Gli islamisti pretendono di ripristinare pensiero e pratiche delle prime comunità islamiche e si appropriano dei testi sacri per costruire la loro concezione di un governo teo-democratico fondato sulla nozione di sovranità divina
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 09:54:20
Non sono pochi quanti – musulmani e non-musulmani – tentano di leggere nel Corano un mandato specifico per la creazione di una particolare cultura politica o addirittura una determinata forma di governo. Il caso più emblematico è quello dei moderni islamisti, che pretendono di derivare dalle Scritture un intero sistema politico, considerandone l’instaurazione come la più urgente priorità per i musulmani dell’epoca moderna. Anche alcuni orientalisti sostengono l’idea per cui l’Islam conterrebbe una particolare teologia politica e il Corano imporrebbe ai musulmani una leadership religiosa e carismatica. Secondo tali studiosi, gli esempi tratti dalla storia sunnita che proiettano un’immagine diversa e più terrena del governante della città islamica oscurerebbero deliberatamente le tendenze politiche originarie e sovvertirebbero l’ideale coranico della guida legittima[1].
Nei primi due secoli dell’Islam l’espressione ulī ’l-amr era compresa primariamente come riferita alle persone istruite
Nel discorso politico prodotto sia da musulmani sia da non-musulmani per affermare l’esistenza di un ordine socio-politico stabilito dalla sharī‘a si cita spesso un particolare versetto del Corano – (4,59) – generalmente interpretato nel senso che i fedeli musulmani, purché non sia loro richiesto di violare un precetto religioso, dovrebbero obbedire senza esitazione ai loro governanti, intesi come i referenti dell’espressione coranica ulī ’l-amr (“coloro che detengono l’autorità”). Alcuni studiosi moderni si sono spinti al punto di affermare che questo versetto impedirebbe l’emergere di una cultura politica dinamica nelle società a maggioranza musulmana.
L’orientalista britannico Bernard Lewis, ad esempio, ha sostenuto con disinvoltura che Corano 4,59 insegnerebbe che «[…] il compito primo ed essenziale del suddito nei confronti del sovrano è l’obbedienza». E ha aggiunto: «Il dovere dell’obbedienza all’autorità legittima non è solo un semplice espediente politico: è un obbligo religioso, definito e imposto dalla Legge Sacra e fondato sulla rivelazione»[2].
In alcuni trattati politici musulmani medievali scritti dopo il IX secolo, tale versetto è spesso utilizzato come prova testuale a favore del quietismo politico e di una cultura dell’obbedienza all’autorità politica legittima. Tuttavia, è palesemente sbagliato affermare che si tratti di un’interpretazione indiscussa, la cui genealogia risalirebbe alle origini stesse dell’Islam, piuttosto che di uno sviluppo organico storicamente condizionato e determinato da specifiche circostanze politiche esterne. Come vedremo, quando i primi significati attribuiti a questo versetto sono confrontati con interpretazioni successive, incluse quelle moderne, emergono alcune importanti trasformazioni evolutive[3].
Esegesi premoderna
Corano 4,59 insegna: «O voi che credete! Obbedite a Dio, al Messaggero e a quelli di voi che detengono l’autorità (ulī ’l-amr minkum)».
La più antica opera esegetica di cui disponiamo è quella di Mujāhid Ibn Jabr (m. 722), della fine del VII secolo. Nel suo Tafsīr Mujāhid afferma che questo versetto è stato rivelato in riferimento a «coloro che possiedono una comprensione critica della religione e della ragione» (ulī-’l-fiqh fī ’l-dīn wa-l-‘aql). Una seconda variante registrata da Mujāhid riporta che la frase si riferisce a «coloro che possiedono comprensione critica, conoscenza, [solida] opinione e virtù» (ulī ’l-fiqh wa-l-‘ilm wa-l-ra’y wa-l-fadl)[4]. In queste chiose è particolarmente degna di nota l’enfasi posta sulla conoscenza, sul ragionamento indipendente e sul discernimento critico quali caratteristiche distintive degli ulī ’l-amr, che non sono identificati con alcun gruppo di persone o con una categoria professionale in particolare.
