La vicenda storica e la dottrina del wahhabismo
Ultimo aggiornamento: 27/06/2024 11:25:17
La vicenda storica e la dottrina di un movimento nato quattro secoli fa, combattuto nel XVIII secolo in quanto settario, sopravvissuto al salafismo riformista del XIX secolo, inteso come movimento di liberazione all’inizio del XX secolo, anticomunista e antinazionalista nel secondo dopoguerra, compromesso con l’Islam radicale negli anni ’70, infine impostosi come autorità neo-tradizionale a vocazione mondiale.
Il wahhabismo è fonte di grande confusione. Viene considerato un movimento contemporaneo, quando invece risale al XVIII secolo. Gli vengono imputate la tradizionalizzazione delle popolazioni musulmane, l’ascesa del terrorismo, la diffusione del salafismo e le fatwe a ripetizione. In realtà è un “mutante”: compare nel XVIII secolo, alla vigilia della crisi dell’Islam moderno, come un movimento settario combattuto accanitamente dalla religione ufficiale, sopravvive al salafismo riformista del XIX secolo, negli anni ’20 del XX secolo passa per movimento di liberazione, dopo la seconda guerra mondiale dichiara la sua ostilità al comunismo e al nazionalismo arabo, si compromette con l’Islam radicale negli anni ’70. Poi si acquieta, affermandosi come autorità neo-tradizionale a vocazione mondiale. Ecco come una setta quasi medievale mette giudizio e s’impossessa dell’Islam[1].
Ci si domanda sempre quale rapporto intercorra tra il wahhabismo e l’Arabia Saudita. Il wahhabismo si riferisce a Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb, fondatore della dottrina wahhabita, mentre Arabia Saudita è il nome che i principi Saud hanno dato al Paese nel 1931 in ricordo di Muhammad Ibn Sa‘ûd, fondatore del loro primo regno. Dalla loro alleanza politico-religiosa nasce una sorta di chiesa sunnita (non dichiarata come tale), che ha saputo adattarsi alle circostanze e sopravvivere fino ai giorni nostri nonostante le vicissitudini e le crisi che hanno segnato la storia del mondo arabo.
Il patto del Najd
Antenato di coloro che oggi detengono il potere religioso in Arabia Saudita, Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhâb (1703-1792) è il fondatore di un movimento politico-religioso che, verso la metà del XVIII secolo, si impose con la spada nel Najd, la parte centrale dell’attuale Arabia Saudita, prima di conquistare tutta l’Arabia fino ai confini del Golfo grazie a un’alleanza indefettibile conclusa verso il 1744-1745 con Muhammad Ibn Sa‘ûd (antenato dell’attuale re dell’Arabia Saudita) «nel nome di Dio e del suo profeta». È il Patto del Najd. I due uomini si incontrarono a Dir‘iyya, feudo di Sa‘ûd, nonché uno dei numerosi villaggi della zona. Per essere più precisi, l’Arabia si divide nello Hijâz a occidente, dove si trovano i Luoghi Santi, e nel Najd a oriente. Il Najd si suddivide a sua volta in tre sotto-regioni: al-Ahsâ’, regione sciita ricchissima di petrolio; al-Qasîm, attuale base dei wahhabiti e da cui provenivano la maggior parte degli attentatori dell’11 settembre; e infine al-‘Ȃridh, che comprende il villaggio di Dir‘iyya a trenta chilometri dall’attuale capitale, Riyadh.
Il Najd è il punto di passaggio obbligato delle carovane provenienti da Baghdad e Damasco e dirette nello Hijâz. Dir‘iyya si trova proprio ai piedi del Najd, al fondo di una valle attigua all’oasi di Wadi Hanîfa, un bacino secco durante l’estate, ma ricco d’acqua proveniente dalle montagne d’inverno. I cronisti raccontano che un certo Mâni‘, antenato dei Saud, si stabilì nell’oasi nel 1446-47 come usufruttuario della tenuta. I Saud si emanciparono solo nel 1726-27, quando Muhammad Ibn Sa‘ûd uccise lo zio, il signore locale, in seguito a un’oscura faccenda di famiglia. L’oasi di Wadi Hanîfa (detta anche al-Yamâma) ha una triste reputazione nell’Islam poiché diede rifugio al “falso profeta” Musaylima, detto “il mentitore”, e funse da base per gli “apostati” che si rifiutarono di pagare la decima durante il regno di Abû Bakr (632-634), primo successore di Muhammad. Questo ricordo non ha mancato di produrre i suoi effetti. Quando Ibn ‘Abd al-Wahhâb vi si stabilì, i suoi sostenitori videro in lui un eroe venuto a ripulire i focolai di contestazione, ma i suoi avversari lo accusarono di essere il nuovo “Musaylima il mentitore”.
