L’Iran tra aspirazione messianica e gestione della rivoluzione
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:06
La credenza dell’Occultamento interiorizza il fallimento politico degli inizi, cioè il mancato governo della comunità musulmana, e porta ad una secolare esclusione degli sciiti da qualsiasi forma di egemonia. Con l’ascesa dei Savafidi tutto cambia.
Lo sciismo è nato alla morte del Profeta (632) dal rifiuto della soluzione politica adottata dalla maggioranza dei musulmani (sunniti) e rivendicando la legittimità trasmessa dal Profeta stesso ad Ali, poi da Ali al figlio maggiore (il Primo Imam), e da ciascun Imam al suo successore, fino al dodicesimo, occultatosi agli occhi dei fedeli nell’874. La credenza nell’Occultamento è il coronamento dell’interiorizzazione, da parte degli sciiti, del proprio fallimento politico: non hanno governato la comunità musulmana perché il loro potere è di ordine spirituale. Le esperienze di Ali (il quarto califfo, 656-661), e dell’ottavo Imam, Rezâ, designato successore del califfo abbaside al-Ma’mûn (817) poco prima di essere assassinato, non fanno che mettere in luce la rinuncia a governare politicamente i credenti.
L’Occultamento ha anche un significato escatologico: nell’attesa del ritorno dell’Imam, alla fine dei tempi, tutto è sospeso a questa “presenza-assenza”. Il potere spirituale, il magistero del sapere religioso, trova le sue fonti e la sua legittimità solo nella tradizione degli Imam, e quando gli ‘ulamâ’ devono rendere pubbliche le loro risposte alle domande dei credenti, lasciano aperta la possibilità di una fonte di ispirazione esoterica comunicata dall’Imam attraverso mezzi non razionali come il sogno. Il Dodicesimo Imam è definito anche l’Imam occulto, colui che fa risorgere, oppure il Mahdi (“salvatore escatologico”), a seconda che si cerchi di farne un’entità virtuale o il polo di una credenza escatologica.
Assai più complesso è il piano politico, dal momento che la rinuncia di fatto al potere politico ha escluso per secoli gli sciiti da qualsiasi forma di egemonia. Minoranza in un mondo musulmano governato dai sunniti, essi hanno adottato soluzioni contraddittorie e hanno spesso accettato compromessi: collaborando con uno stato sunnita hanno evitato le persecuzioni e permesso la trasmissione, il più delle volte clandestina, della fede sciita. Permettevano alla società umana di funzionare riducendo al minimo la violenza. Tuttavia essi hanno sempre virtualmente mantenuto una riserva rispetto alla loro fedeltà politica: l’unico vero sovrano legittimo è l’Imam e l’obbedienza al potere politico resta sospesa nell’attesa del suo ritorno per «instaurare un regno di giustizia e verità». Il miglior esempio di questo pragmatismo è la coabitazione a Bagdad, dal 932 al 1062, di una dinastia iraniana sciita, i Buyidi, che ha dominato e governato l’impero abbaside senza destituire il califfato sunnita, lasciato simbolicamente in carica.
La presa del potere in Iran, a partire dal 1501, di una dinastia di sufi sciiti, i Safavidi, che obbligavano i sudditi a dichiararsi sciiti, ha cambiato tutto. Per governare il loro impero essi fecero appello agli ‘ulamâ’ sciiti, che amministravano la giustizia e assicuravano il servizio della preghiera e dell’insegnamento. I sovrani, che rivendicavano il prestigio di discendere dal Profeta e dagli Imam, giustificavano l’esercizio del loro potere tramite una legittimità messianica: avversari dell’impero ottomano sunnita, tentavano di radunare intorno a sé l’insieme dei musulmani. Nonostante un periodo brillante, testimoniato dai monumenti di Ispahan e dal rinnovamento delle scienze islamiche, e pur avendo regnato per molte generazioni su un grande impero, i Safavidi persero il loro carisma ben prima di essere destituiti dagli invasori afgani, nel 1722.