Un altro degli esegeti più antichi, Muqātil Ibn Sulaymān al-Balkhī (m. 767), riporta nel suo commento coranico che l’espressione chiave ulī ’l-amr minkum sarebbe stata rivelata specificatamente in riferimento al comandante militare Khālid Ibn al-Walīd in un particolare contesto storico, e più ampiamente si riferirebbe ai comandanti di contingenti militari (sarāyā)[5]. Significativamente, Muqātil sostiene che Corano 4,59 abbia un parallelo in Corano 24,51-52, che aiuterebbe a chiarire ulteriormente il significato del primo versetto. Corano 24,51-52 afferma: «Invece il parlar dei credenti, quando son chiamati avanti a Dio e al Suo Messaggero perché giudichi fra loro, è: “Abbiamo udito e obbediamo!” Ecco quelli che prospereranno». Confrontando tra loro questi versetti, Muqātil interpreta dunque Corano 4,59 come un obbligo a obbedire soltanto a Dio e al Suo Messaggero, con l’esclusione degli ulī ’l-amr.
Le due interpretazioni trovano corrispondenza nell’antica opera esegetica di ‘Abd al-Razzāq al-San‘ānī (m. 827), il quale riporta, sull’autorità del famoso Successore al-Hasan al-Basrī (m. 728), che «coloro che detengono l’autorità tra voi» si riferisce ai “dotti” (al-‘ulamā’); e sull’autorità di Mujāhid che l’espressione si riferisce alle «persone con profonda comprensione e conoscenza» (ahl al-fiqh wa-l-‘ilm). ‘Abd al-Razzāq fornisce dunque una valida dimostrazione del fatto che nei primi due secoli dell’Islam l’espressione ulī ’l-amr era compresa primariamente come riferita a: 1) in generale le persone istruite e dotate di profonda comprensione e 2) in determinate circostanze i comandanti militari designati dal Profeta.
Il celebre al-Tabarī, commentatore coranico del tardo IX secolo (m. 923), offre un resoconto dei vari significati attribuiti a questa espressione e ci permette di comprendere l’evoluzione della sua interpretazione. Egli cita numerose autorità dei primi tempi che compresero ulī ’l-amr come riferito a diversi gruppi di persone. Secondo Ibn ‘Abbās e al-Suddī (m. 744), l’espressione si riferirebbe a vari comandanti militari contemporanei del Profeta[6]. È interessante che in un altro racconto riportato da al-Tabarī, Ibn Zayd, della seconda generazione di musulmani (i Successori), citi il Compagno Ubayy Ibn Ka‘b, secondo il quale il versetto faceva riferimento ai governanti politici (al-salātīn)[7]. Il termine al-salātīn è usato in modo curiosamente anacronistico in questo contesto, dal momento che i sultani sorsero nel mondo islamico solo dal IX secolo in avanti, ben dopo l’epoca dei Compagni[8].
Per l’egiziano Muhammad ‘Abduh, se gli ulī ’l-amr governano in accordo con i precetti di Dio, allora si deve loro obbedienza
In ogni caso, al-Tabarī prosegue citando un numero considerevole di autorità che compresero questo versetto come riferito alla «gente della conoscenza e della profonda comprensione» (ahl al-‘ilm wa-l-fiqh). Sull’autorità di varie fonti sono registrate anche altre varianti di queste tradizioni, che identificano gli ulī ’l-amr con «la gente della profonda comprensione e della conoscenza»; con «i detentori di una profonda comprensione della religione e della ragione» (ulī ’l-fiqh fī ’l-dīn wa-l-‘aql); con la «gente della conoscenza»[9]. Un altro gruppo di tradizioni identifica gli ulī ’l-amr con «le persone intelligenti e dotte», termini che vanno intesi come analoghi della precedente espressione ahl al-fiqh wa-l-‘ilm, che in senso più ampio è riferita a tutti i Compagni di Muhammad[10].
L’esteso commento coranico di al-Tabarī conferma perciò che i primi filoni esegetici relativi a questo versetto cruciale non conferivano agli ulī ’l-amr tanto un’autorità politica quanto un’autorità epistemica, definita da una superiore conoscenza e una migliore comprensione delle cose.
Nel XII secolo, Fakhr al-Dīn al-Rāzī (m. 1210) offre una dettagliata esposizione di questo versetto e delle varie interpretazioni correnti al suo tempo, per poi indicare la sua interpretazione preferita; a suo avviso l’espressione ulī ’l-amr minkum farebbe riferimento ai dotti, definiti anche ahl al-hall wa-l-‘aqd (letteralmente “coloro che sciolgono e legano”) nella letteratura giuridica. Tale combinazione di termini stabilisce che solo i giuristi sarebbero da includere negli ulī ’l-amr, perché come egli osserva, «questo genere di studiosi» ha la capacità esclusiva di ordinare e proibire sulla base della Legge religiosa[11].
