I cristiani in Iran sono doppiamente stranieri: per il tasso di natalità in diminuzione e per l'accelerata emigrazione

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:52:23

«Shim'on pesar-e Yohana, àya mara mahabat mi nema'ì?», scandisce il sacerdote leggendo il Vangelo in lingua farsi: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu davvero?». Una vera sorpresa per i fedeli e i rappresentanti delle autorità iraniane riuniti nella cattedrale caldea di Teheran per onorare la memoria di Giovanni Paolo II. L'uso del farsi nelle celebrazioni cristiane è, infatti, "vivamente sconsigliato" dal governo, preoccupato di evitare la diffusione del verbo cristiano tra i musulmani. D'altra parte, i cristiani non sono forse delle minoranze etniche (principalmente armeni e assiro-caldei) che i diversi copricapo dei leader religiosi raccolti attorno all'altare illustrano al meglio?

«L'uso del farsi nella liturgia è un servizio di fede», contesta Mons. Ramzi Garmou, arcivescovo caldeo della capitale iraniana. «Noi non siamo al servizio di una determinata etnia, bensì di tutta la nazione», spiega. «Se ogni comunità religiosa dovesse occuparsi solo del proprio gruppo etnico, cosa ne sarebbe domani della Chiesa in Iran?». Già, domanda pertinente. Cosa ne sarà della Chiesa in Iran? E cosa ne è oggi? è per questo che ci siamo messi su un aereo diretto a Teheran.

La cabina anticipa l'atmosfera del Paese, sia per la preghiera del viaggiatore diffusa dopo le indicazioni di sicurezza, sia per i tanti chador a bordo. Un'impressione presto temperata all'arrivo. In aeroporto, dei funzionari barbuti timbrano con un'aria indifferente i passaporti di giovani iraniani con il codino. Nelle strade della capitale, i rusari colorati che lasciano scoperti gran parte dei capelli, rivaleggiano con i maqna'e neri che inquadrano perfettamente il viso, ma che rimangono obbligatori per tutte negli uffici e all'università. Musulmane e cristiane.

«Simone, figlio di Giovanni, mi ami tu davvero?» ripete il celebrante pensando forse alle poche pecore che il successore di Pietro si è trovato a pascere nel Paese. Pur contestati da alcuni, i censimenti ufficiali sono emblematici. Mentre la popolazione iraniana risulta quasi raddoppiata negli anni della Repubblica islamica, passando da 35 a 68 milioni di abitanti, il numero dei cristiani è drasticamente diminuito, dimezzandosi in quanto a cifre assolute: in un solo ventennio dal 5 (169mila nel 1976) all'1 per mille (78mila nel 1996). Oggi, le stime più ottimistiche danno un totale di circa 100mila cristiani di cui 80mila armeni gregoriani, 8mila assiro-caldei cattolici e altrettanti ortodossi, 5mila protestanti, 2mila latini e 500 armeno-cattolici. Una verifica effettuata da un sacerdote cattolico a partire dai registri ecclesiali conferma tale drastico calo. «I matrimoni celebrati nella mia diocesi negli 1976, 1986 e 1996 sono rispettivamente 54, 20 e 13», dice. «I battesimi riferiti agli stessi anni aggiunge sono 150, 117 e 36. I funerali, infine, sono 93, 101 e 97». Conclusione? «è una comunità a rischio estinzione».

«Questo calo, dice ancora Mons. Garmou, è dovuto a un tasso di natalità più basso dei cristiani, ma soprattutto a un'emigrazione che si è accelerata dopo la rivoluzione islamica e la guerra contro l'Iraq». Ovviamente, alla base di tale fenomeno ci sono motivazioni umane, culturali, socio-economiche e storiche. Ma l'appartenenza dei cristiani a minoranze che si distinguono, oltre che per fede religiosa, anche per lingua e cultura, li ha resi doppiamente stranieri agli occhi della popolazione.