È in questo luogo memorabile che fu suggellato il patto del Najd, primo patto nella storia dell’Islam in cui il potere spirituale e il potere temporale sono chiaramente divisi: Ibn ‘Abd al-Wahhâb nomina gli imam e i giudici e provvede all’istruzione religiosa. Ibn Sa‘ûd dispone del potere temporale, limitato all’epoca alla nomina dei governatori delle province e alla conduzione della guerra. Il patto è un accordo verbale con il quale Ibn Sa‘ûd s’impegna a seguire la dottrina unitaria (o unitariana) di Ibn ‘Abd al-Wahhâb, secondo la quale non c’è Dio all’infuori di Dio, a condizione che lo shaykh non rompa il patto e che il principe mantenga per sé la riscossione delle tasse sui sudditi. Ibn ‘Abd al-Wahhâb promette al principe di non lasciare la città e gli fa balenare la speranza che grazie al jihad Dio lo onorerà di benefici e risorse ancora maggiori. L’emiro giura fedeltà allo shaykh in nome della religione di Dio, del suo profeta, del jihad, dell’applicazione delle norme islamiche e del comando del bene e della proibizione del male. I dati storici sono riportati da due cronisti del tempo, Husayn Ibn Ghannâm (m. 1810), prima fonte dell’epoca, poi ripreso da ‘Uthmân Ibn Bishr (1795-1873). Le numerose prove che costellano quasi tre secoli di storia dell’Arabia vedranno la fondazione di un primo regno (1748-1818), di un secondo (1824-1890) e di un terzo (1932-) senza che l’alleanza tra la famiglia regnante e gli ulema sia mai messa in discussione.
Saccheggiare e abbattere
Il wahhabismo si fonda anche sulla più grande confederazione tribale degli ‘Anaza o ‘Anza, dalla quale provengono i Saud e che ancora oggi governa in Bahrein e in Kuwait. Ibn ‘Abd al-Wahhâb invece è un membro della tribù dei Tamîm, a cui appartengono anche gli al-Thânî del Qatar. Occorre poi tener conto della differenza tra lo Hijâz cosmopolita, dove i quattro riti dell’Islam erano praticati liberamente, e il Najd hanbalita e beduino. Ibn ‘Abd al-Wahhâb risveglia gli appetiti dei locali. I suoi emuli, fanatizzati ed elettrizzati dal bottino, saccheggiano Kerbala (1801), la Mecca e Medina (1803-1806), uccidono dei musulmani onesti e s’impadroniscono delle loro ricchezze, compreso il tesoro sacro deposto nella Tomba del profeta a Medina. Si comprende allora perché il wahhabismo abbia suscitato ovunque e da parte di tutti un’incredibile resistenza. Secondo una recente indagine, gli ulema, indipendentemente dalle loro tendenze, avrebbero redatto non meno di duecento confutazioni, una cifra per la verità esagerata che occorrerebbe ridurre almeno della metà. Insomma, la tradizione oppone resistenza. Ma i wahhabiti, ostinati, finiscono per ottenere il successo sperato, tanto che il regno attuale (1932) è il prolungamento naturale dei due tentativi falliti del 1745-1818 e del 1824-1891. Il wahhabismo può anche essere interpretato diversamente, come il tentativo di unificare un’Arabia consegnata nel XVIII secolo a dei signori della guerra. Non si capisce tuttavia perché i wahhabiti distruggano nei luoghi santi tutte le tombe e i mausolei di persone celebri come Khadîja (la prima moglie di Muhammad) e le cupole erette in onore di ‘Alî (genero di Muhammad). Le tombe e i mausolei oggi non esistono più. I wahhabiti li hanno distrutti spiegando che erigere edifici religiosi sopra il livello del suolo era una forma di paganesimo. Hanno anche bruciato i libri di autori mistici e testi di logica. Da questo emerge il lato estremamente puritano del wahhabismo, che ha contribuito a determinarne il successo e di cui ancora oggi si subiscono gli effetti. Si dice che le fonti che attestano queste razzie siano occidentali e i musulmani negano un tale sacrilegio. Tuttavia le mie ricerche mi hanno consentito di trovare fonti arabe che fanno l’inventario, pezzo per pezzo, degli oggetti saccheggiati.
