche più rilevanti della storia contemporanea del Medio Oriente è lo spostamento del baricentro geopolitico di quest’ultimo dal Mediterraneo e dal Levante arabo al Golfo persico. Connesso con l’ascesa dei Paesi esportatori di idrocarburi, questo processo è stato accelerato dalle rivolte arabe del 2011, che, se hanno per lo più fallito l’obiettivo della democratizzazione, hanno dato avvio a una profonda riconfigurazione degli equilibri regionali. Di conseguenza si è molto accresciuto l’interesse per questo spazio geografico, fino a poco tempo fa trascurato sia dal mondo accademico che da quello mediatico. L’attenzione degli osservatori si è tuttavia focalizzata sul gigante dell’area, l’Arabia Saudita, diventata a suon di petrodollari e puritanesimo religioso il Paese egemone del mondo arabo, e forse di quello musulmano. In tempi più recenti è stato evidenziato il protagonismo del Qatar, che grazie ad al-Jazeera e ai suoi legami con i movimenti dell’Islam politico è riuscito a proiettare la propria influenza ben oltre i suoi ristretti confini geografici. Rimane invece sottovalutato il peso assunto dagli Emirati Arabi, un Paese che, nonostante le piccole dimensioni e la scarsa consistenza demografica, in pochi decenni ha saputo ritagliarsi un ruolo di primo piano nello spazio mediorientale. Una lettura fondamentale per capire il percorso che ha portato questa federazione di sette piccoli Stati dalla tutela coloniale alla centralità politica odierna è The United Arab Emirates. Power, Politics and Policy Making. Scritto da Kristian Coates Ulrichsen, oggi uno dei massimi esperti di Paesi del Golfo, il volume analizza i diversi aspetti dell’evoluzione del Paese: la formazione dello Stato, la politica interna, l’economia, le relazioni internazionali e la sicurezza.

 

All’origine della success story emiratina si trova un leader tribale, lo shaykh Zayed bin Sultan Al Nahyan, di cui nel 2018 si è celebrato il centenario dalla nascita. È lui, che, succedendo nel 1966 al più cauto fratello Shakhbut alla guida di Abu Dhabi, con un’abile e lungimirante gestione della rendita petrolifera innesca il vertiginoso sviluppo dell’emirato. E, quando nel 1968 i britannici annunciano inaspettatamente il loro ritiro da tutte le postazioni a Est del canale di Suez, è ancora lui a intuire che i piccoli sceiccati noti fino a quel momento come “Stati della tregua” avrebbero avuto un futuro soltanto in un’entità politica più grande. Il progetto prende corpo con l’unione tra Abu Dhabi e Dubai, alla quale sono invitati a partecipare anche gli altri Stati. Così, il 2 dicembre del 1971, nascono ufficialmente gli Emirati Arabi Uniti. Inizialmente sono sei: Abu Dhabi, Dubai, Sharjah, Ajman, Fujairah e Umm al-Quwain, ai quali si aggiunge l’anno successivo anche Ras al-Khaima.

 

La scommessa di Abu Dhabi e Dubai non era tuttavia vinta in partenza. L’autore ricorda infatti che i precedenti esperimenti di unione tra Stati arabi (Federazione tra Giordania e Iraq e Repubblica Araba Unita tra Egitto e Siria) avevano avuto vita breve. Anche la costruzione degli Emirati ha dovuto fare i conti con molteplici difficoltà: i rapporti tra i due emirati dominanti (Abu Dhabi e Dubai), la spartizione del potere tra questi ultimi e gli emirati più piccoli, la distribuzione della rendita petrolifera, la formalizzazione e l’istituzionalizzazione dei meccanismi di cooperazione tra emirati, l’attribuzione delle varie competenze tra il livello statale e quello federale.

 

Il definitivo consolidamento istituzionale della Federazione ebbe così luogo soltanto nel 1996, con la fine della provvisorietà della Costituzione e il riconoscimento di Abu Dhabi come capitale (mentre nel 1971 era stata prevista la costruzione di una nuova città, Karama, a metà strada tra Abu Dhabi e Dubai). A questo proposito, sottolinea Coates Ulrichsen:

La decisione di rendere permanenti i due simboli più visibili della statualità – la Costituzione e la capitale – significava la durevolezza di una Federazione che, nei primi due decenni di esistenza, era sembrata destinata alla frammentazione e persino al fallimento (p. 69).

La stabilizzazione dell’assetto federale coincide anche con la trasformazione del Paese in un attore globale. Settimi per le riserve petrolifere accertate e sesto maggior produttore di petrolio al mondo (secondo i dati del 2014), gli Emirati sono la seconda economia del Medio Oriente dopo l’Arabia Saudita. L’autore evidenzia tuttavia che questi dati «nascondono la grande disparità tra Abu Dhabi, che detiene il 94% delle riserve del Paese, e gli altri sei emirati». Tuttavia, questo ha fatto sì che se «i bilanci federali continuano a essere sorretti dalla rendita derivante dagli idrocarburi, gli Emirati sono anche il Paese più economicamente diversificato del Consiglio di Cooperazione del Golfo» (p. 87). La diversificazione economica è infatti iniziata precocemente: Dubai, dopo il picco di produzione del 1991, ha dovuto fare i conti con l’esaurimento delle proprie riserve, ma anche Abu Dhabi ha avviato con un certo anticipo il suo percorso di emancipazione dal petrolio. La percentuale del Pil legata agli idrocarburi è così scesa dal 90% degli anni ’70 al 28,2% del 2013. È invece aumentato il peso della finanza, cresciuta l’industria, soprattutto nel settore dei polimeri e in quello aero-spaziale, mentre Abu Dhabi e Dubai si sono affermate come hub infrastrutturali, aeroportuali e portuali a vocazione mondiale. Gli Emirati sono inoltre fortemente impegnati nell’ambito dell’innovazione e dell’economia “della conoscenza” e stanno dedicando enormi investimenti alle energie rinnovabili, ben simboleggiati dalla pioneristica Masdar City Initiative. In questo processo non sono mancate le battute d’arresto, come la crisi economica del 2008, che ha colpito in particolare Dubai, e il ridimensionamento di alcuni progetti troppo ambiziosi.