Già ai tempi della monarchia, e nonostante la buona disposizione dello scià, il discorso ufficiale nazionalista non favoriva certo la loro integrazione. Obiettivo che la legislazione della rivoluzione islamica ha reso ancor più difficile. L'articolo 13 della Costituzione precisa, è vero, che

«gli iraniani zoroastriani, ebrei e cristiani sono le uniche minoranze religiose riconosciute le quali, nei limiti della legge, sono libere di compiere i propri riti religiosi e cerimonie, e di agire secondo il proprio canone in materia di affari personali e di istruzione religiosa»

Ma l'articolo 14, pur sottolineando il dovere dello Stato e di tutti i musulmani di «trattare i non-musulmani in conformità con le norme etiche e i principi della giustizia ed equità islamiche, e rispettare i loro diritti umani», ha cura di avvertire che «questo principio si applica a tutti coloro che si astengono dal prendere parte a cospirazioni o attività contro l'Islam e la Repubblica islamica dell'Iran». L'articolo 19, infine, afferma che «tutti gli iraniani, a qualsiasi gruppo etnico appartengano, godono degli stessi diritti» e che «il colore, la razza e la lingua non offrono alcun privilegio». Alla religione nessun riferimento.

«I diritti dei cristiani sono garantiti dalla Costituzione. Il punto è che spesso incontriamo difficoltà nella sua applicazione», afferma Mons. Sebouh Sarkissian, di origine siriana, che occupa da sei anni la sede arcivescovile armeno-gregoriana di Teheran, una carica che fa di lui il pastore della maggiore comunità cristiana in Iran. Ad esempio? «La nostra Chiesa, risponde, ha il diritto di pronunciare sentenze di scioglimento del matrimonio, ma quando i coniugi si recano ai pubblici uffici si vedono esigere dai giudici la ripresa dell'iter processuale».

Gli chiediamo se incontra problemi nella stampa e la diffusione di materiale religioso. «Niente affatto», risponde. «Ho fatto stampare 32mila copie del Vangelo e nessuno mi ha mai detto nulla. Ovviamente, se il libro è in lingua farsi occorre un permesso. Ogni anno pubblichiamo una decina di libri. Uno degli ultimi ripercorre addirittura la storia dell'Armenia e il suo rapporto conflittuale con l'allora Persia».

E fino a che punto il carattere etnico delle Chiese iraniane rappresenta un handicap alla missione ecclesiale? «La nostra preoccupazione è centrata sul mantenimento delle nostre tradizioni», risponde. «Non incoraggiamo il proselitismo. La testimonianza al Vangelo si riflette nella vita del cristiano prima ancora che nella predica in chiesa. Noi non viviamo in Occidente. L'Iran è, in fin dei conti, uno Stato islamico e a noi spetta essere astuti, come ci chiede Cristo». Questa "astuzia", bisogna riconoscerlo, ha in larga misura risparmiato agli armeni la repressione subita dagli altri cristiani. Ad esempio sono riusciti a recuperare le loro scuole confiscate, anche se hanno dovuto accettare la nomina governativa di direttori musulmani.

Non così è stato per la Chiesa latina, sospettata a lungo di simpatia verso l'Occidente, le cui strutture religiose sono state smantellate nei primi due anni della rivoluzione: 14 scuole cattoliche chiuse (tra cui i prestigiosi istituti gestiti da lazaristi e salesiani), pensionati e dispensari confiscati, preti e suore espulsi. «Siamo qui perché non è giusto che i cristiani rimangano da soli», ci confida una suora straniera che vive in Iran da parecchi anni. «Ci preme portare avanti l'essenziale cristiano. Grazie a Dio assistiamo a un miglioramento della situazione: lo Stato è passato da un'aperta ostilità nei confronti della Chiesa latina a una fase di addolcimento sotto Rafsanjani, poi a una maggiore apertura sotto Khatami». Come si traduce questa apertura? «I visti d'ingresso per il clero sono ora più facili da ottenere, anche se vige ancora il numero chiuso: un prete per ogni singola chiesa. Ovviamente, gli arrivi che si contano sulle dita di una mano non sono in grado di compensare le espulsioni del 1980 che hanno interessato l'85 per cento del clero cattolico. Inoltre, i cristiani non vengono più presentati dalle autorità, come prima, come minoranze "ospiti" o di passaggio».