Il wahhabismo non si accontentò di unificare l’Arabia Saudita, ma volle re-islamizzare i musulmani, inviando lettere a tutti i sovrani orientali e intimando loro di seguire la via dell’unitarismo, pena la dichiarazione del jihad contro di loro. Nel periodo in cui Mecca e Medina furono sotto il controllo wahhabita, copie delle lettere venivano consegnate ai pellegrini che dovevano trasmetterle ai re e ai sultani dei loro Paesi di provenienza. Due copie di una lettera probabilmente confezionata dagli emuli di Ibn ‘Abd al-Wahhâb arriveranno al regno di Tunisi verso il 1803/1805. In risposta, il bey incaricò due studiosi di rispondere, consegnandoci così due delle più belle confutazioni del wahhabismo (1803/1805). Esistono anche tre confutazioni marocchine e addirittura una di Sulaymân, fratello di Ibn ‘Abd al-Wahhâb.
Le lettere inviate da Ibn ‘Abd al-Wahhâb ai sovrani arabi, ai sultani e ai re e in cui chiedeva loro di seguire la via unitaria sono la causa primaria della distruzione del primo Stato wahhabita (1819). Una seconda ragione è legata agli abusi commessi dai wahhabiti alla Mecca e Medina. In particolare, i wahhabiti usavano assaltare le carovane del Mahmal[2], una in partenza dall’Egitto, l’altra dalla Siria e dirette alla Mecca per il pellegrinaggio, con il pretesto che i pellegrini salmodiavano litanie religiose, azione considerata sacrilega.
Da questo punto di vista il movimento wahhabita è una miscela di beduinismo, puritanesimo, brigantaggio e dottrina fanatica (per lo meno nel XVIII e XIX secolo). L’Impero ottomano incarica il Khedivè egiziano Mehmet Ali di distruggerlo e quest’ultimo affida la missione al figlio Ibrahim. Nel 1811 le truppe egiziane conquistano la Mecca e Medina e continuano la marcia verso Dir‘iyya. Dopo sei mesi di assedio la città è distrutta, il Re ‘Abdallah viene arrestato e mandato a Istanbul dove sarà impiccato.
Il patto della Quincy
Il secondo Stato wahhabita è privo di interesse. Ripiegato nei confini del Najd natale verrà distrutto dai Rashîd, un’altra tribù del Najd. Nel 1902 invece ‘Abdelaziz Ibn Sa‘ûd, allora diciottenne, accompagnato da una sessantina di uomini, assalta nottetempo il palazzo al-Masmak a Riyadh e uccide il governatore al soldo dei Rashîd. In quel momento gli viene in mente un’idea geniale che può spiegare il rapporto tra il wahhabismo, fino ad allora una setta medievale, e il radicalismo islamico moderno.
Il colpo di genio è la creazione nel 1912 dei cosiddetti Fratelli (Ikhwân). Non sono né bifolchi refrattari alla guerra né cittadini che guerreggiano quattro mesi l’anno. Sono dei nomadi a cui ‘Abdelaziz decide di dare dimora stabile in abitazioni chiamate hujar. La metonimia tra i termini hujar e hijra (esilio) ha un senso: i nuovi esiliati si stabiliscono in accampamenti. Sono indottrinati e fanatizzati dai wahhabiti, i quali spiegano loro che prima vivevano nel paganesimo ma che ora sono diventati musulmani, anzi sono i soli a esserlo. I nomadi allora si esiliano dal loro mondo per andare a vivere nel nuovo mondo delle colonie. ‘Abdelaziz crea così un esercito di circa 150.000 uomini pronti per il jihad. È un esercito mercenario, che vive di sussidi. Grazie a esso ‘Abdelaziz può riconquistare il regno dei suoi antenati, guerrieri intrepidi, sulla cui bandiera si leggeva il motto “Non vi è dio al di fuori di Dio e Muhammad è il profeta di Dio”. Tuttavia tra ‘Abdelaziz e i Fratelli scoppia un conflitto. Sotto la pressione internazionale (1929-1930), ‘Abdelaziz è costretto a negoziare con gli inglesi, i francesi e gli ottomani. I Fratelli non capiscono come il loro capo potesse scendere a patti con gli empi… Così, tra il 1928 e il 1930 una vera e propria guerra li oppone a ‘Abdelaziz, che ne esce vittorioso. Da qui una lezione: non si possono indottrinare impunemente dei beduini.
L’avvenimento più importante del XX secolo rimane comunque il patto della Quincy. Il 14 febbraio 1945 ‘Abdelaziz Ibn Sa‘ûd e il presidente americano Franklin Roosevelt si incontrano sulla corazzata Quincy. Suggelleranno un patto simile a quello del Najd per la forma verbale, ma completamente diverso nei contenuti: petrolio in cambio di protezione militare.