 

Il posizionamento degli Emirati sulla scena globale, tuttavia, è dipeso anche da precise scelte politiche, che a loro volta sono coincise con l’ascesa di una nuova generazione di leader, a partire dall’attuale principe ereditario e uomo forte di Abu Dhabi, Muhammad bin Zayed (noto come MbZ) e dall’emiro di Dubai Muhammad bin Rashid.

 

Nel periodo che va dalla formazione degli Emirati nel 1971 alla morte di Zayed nel 2004, la politica estera del Paese aveva avuto per bussola la cooperazione e la solidarietà con gli altri Stati del Golfo e in generale con i Paesi arabo-musulmani. Quest’orientamento si traduceva tra le altre cose in un sostegno attivo alla causa palestinese. Sempre sotto Zayed erano andate intensificandosi le relazioni con gli Stati Uniti, soprattutto dopo la cooperazione militare durante la guerra del Golfo del 1990-1991. Da quel momento, con l’eccezione della guerra in Iraq del 2003, gli Emirati hanno partecipato a tutte le operazioni militari condotte dagli Stati Uniti nel Medio Oriente allargato (Somalia, Kosovo, Libia, Afghanistan, campagna contro lo Stato Islamico). Rispetto al padre, tuttavia, MbZ ha decisamente accentuato la proiezione militare dello Stato, inaugurando un nuovo corso assertivo che alla mediazione e alla solidarietà pan-araba e pan-islamica predilige il protagonismo geopolitico e non teme eclatanti gesti di rottura con il passato, come il sostanziale abbandono della causa palestinese e l’avvicinamento a Israele.

 

Questo nuovo approccio alla politica estera e di sicurezza si è manifestato con chiarezza dopo le rivolte arabe del 2011, percepite da un lato come una minaccia alla stabilità del Paese e dall’altro come l’opportunità di accrescere la propria influenza esterna. Sul piano interno la riposta emiratina è consistita in una dura repressione contro i membri dell’Islah, il movimento islamista legato ai Fratelli musulmani, e più in generale contro gli attivisti che nel contesto del fermento democratico panarabo del 2011 avevano avanzato qualche proposta di riforma. All’esterno gli Emirati hanno operato in particolare per impedire l’instaurazione di un ordine politico regionale a guida islamista, entrando in questo modo in un’aspra competizione con il Qatar. Paradigmatico da questo punto di vista è il caso dell’Egitto, dove gli Emirati hanno risposto alla prima fase della transizione post-rivoluzionaria, dominata dalla Fratellanza musulmana e sostenuta da Doha, intervenendo con massicci aiuti in favore del generale e poi presidente Abd al-Fattah al-Sisi. Nel 2014, invece, la minaccia posta dallo Stato Islamico e la presa del potere degli houthi in Yemen hanno spinto Abu Dhabi a «un uso senza precedenti della forza militare» (p. 205). Ciò ha costretto gli Emirati, per la prima volta nella loro storia, a fare i conti con l’esperienza dei caduti di guerra, a cui le autorità del Paese hanno risposto commemorando i morti come martiri e sviluppando «un discorso più assertivo sull’identità nazionale» (p. 210).

 

La forza militare non è tuttavia l’unico strumento di cui gli Emirati dispongono. Le famiglie regnanti hanno infatti investito moltissimo su svariate forme di soft-power e su un’attenta politica di state-branding, utilizzando lo sport, il turismo, la cultura, il cinema, le attività caritatevoli e filantropiche per esportare all’estero l’immagine di un Paese aperto e all’avanguardia. Non sempre questa operazione è riuscita: sulla reputazione degli Emirati pesano infatti gli abusi subiti dai milioni di lavoratori stranieri, per lo più asiatici, che contribuiscono materialmente allo sviluppo del Paese, e la dura repressione messa in atto contro qualsiasi forma di dissenso politico. Sul primo fronte nel corso degli anni si è registrato qualche piccolo, e ancora insufficiente, passo in avanti. La deriva autoritaria è invece molto marcata e può peraltro far leva su apparati di sicurezza particolarmente sofisticati.

 

Si tratta di nodi che avranno un peso rilevante nel futuro degli Emirati. Come conclude infatti Coates Ulrichsen: 

Qualsiasi transizione effettiva verso un futuro veramente post-petrolifero necessiterà di profonde riforme, che dovranno consistere nella riformulazione dei pilastri su cui dagli anni ’70 poggia la stabilità politica: la spesa per il welfare e la redistribuzione di ricchezza. E questo potrebbe inevitabilmente esigere delle politiche che trasformino i rapporti tra lo Stato e i cittadini (p. 230).

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.

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