Nessuno nega tuttavia che la Chiesa latina, oggi guidata da mons. Ignazio Bedini, sia effettivamente al servizio di gente di passaggio: membri del corpo diplomatico accreditato a Teheran e uomini d'affari occidentali. A questi si aggiungono anche alcune famiglie naturalizzate e i figli di coppie miste che sfidano seppure non pubblicamente la nozione sharaitica che prevede che i figli di un musulmano debbano essere musulmani. «Molti dei problemi che viviamo oggi se li sono procurati gli stessi cristiani, per questioni di potere e di privilegio», dice sconsolato un sacerdote cattolico. «Le singole Chiese, precisa, hanno coltivato nei secoli la loro forte connotazione etnica per distinguersi e difendersi dall'Islam. Ma anziché adoperarsi poi a favore di una complementarietà a livello dei servizi ecclesiali, hanno cercato di preservare al meglio i loro particolarismi e sono finite per ostentare le loro divisioni». Una via d'uscita dai particolarismi è l'ecumenismo. Chiediamo a Mons. Sarkissian come traduca a livello locale il suo noto impegno ecumenico regionale e internazionale.

«Propongo spesso ai miei colleghi di tenere i nostri incontri in Iran» risponde. «Nel 2001, il comitato esecutivo del Consiglio delle Chiese del Medio Oriente (MECC) si è riunito qui a Teheran. Di nuovo, all'inizio di quest'anno, i giovani cristiani del Medio Oriente hanno scelto l'Iran per il loro raduno annuale. Oltre, ovviamente, ai periodici incontri con i capi delle altre Chiese cristiane: caldea, armeno-cattolica, protestante e assiro-protestante»

Un abbozzo di collaborazione che non sembra aver risolto tutti i malintesi tra le diverse comunità. Mons. Neshan Karakeheyan, di origine greca, è dal febbraio 2001 vescovo della piccola comunità armeno-cattolica, ridotta a sole 150 famiglie (e nessun prete) dopo la partenza di parecchi fedeli per l'America e l'Europa. «I gregoriani, lamenta, hanno approfittato della nostra assenza temporanea per impadronirsi di una nostra scuola». Non ha chiesto l'intervento del vescovo gregoriano? «Purtroppo non ha potuto fare nulla perché, presso la comunità gregoriana, è il Majles-e melli, il Consiglio comunitario costituito dai laici, a prendere le decisioni. Invece le altre due scuole le abbiamo recuperate grazie alla mediazione del prelato palestinese Hylarion Cappucci, che intrattiene buoni rapporti con l'Iran». I 700 studenti, tutti armeni perché è vietato accogliere dei musulmani, seguono lezioni di lingua armena e di catechismo oltre al curriculum ufficiale.