Anche un altro esegeta tardo-medievale, Ibn Kathīr (m.1373), registra nella sua influente opera esegetica le varie interpretazioni di questo versetto, documentando come le interpretazioni più antiche lo riferissero alla “gente del discernimento e della religiosità” (ahl al-fiqh wa-l-dīn) e/o a particolari comandanti militari dei tempi in cui il Profeta era in vita[12]. Tuttavia, risulta chiaro come Ibn Kathīr propenda per la visione che al suo tempo (l’epoca mamelucca) era maggioritaria, secondo cui il termine coranico ulī ’l-amr indicherebbe innanzitutto – se non esclusivamente – coloro che detengono un’autorità politica. A suffragio di questa tesi egli elenca un numero esagerato di hadīth che impongono in generale l’obbedienza al governante politico e raccomandano al fedele di sopportare stoicamente il governante ingiusto, dal momento che questi è destinato a subire la punizione per i suoi eccessi nell’Aldilà. Il testo degli hadīth, tuttavia, non rivela alcuna connessione con Corano 4,59, visto che nessuno di questi racconti lascia intendere che il Profeta li abbia pronunciati come diretta spiegazione di questo versetto.
I modernisti e il discorso islamista
L’idea che l’esegeta e riformatore egiziano del XX secolo Muhammad ‘Abduh aveva del buon governo può essere in gran parte desunta da come, nel Tafsīr al-Manār (edito dal suo famoso discepolo Rashīd Ridā), egli tratta il versetto 4,59. ‘Abduh rimanda a Mujāhid Ibn Jabr (m. 722) che, come abbiamo appena visto, aveva compreso questo versetto come riferito innanzitutto a un gruppo indefinito di dotti, o, più alla lettera, a «coloro che detengono una comprensione critica della religione e della ragione». ‘Abduh amplia quest’idea, aggiungendo che l’espressione ulī ’l-amr si riferirebbe ai governanti politici, ai giudici, agli studiosi della religione, ai capi militari e agli altri governanti e leader musulmani, ai quali, egli dice, le persone si affidano per le proprie necessità e per il proprio benessere generale[13]. Tuttavia ‘Abduh segnala che Corano 4,59 non invita a obbedire agli ulī ’l-amr, ma solo a Dio e al suo Messaggero, dal momento che quel versetto prosegue dicendo «E se v’accade di disputare su qualche cosa, riferitela a Dio e al Suo Messaggero». Se gli ulī ’l-amr governano in accordo con i precetti di Dio e della Sunna, allora si deve loro obbedienza; in caso contrario, se ricorrono alla tirannia e all’oppressione, non solo l’obbedienza non è più obbligatoria, ma è anzi proibita. ‘Abduh prosegue dicendo che le azioni dei governanti temporali e politici (al-umarā’ wa-l-salātīn) sono vincolate alle opinioni giuridiche (fatāwā) degli ulema, visto che essi sono di fatto i “comandanti dei comandanti” (umarā’ al-umarā’)[14].
Per Sayyid Qutb la sovranità appartiene unicamente a Dio e governa ogni aspetto della vita umana
Con questa interpretazione, ‘Abduh riecheggia parzialmente l’esegesi di Muqātil Ibn Sulaymān, il quale similmente aveva compreso, come si è visto, che il versetto prescrivesse l’obbedienza solamente a Dio e al Suo Messaggero e non agli ulī ’l-amr. Gli ulī ’l-amr hanno principalmente un ruolo consultivo, e il loro parere deve essere sollecitato nei casi in cui il Corano e la Sunna non forniscano risposte categoriche a determinate questioni. Agire sulla base delle raccomandazioni degli ulī ’l-amr rappresenta di conseguenza un’opzione discrezionale, più che vincolante. Tali conclusioni, lasciate implicite nell’esegesi di Muqātil, sono formulate più esplicitamente in quella di ‘Abduh.