Di fatto, lo si ignora spesso, di petrolio i due non hanno mai parlato. Hanno chiacchierato di Palestina, geopolitica, agricoltura, cronaca, ma non di petrolio. Ma l’accordo è fatto: ‘Abdelaziz capisce che l’America è la più grande potenza del mondo, mentre Roosevelt sapeva che l’Arabia traboccava di petrolio. L’alleanza è tuttora in vigore, nonostante l’11 settembre 2001, e da quel momento in avanti i patti sono due: uno tra la Casa Bianca e la Casa dei Saud e l’altro tra i Saud e i wahhabiti. Ecco il dispositivo politico-religioso di cui bisogna tenere conto per capire la difficoltà dei sauditi a mantenere l’amicizia con gli americani da una parte, e dall’altra fare affidamento su un clero rigorista al quale delegano la competenza universale di diffusione dell’Islam wahhabita, gestendo allo stesso tempo la suscettibilità degli Stati.
Unicità e sottomissione
La dottrina wahhabita è esposta ne Il libro dell’unicità divina che è il diritto di Dio sui suoi servitori. Che cos’è l’unitarismo (tawhîd) islamico? È un principio semplice, al quale aderiscono tutti i musulmani: non vi è altro dio che Dio. Tuttavia Ibn ‘Abd al-Wahhâb rompe il consenso accusando i suoi contemporanei d’infedeltà. Come ci arriva? Mettendo in atto un dispositivo che mescola considerazioni medievali al vissuto dei musulmani. L’argomento centrale è la distinzione (che deve a Ibn Taymiyya) tra l’unicità della signoria o della sovranità (tawhîd al-rubûbiyya) e l’unicità di obbedienza o di adorazione (tawhîd al-ulûhiyya). L’unicità della signoria celebra la regalità di Dio. Egli è il rabb, il Signore dei mondi (Corano 57,1-6; 32,3-9). Credere in Dio significa dunque riconoscere che Dio è l’unico rabb.
L’unicità di obbedienza o di adorazione è tutt’altra cosa. Oltre all’atto di riconoscimento, essa esige la sottomissione all’unico Dio: «E io non ho creato i jinn e gli uomini altro che perché M’adorassero» (51,56). L’unitarismo si trasforma in ortoprassi. La parola santa pertanto può essere rivolta solo a Dio o al suo Profeta secondo una modalità appropriata. Dalla parola si passa agli atti di devozione: l’intercessione, l’invocazione, la richiesta di assistenza, la paura, la speranza, la fiducia, il desiderio, la prostrazione, l’umiliazione, la glorificazione, il sacrificio dedicatorio di un animale, tutti questi atti devono essere resi a Dio soltanto. Dalle parole e dagli atti ai luoghi di culto: prenderli per oggetto di venerazione è una forma di associazionismo[3] e il divieto si estende alle tombe e agli edifici religiosi. Dalla dimensione cultuale si arriva infine a quella politica: il santo, il dotto (‘âlim) e l’emiro sono assimilati a degli intercessori sul modello del sacerdozio.
I wahhabiti considerano allo stesso modo i cristiani, gli ebrei e i sufi, assimilandoli tutti a degli associazionisti. Ecco quanto scrive Ibn ‘Abd al-Wahhâb nella sua Epistola ai musulmani: «Credere nella santità e in cose simili è associazionismo. Non è forse detto: “Chi a Dio dà compagni, Dio gli chiude le porte del paradiso: la sua dimora è il Fuoco” (5,72)? Se ne siete convinti dovreste anche sapere che chi dice che faremmo meglio a smettere di accusare la gente di empietà e di fare loro la guerra si sbaglia. Ve lo spiego con la questione della direzione della preghiera: il profeta e la sua comunità pregano e anche i cristiani pregano. Ma gli uni pregano rivolgendosi alla casa di Dio, gli altri rivolgendosi al sole. Se chi appartiene alla comunità di Muhammad detesta chi prega in direzione della casa di Dio e ama chi dà il benvenuto al sole, credete forse che sia musulmano? Ecco il punto: Dio ha inviato tramite Muhammad il messaggio unitario, perché nessuno, neppure un profeta, sia invocato al di fuori di Dio! I cristiani invocano Gesù come figlio di Dio e i santi intercessori. Il consiglio è rivolto a chi teme i supplizi dell’inferno, quanto invece a coloro il cui cuore si è indurito, non si può sperare nulla».