Un motivo di protesta comune a tutti i cristiani è proprio il catechismo. Il libraio ci guarda con un'aria stupita quando ci vede rastrellare tutte le versioni disponibili del Ketob-e ta'limat-e dini, il manuale di religione a uso esclusivo delle minoranze non islamiche. Sul frontespizio non manca mai (come è il caso in alcune sale parrocchiali) la foto dell'Ayatollah Khomeini, simbolo della nuova realtà nonché del controllo esercitato dal Ministero dell'Orientamento islamico (Ershad) sull'insegnamento religioso. «Questo manuale è chiaramente sincretista» assicura Mattia, un professore assiro-caldeo. «D'altra parte, aggiunge, nella scuola iraniana l'Islam permea tutte le materie, dalla letteratura alla lingua. Nel catechismo, basta sostituire la parola Khoda (Dio, in persiano) con Allah, dìn (religione) con Islam e nabi (profeta) con Mohammed per capire che si tratta di un'iniezione velata di Islam nelle ore di religione», che sono cinque alle elementari e tre alle medie. Mattia sottolinea anche che il voto all'esame di religione è assegnato per metà dalla Chiesa e per l'altra metà dal Governo. «Non siamo soddisfatti né del contenuto né dello stile domanda-risposta del libro» dice Mons. Garmou. «Questo manuale è stato preparato all'indomani della rivoluzione in circostanze particolari e va perciò cambiato. è già al lavoro su una nuova edizione un'équipe di esperti di quattro Chiese. Ci auguriamo di ottenere il consenso delle autorità per metterlo in circolazione già nel prossimo anno accademico». Molti lamentano la poca preparazione dei professori assegnati all'insegnamento religioso. «Alcuni dice Mons. Karakeheyan vogliono solo arrotondare lo stipendio. Uno ha addirittura affermato davanti agli studenti che Cristo non è Dio!».

L'Islam non permea comunque solo le materie scolastiche, ma ogni aspetto della vita in Iran. Accendi la tivù e ti imbatti in pellegrini sciiti che si battono il petto ascoltando la lamentosa narrazione dell'assassinio dell'Imam Hussein a Karbala. Alzi la cornetta del telefono in una cabina pubblica e ti appare un'esortazione dello stesso Imam che recita: «Se non avete nessuna religione, abbiate perlomeno uno spirito libero in questa vita». A Teheran, le gigantografie dei "martiri" ed eroi della rivoluzione islamica occupano i punti principali: Beheshti, Madani, Mofateh, ma anche l'egiziano Khaled Islambouli, l'ufficiale autore dell'assassinio del Presidente Anwar al-Sadat. Di fronte alla centralissima cattedrale armena di San Sergio, viale Nejatollahi, un pannello raffigura il Mahdi, l'Imam atteso dagli sciiti, in groppa a un cavallo. Sopra, una scritta afferma che «Cristo tornerà insieme con il Mahdi a instaurare ovunque la giustizia».

Nel cortile della cattedrale, un gruppo di giovani armeni è intento a chiacchierare. Il sogno di tutti, o quasi, è di costruirsi un futuro in Europa o in America. Solo Marina vorrebbe rimanere in Iran «per non lasciare i genitori da soli». Secondo molti interlocutori il sogno di andare altrove esprime la situazione di una Chiesa "ghettizzata" e ridotta a sopravvivere in un'apparente sterilità spirituale e apostolica in un Paese dove la libertà di culto e di associazione è autorizzata solo all'interno dei luoghi di culto.

Mons. Garmou non nasconde la sua preoccupazione circa le ripercussioni della fuga dei cristiani dall'Iraq, suo Paese d'origine, sulla missione della Chiesa in Iran. «La Chiesa irachena rappresenta per noi, dice, ciò che rappresenta il Libano per i cristiani di Siria o di Giordania. Se le nostre retrovie cedessero, cosa ne sarà di noi?». L'emigrazione tocca la piccolissima comunità nelle sue forze vive, le élites e i giovani: oltre 10mila partenze negli ultimi 25 anni. Le sue conseguenze sono perciò gravi: invecchiamento e indebolimento della comunità locale, difficoltà per i giovani di riuscire a trovare uno sposo cristiano e calo delle vocazioni sacerdotali. «Oggi, due nostri seminaristi si stanno formando a Roma e uno a Parigi. Così, a luglio, celebreremo a Teheran la prima ordinazione da molti anni e un nuovo sacerdote si unirà agli attuali quattro preti (iraniano, iracheno, indiano e francese). Malgrado ciò, quanto cerchiamo di elaborare per i nostri giovani sembra costruito sulla sabbia. Basta dare un'occhiata ai nominativi cancellati sulle nostre agende telefoniche per capire le dimensioni del fenomeno».