Inoltre, ‘Abduh equipara gli ulī ’l-amr a “coloro che sciolgono e legano” (ahl al-hall wa-l-‘aqd), una formula che, come abbiamo visto, era già stata usata da al-Rāzī, ma che egli dilata secondo una logica modernista. “Coloro che sciolgono e legano” include tutti quelli in cui la comunità musulmana ripone la sua fiducia: gli studiosi, i capi militari e i leader di vari settori della società che promuovono gli interessi generali del popolo (al-masālih al-‘āmma). Tra questi settori ci sono il commercio, l’industria e l’agricoltura. Pertanto i leader sindacali, i leader dei partiti politici, i membri delle redazioni e i direttori dei giornali autorevoli sarebbero tutti inclusi in questa categoria[15]. In questo modo, ‘Abduh associa il concetto di maslaha/masālih (interesse generale) all’espressione coranica ulī ’l-amr, facendovi rientrare gruppi con competenze specializzate, la maggior parte delle quali non sono esplicitamente religiose ma che contribuiscono al benessere complessivo della città.
La visione di ‘Abduh contrasta fortemente con quella dell’irruento pensatore e attivista egiziano Sayyid Qutb (m. 1966), il cui pensiero politico-religioso sul cosiddetto “governo islamico” e sulla “sovranità divina” (al-hākimiyya) ha esercitato e continua a esercitare una notevole influenza su quelli che oggi chiamiamo islamisti. A differenza di quanto ci si aspetterebbe, nella sua opera esegetica Fī zilāl al-Qur’ān (“All’ombra del Corano”), Sayyid Qutb non si sofferma molto sull’espressione ulī ’l-amr, ma considera i “detentori dell’autorità” come sussunti di fatto nel precetto divino di obbedire a Dio e al Suo Messaggero. Egli commenta il temine ulī ’l-amr in due punti. Nel primo dice: «Quanto all’espressione ulī ’l-amr, il testo [il Corano] distingue chi sono, e cioè quei credenti in cui le condizioni di fede e il rispetto dei precetti islamici […] si trovano compiuti». Prosegue poi affermando che tali precetti hanno a che fare con l’obbedienza a Dio e al Suo Messaggero, con la sovranità divina – al-hākimiyya – e con il diritto di legiferare sin dall’inizio soltanto in base al Corano e alla Sunna. Poco prima nel suo tafsīr, Sayyid Qutb aveva chiarito che la sovranità appartiene unicamente a Dio e che essa governa ogni aspetto della vita umana, giacché Dio ha prescritto la sua Legge, contenuta nel Corano[16]. Nel secondo caso egli afferma che l’espressione ulī ’l-amr si riferirebbe ai «credenti che si attengono alla legge di Dio (sharī‘at Allāh) e alla Sunna del suo Messaggero»[17], che è una riformulazione sintetica della sua prima chiosa.
In effetti, l’interpretazione fortemente politicizzata che Sayyid Qutb offre del versetto 4,59, connessa al neologismo della hākimiyya, porta al culmine la visione di un Islam politico egemone avanzata dal suo mentore Abū al-A‘lā Mawdūdī. Nella sua esegesi di Corano 4,59, Qutb non riporta la consueta avvertenza, comune a tutte le opere esegetiche dai primi autori fino a Mawdūdī, circa il divieto di obbedire al governante che con le sue azioni o con i suoi ordini violi la legge religiosa. La sua breve spiegazione di questo versetto cruciale lascia inoltre poco spazio al principio della consultazione e della ricerca del parere della gente (munāsaha), una procedura su cui dotti precedenti, come Ibn Taymiyya, avevano insistito[18]. Un pericoloso determinismo sembra dunque sottendere lo schema qutbiano del governo islamico.
Mistificare il passato
L’indagine diacronica dimostra categoricamente che, nella loro concezione e comprensione del termine ulī ’l-amr, i dotti modernisti come Muhammad ‘Abduh sono molto più vicini alla prima e seconda generazione di musulmani di quanto lo siano gli islamisti che pretendono di ripristinare il pensiero e le pratiche delle prime comunità islamiche. I pensatori islamisti moderni, come abbiamo visto, si sono appropriati di Corano 4,59 per costruire la loro concezione di un governo teo-democratico fondato sulla nozione di sovranità divina. Essi affermano che tale nozione risalirebbe al periodo formativo dell’Islam, ignorando, più o meno deliberatamente, le interpretazioni diverse e principalmente apolitiche di questo versetto che si trovano nelle fonti più antiche e che, come abbiamo visto, caratterizzano almeno i primi tre secoli dell’Islam.
Gli studi occidentali sull’autorità politica e religiosa nell’Islam si sono concentrati soprattutto sulle opere del tardo medioevo che presentano una concezione autoritaria della città islamica, e che invocano spesso Corano 4,59 come prova testuale. Tale posizione non è sostenibile. Come si evince da quanto abbiamo detto, è stato l’interesse politico, più che un presunto mandato scritturistico, a consentire alla nozione di un’obbedienza praticamente incondizionata al governante di guadagnare progressivamente terreno (non senza opposizioni) in determinate aree.