I suoi avversari rispondono. I tradizionalisti non vedono l’utilità di dividere l’unicità, principio di base, in due sezioni, una che attesta la potenza di Dio, l’altra che proclama la sottomissione ai suoi decreti. Più precisamente, l’unicità della signoria (rubûbiyya) coincide con l’unicità dell’obbedienza (ulûhiyya). Lo stesso vale per gli atti di devozione, anche se passano per la mediazione dei santi e degli uomini pii, e per i sacrifici animali e per le offerte votive fatte per dovere, bontà, pietà, come voto di dedicazione o per espiare una colpa. Qual è lo statuto degli edifici religiosi? L’edificazione, il mantenimento e l’abbellimento sono permessi. Infine è ammessa anche l’intercessione delle persone, praticata da ‘Umar (secondo califfo). Forti di questi argomenti, i partigiani dell’ortodossia gli ritorcono contro l’accusa di empietà: Ibn ‘Abd al-Wahhab è un «innovatore, un traviato, un ipocrita, un ateo, un falso profeta».
La battaglia della tradizione
Che cosa è accaduto perché il wahhabismo vincesse la battaglia della tradizione? In realtà è stata la crisi della tradizione a riabilitarlo. Nel XIX secolo i musulmani imputarono il loro declino a tre figure: il despota, il marabutto e il giurisperito sclerotico. I wahhabiti e tutti i giurisperiti moderni sono ostili a questi tre tipi. Nel XIX secolo il wahhabismo è assimilato a un movimento riformista, se non addirittura a un’anticipazione della critica al tradizionalismo al quale è stato imputato il declino dell’Islam. Il riformismo voleva ritornare agli Antichi e liberare l’Islam dalle scorie del passato. Questo aspetto è ugualmente salafita ed è uno dei tratti distintivi del wahhabismo. Una volta riabilitato, il wahhabismo volerà con le proprie ali. Negli anni ’20 del XIX secolo verrà considerato un movimento nazionalista che lotta per unificare l’Arabia. Più tardi mostrerà delle affinità elettive con l’Islam radicale attraverso la metafora dell’Islam “esiliato” nella sua propria terra. Ecco quanto scrive lo storico Ibn Ghannâm, discepolo di Ibn ‘Abd al-Wahhâb, nella sua Rawda:
La maggior parte dei musulmani è tornata nelle tenebre preislamiche. Ignoranti, alla mercé di despoti traviati, privati della luce che indica la buona direzione, hanno voltato le spalle al libro di Dio come avevano fatto i loro antenati. Hanno adorato i marabutti, morti e vivi, hanno venerato gli alberi e hanno sostituito a Dio nuovi idoli. Questa è la situazione nel Najd, nei Luoghi santi, in Yemen, in Egitto, in Iraq.
Tra il 1960 e il 2000 il wahhabismo è attivo contro il nazionalismo arabo e il comunismo, arrivando al punto di finanziare i Talebani. Sostiene i Fratelli Musulmani e l’Islam radicale contro le repubbliche “laiche”. Una lunga fatwa di trenta pagine emessa dal celebre Ibn al-Bâz nel 1974 accusa Bourguiba di apostasia. Dopo l’11 settembre il wahhabismo si ripiega sulla sua vocazione alla predicazione e conduce una campagna contro il terrorismo, assimilato alla figura medievale dell’eccesso (ghuluww) e dell’uscita dall’Islam attribuita al kharijismo. La “Primavera araba” risparmia la monarchia, rendendola forse addirittura più potente: ferro di lancia del sunnismo contro lo sciismo, essa gioca la carta del salafismo quietista contro i Fratelli musulmani e sostiene le fazioni jihadiste contro Bashar al-Asad.
In ogni fase l’alleanza saudita-wahhabita ha trovato risorse sufficienti per svolgere un ruolo politico e religioso di primo piano. Ma più che mai il suo destino dipende oggi dalle tendenze centrifughe che traversano il mondo arabo e di cui per il momento è difficile prevedere le ripercussioni nel tempo.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis.
[1] Da qui ho tratto il sottotitolo del libro Le pacte de Najd. Comment l’islam sectaire est devenu l’islam (Seuil, Paris 2007).
[2] Il mahmal è un’arca a coperchio piramidale, rivestita di broccato ricchissimo, che in occasione del pellegrinaggio alla Mecca serviva a trasportare la kiswa, il tessuto che si usava per ricoprire la Ka‘ba. (N.d.R.).
[3] In arabo shirk è il contrario dell’unità e dell’unicità (tawhîd) in quanto consiste nell’associare a Dio altri enti (N.d.R.).