La nota pessimistica è spazzata via sulle rive del fiume Zoyandeh-Rud, a Isfahan. Nel vicino sobborgo di Nuova Giulfa, vivono i discendenti dei 20mila cristiani deportati quattro secoli fa dall'Armenia dallo Scià Abbas. Nel Vank, il monastero armeno terminato nel 1664, incontriamo il giovane Vescovo Papken Charian, giunto dal Libano solo pochi mesi fa. «A Isfahan disponiamo di 12 chiese e altre 12 sono sparse nel resto della diocesi: Shiraz, Ahvaz e Abadan. Cerchiamo di utilizzarle tutte per non rischiare la chiusura di quelle non operative. Per lo stesso motivo, alcuni nostri fedeli vanno talvolta a messa dal sacerdote lazarista della chiesa latina di Isfahan, ormai priva di una comunità». Mons. Charian ci accompagna nell'antica cappella di Betlemme i cui affreschi ricordano da vicino l'arte rinascimentale italiana. A pochi metri sorge il museo armeno dove sono custodite importanti opere d'arte. «Durante le vacanze del Norouz» (il Capodanno persiano, ndr) dice compiaciuto Charian «ben 70mila visitatori musulmani hanno potuto ammirare la prima stamperia arrivata in Iran e portata nel 1641 dall'armeno Khachadour Ghesaratzi, oltre ai quadri, antichi vangeli, manoscritti e oggetti d'arte cristiana». «Con questi introiti aggiunge finanziamo la costruzione di alloggi per le giovani coppie armene per aiutarle a costruirsi un futuro qui».

Del rapporto con i musulmani, Charian dice che è buono. «Contravvenendo alle norme, le autorità hanno ultimamente nominato un direttore cristiano in una scuola armena. E noi apprezziamo molto questo gesto». Le opinioni sulla politica religiosa ufficiale sono comunque divergenti. «Gli iraniani vogliono farsi belli sulla scena internazionale», dice un diplomatico di stanza a Teheran. «Si compiacciono nel ripetere che tre seggi al Majles (il Parlamento, ndr) sono riservati ai cristiani, due agli armeni e uno agli assiro-caldei, nonostante il loro numero ridotto. Ma è il nocciolo duro del regime ad esprimere le reali intenzioni degli ayatollah. Tutto il resto, comprese le mosse di Khatami, sono come fumo agli occhi». La speranza sta in un approccio diverso al rapporto Religione-Stato.

Un'indicazione in questo senso si è avuta nell'incontro pubblico organizzato nella Moschea di Hosseiniyeh Ershad da noti esponenti liberali tra cui Mohsen Kadivar, Hashem Aghajari, Mostafa Badkoubehei, Yussuf Eshkevari e Ali Shariati, molti dei quali hanno scontato condanne al carcere per le loro idee riformiste. Apparentemente, l'incontro intendeva illustrare l'operato di Giovanni Paolo II e la sua difesa della libertà e dei valori umani, ma era chiaro che, nell'intenzione degli organizzatori, c'era soprattutto la volontà di criticare il sistema teocratico iraniano. «Sono un essere umano, ma per caso sono anche iraniano dice Eshkevari, parafrasando Rousseau e la condizione di tutti gli esseri umani è la libertà». Poi aggiunge tra gli applausi: «Quando il potere si veste di religione inizia la catastrofe. Quando il Papa ha fatto il Re ha disonorato la religione». L'incontro è l'occasione di ripercorrere gli influssi cristiani sulla cultura persiana. Tra il pubblico siede Jamaleddin, uno studente universitario. Ha tracciato i suoi pensieri su un foglio: «Giovanni Paolo II desiderava un mondo per tutti i popoli della terra e per questo l'abbiamo amato anche noi. Il popolo iraniano non vuole la guerra, ma il dialogo con tutti, indipendentemente dal loro credo religioso». «Non esiste in lingua farsi una terminologia cristiana», afferma Mattia. «Ma grazie alla sua sensibilità, la poesia trecentesca del mistico Hafez di Shiraz aiuta molti iraniani a conoscere il Dio-Amore del cristianesimo. La rivoluzione islamica ha risvegliato presso molta gente una ricerca profonda, gente che si è posta certi interrogativi quando hanno visto che la guerra si faceva in nome di Dio».