Il desiderio di alcune persone di avere un governo consultivo dipende dal fatto che la consultazione è un dovere previsto dalla sharī‘a e che essa proibisce il dispotismo
Lo studio mette in evidenza la polisemia di concetti come quello di ulī ’l-amr e la loro malleabilità nel lessico etico e politico islamico. Tale malleabilità fa ben sperare per l’età contemporanea, in cui esperti musulmani e cittadini comuni sono coinvolti in appassionate discussioni sulle grandi problematiche della legittimità politica e della fedeltà alle tradizioni islamiche. L’interpretazione modernista di Corano 4,59, saldamente ancorata alle prime esegesi di questo fondamentale versetto, mettendo l’accento sulla natura consultiva e collettiva dell’attività decisionale, ha importanti implicazioni per la creazione di un sistema democratico sostenibile nelle odierne società a maggioranza musulmana. È giusto quindi concludere con la convincente osservazione avanzata da Muhammad ‘Abduh alla fine del XIX secolo:
Il desiderio di alcune persone di avere un governo consultivo e la loro disapprovazione del dispotismo non sono il risultato dell’imitazione degli stranieri. Dipende dal fatto che la consultazione è un dovere previsto dalla sharī‘a e che essa proibisce il dispotismo. La legge dell’Islam ordina infatti di seguire i precetti del Corano e aderire alla Sunna del Profeta. Quanto al dispotismo, esso contraddice la sharī‘a in quanto non è vincolato dalla legge[19].
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] Si veda per esempio Wilfred Madelung, Succession to Muhammad: A Study of the Early Caliphate, Oxford University Press, Oxford 1998.
[2] Bernard Lewis, Il linguaggio politico dell’Islam, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 105.
[3] In questa sezione riprendo il contenuto del terzo capitolo del mio Contemporary Issues in Islam, Edinburgh University Press, Edinburgh 2015, intitolato “Engaging the Shari‘a: rereading the Qur’an and Hadith”.
[4] Mujāhid Ibn Jabr, Tafsīr Mujāhid, a cura di ‘Abd al-Rahmān al-Tāhir b. Muhammad al-Sūratī, Majma‘ al-buhūth al-islāmiyya, Islāmābād, s.d., vol. 1, pp. 162-163.
[5] Muqātil Ibn Sulaymān, Tafsīr Muqātil, Mu’assasat al-halabī wa-shurakā’ihi, al-Qāhira 1969, vol. 1, p. 246.
[6] Ivi, vol. 4, p. 151.
[7] Ibid.
[8] Si veda l’articolo Sultan in Encyclopedia of Islam, New Edition, a cura di. G.E. Bosworth et al., vol. 9, Leiden 1997, pp. 849-851.
[8] Al-Tabarī, Tafsīr al-Tabarī (Jāmi‘ al-bayān fi ta’wīl al-Qur’ān), Dār al-kutub al-‘ilmiyya, Bayrūt 1997, vol. 4, p. 152.
[10] Ibid.
[11] Fakhr al-Dīn al-Rāzī, Al-Tafsīr al-kabīr, Dār ihyā’ al-turāth al-‘arabī, Bayrūt 1999, vol. 4, p. 113.
[12] Ibn Kathīr, Tafsīr al-Qur’ān al-‘azīm, Dār al-Jīl, Bayrūt 1990, vol. 1, pp. 490-491.
[13] Rashīd Ridā, Tafsīr al-Qur’ān al-hakīm, noto come Tafsīr al-manār, a cura di Ibrahim Shams al-Dīn, Dār al-kutub al-‘ilmiyya, Bayrūt 1999, vol. 5, p. 147.
[14] Ivi, vol. 5, p. 150.
[15] Ivi, p. 152.
[16] Sayyid Qutb, Fī zilāl al-Qur’ān, Dār al-shurūq, al-Qāhira 2001, vol. 2, p. 691.
[17] Ivi, vol. 2, p. 692.
[18] Si veda Ibn Taymiyya, Majmū‘at al-fatāwā, a cura di ‘Āmir al-Jazzār e Anwār al-Bāz, Maktabat al-‘ubaykān, al-Riyād 1998, vol. 18, p. 1.
[19] Cit. in Aziz al-Azmeh, Islams and Modernities, Verso, London 2009, p. 124.