In una chiesa deserta di Teheran, la devozione di quattro ragazze musulmane attira la nostra attenzione. «Mi vergogno di aver conosciuto Gesù Cristo così tardi» dice Negar che lavora come interprete. Parastoo dice di venire in chiesa una volta la settimana «per trovare la pace». E come preghi? «Prego Hazrat Mariam (la Madonna, ndr) dicendo: Signora della Terra, io credo nel tuo Dio, che è anche il mio, in tuo Figlio, Issa (Gesù), e nella tua religione. Aiutami ad essere una brava persona e stai sempre al mio fianco».

 

Tra Imperi e Ayatollah

Il cristianesimo in Iran si è sviluppato in un contesto assai particolare. Anzitutto, è nato in un ambiente religioso iranico (manicheo e mazdaico), al di fuori dell’influenza romano-bizantina delle altre Chiese primitive. Poi, nel V secolo, ha abbracciato l’eresia nestoriana per sganciarsi dalla gerarchia antiochena e sfuggire alle accuse di connivenza con i nemici dell’Impero sassanide, quando non alle persecuzioni (in particolare sotto il regno di Shapur II e di Bahram V, sec. IV-V). La sorte dei cristiani persiani conobbe qualche miglioramento sotto il regno di Cosroe II (590-628), grazie alla conversione della moglie del sovrano. Ma la sconfitta persiana davanti ai conquistatori arabi fu rapida. In alcune città abbandonate dalle guarnigioni, furono i vescovi nestoriani a negoziare la resa. Alla relativa tolleranza degli Abbassidi e dei Buyyidi seguì il rigore dei Selgiuchidi. Nei secoli XIII e XIV sono, invece, le invasioni mongole a spingere i cristiani a ripiegare verso le zone montuose del lago Urmia. L’adesione dei Safavidi all’islam sciita mise la Persia in conflitto con l’Impero ottomano sunnita. I cristiani residenti nelle zone disputate finirono per pagare il prezzo delle incessanti guerre tra le due potenze. All’inizio del XVII secolo, lo Scià Abbas I (1587-1629) decise di trasformare l’Armenia in una terra di nessuno per proteggersi da un’eventuale controffensiva ottomana. Procedette così, tra il 1604 e il 1617, alla deportazione forzata di 20 mila armeni in Persia, in particolare in un sobborgo di Isfahan, la capitale imperiale, chiamato Nuova Giulfa. Una presenza che contribuì presto alla fioritura artistica della Persia e all’instaurazione di rapporti con le corti europee. Alla minaccia ottomana si sostituì, nel secolo XIX, la lotta d’influenza russo-britannica. Nel 1828, in seguito alla guerra russo-persiana, 35 mila armeni dovettero lasciare il Paese per rifugiarsi in Russia. Lo stesso scenario si ripeté con gli assiro-caldei dell’Azerbaigian iraniano nel corso della Prima guerra mondiale. L’instaurazione nel 1979 della Repubblica islamica guidata dall’Ayatollah Khomeini apriva un nuovo capitolo nella storia della Chiesa.

 

Chi Sono gli Armeni Gregoriani?

La denominazione si richiama a San Gregorio Illuminatore, che convertì il Regno armeno agli albori del IV secolo. La Chiesa Armena gregoriana è una chiesa apostolica non-calcedoniana. Separatasi da Bisanzio al tempo delle grandi controversie cristologiche (più per ragioni di politica ecclesiale che dogmatiche), la Chiesa Gregoriana è largamente maggioritaria in Armenia. Non è unita a Roma, ma intrattiene buoni rapporti con la Chiesa Cattolica. Oggi l'autodenominazione preferita e ufficiale è quella di Chiesa Armena Apostolica.

 

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Intervista a Fahimeh Mousavi Nezhad, Direttrice dell'Istituto per il dialogo interreligioso di Teheran

Nella condizione in cui viviamo è difficile promuovere un dialogo interreligioso diverso da quello della condivisione della vita quotidiana con gli iraniani musulmani», affermava nel 1999 un prelato iraniano in un incontro religioso. «Tuttavia aggiungeva non siamo d'accordo con gli specialisti di altre Chiese che, dall'estero, vengono in Iran con questo scopo dimenticandosi che tale dialogo non può ignorare la Chiesa locale, quanto piccola essa sia». Desiderio esaudito. L'anno successivo nasceva a Teheran l'Istituto per il dialogo interreligioso (IIR) grazie all'iniziativa di alcuni intellettuali musulmani tra cui la signora Fahimeh Mousavi Nezhad che oggi lo dirige. L'abbiamo incontrata nella sede dell'istituto a Teheran.

Che cosa vi ha spinto a fare questo passo?

Anzitutto, la coerenza con noi stessi. Tutti gli incontri di dialogo cui partecipavamo si svolgevano all'estero, mai in Iran. Abbiamo così pensato di far qualcosa per promuovere il crescente bisogno di comprensione tra le differenti religioni anche qui.

L'Iran evoca nel mondo un'idea di omogeneità religiosa come Paese sciita...

Questo è un cliché che intendiamo correggere. L'Iran è sempre stato nel corso della Storia una terra di incontro e convivenza tra fedi diverse. Vi si trovano ancora importanti comunità islamiche sunnite, ma anche cristiane, ebraiche e zoroastriane.

Che senso ha, secondo lei, dialogare in Iran con delle minoranze non islamiche così esigue?

La necessità del dialogo non deve venire meno. Queste minoranze apprezzano molto l'importanza del nostro lavoro. Se il Presidente Khatami ha sempre propugnato il dialogo tra le civilizzazioni, è fuori dubbio che quello religioso ne costituisce una parte essenziale.

Siete quindi un'istituzione governativa?

No, siamo una ONG e i nostri fondi arrivano in parte da donazioni di alcuni istituti stranieri, in parte dalla municipalità di Teheran nel quadro del sostegno alle attività culturali previsto dalla legge.

In che cosa consistono le vostre attività?

Nell'organizzazione di seminari e conferenze su temi specifici cui partecipano relatori musulmani e cristiani. Tra quelli trattati posso menzionare: "per un dialogo interreligioso genuino e autentico"; "come si svolge il dialogo cristiano-islamico?"; "l'approccio anglicano al dialogo cristiano-islamico". In altri incontri abbiamo coinvolto esponenti ebrei e zoroastriani. L'Istituto pubblica inoltre una rivista bimestrale, con contributi di autori iraniani e stranieri, che intende fornire informazione religiosa internazionale, recensioni di libri e presentazione di altri istituti di dialogo. Mettiamo, infine, a disposizione di ricercatori e universitari una biblioteca con centinaia di titoli sulle religioni del mondo, monoteistiche e non.

Secondo lei, è più importante il dialogo tra capi religiosi oppure il "dialogo della vita" tra fedeli?

Entrambi sono essenziali. Devo molto in questa convinzione ai tre anni che ho trascorso con mio marito, Seyyed Ali Abtahi (già consigliere di Khatami, ndr), in Libano.

Avete incontrato delle resistenze da parte del clero islamico?

Da parte di alcuni esponenti conservatori, sì. C'è chi concepisce il dialogo come un cedimento sulla fede. è nostro compito spiegare che si tratta, invece, di dare ascolto all'altro.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Camille Eid, Il catechismo con lo sguardo di Khomeini, «Oasis», anno I, n. 2, settembre 2005, pp. 86-92.

 

Riferimento al formato digitale:

Camille Eid, Il catechismo con lo sguardo di Khomeini, «Oasis» [online], pubblicato il 1 settembre 2005, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/il-catechismo-con-lo-sguardo-di-khomeini.

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