La questione del potere politico si ripresentò con la dinastia sciita dei Qâjâr che regnò in Iran dal 1779 al 1925. La rivolta di Mohammad-Ali, il Bâb, verso la metà del XIX secolo, spinse agli estremi alcune tendenze escatologiche dello sciismo tradizionale. Il Bâb si definiva il rappresentante dell’Imam, poi l’Imam stesso o addirittura il Profeta. Per soffocare la nuova religione, gli ‘ulamâ’ si allearono con Nâser od-Dîn Shâh (r. 1848-1896) ma non tardarono a rivoltarglisi contro.
Giustiziato sulla pubblica piazza
Nella lotta contro l’assolutismo gli ‘ulamâ’ moderati si allearono con i politici riformatori. Nel 1906 ottennero la promulgazione di una Costituzione parlamentare, nella quale il ruolo della religione risultava problematico. Gli ‘ulamâ’ più conservatori si coalizzarono contro i costituzionalisti e, in seguito alla vittoria definitiva di quest’ultimi, un grande teologo sciita di Teheran, lo shaykh Fazlollâh Nuri, fu giustiziato sulla piazza pubblica (1909). Questo evento allontanò dalla corrente riformista e modernizzatrice la maggioranza degli ‘ulamâ’ iraniani, che furono emarginati e formarono a Qom (un centro di pellegrinaggio e d’insegnamento islamico situato a 120 km a sud di Teheran) il nucleo di una resistenza alla secolarizzazione della società iraniana.
Anche se tra loro vi erano dei riformatori, partigiani del compromesso volto a mantenere il posto dell’Islam nella cultura iraniana moderna, i più radicali, come l’ayatollah Khomeini a partire dagli anni ‘60, rifiutarono il sistema politico basato sui principi della democrazia. Bisogna dire che i governi, in seguito al colpo di stato contro Mosaddeq (1953), non fecero altro che alienare il popolo iraniano dai suoi dirigenti e dalle sue istituzioni, favorendo risposte estremiste da parte dell’opposizione: censura, sospensione delle libertà politiche, corruzione, occidentalizzazione esagerata in sfregio alle tradizioni islamiche.
Due ideologie dominarono il campo islamico prima della rivoluzione. L’ayatollah Khomeini sviluppò durante il suo esilio (1964-1979) un rifiuto categorico della legittimità democratica e valorizzò, al contrario, il ruolo degli ‘ulamâ’ come eredi del potere temporale del Profeta. In attesa del ritorno dell’Imam nascosto, la società dei musulmani non poteva, secondo lui, vivere nel caos e doveva essere amministrata per preparare il ritorno dell’Imam facendo rispettare la legge divina e la giustizia. Così, sistematizzando un principio giuridico sciita che, nella tradizione, valeva esclusivamente per la protezione delle vedove e degli orfani, Khomeini accordò al giurista più rispettato dai suoi pari lo statuto di vali, ovvero protettore e governatore allo stesso tempo, in nome dell’Imam e durante la sua assenza. Si tratta del “governo del giurista-teologo” (velâyat-el-faqih).
Secondo Ali Shari’ati (m. 1977) invece, gli ‘ulamâ’ hanno corrotto l’Islam facendo causa comune con il potere imperiale a partire dai Safavidi. Sono complici della deviazione del sentimento religioso verso credenze superstiziose. Il loro silenzio sull’ingiustizia sociale commessa a partire dalla Rivoluzione costituzionale del 1906 tradisce la loro incapacità di rispondere ai bisogni degli uomini. Shari’ati lancia l’idea di un «Islam senza mullah», riprendendo l’espressione di Mosaddeq in occasione dell’embargo petrolifero (1951-53), «l’economia senza petrolio». Ciò non significa che si possa fare a meno di un’élite per guidare la società, quanto piuttosto che è necessario cercare un’avanguardia tra gli intellettuali che hanno compreso il significato rivoluzionario dell’Islam, una religione sociale che raccomanda la giustizia, l’uguaglianza, la libertà di tutti. Shari’ati si muove in direzione di un Islam piuttosto secolarizzato, facendo comunque appello ai temi tradizionali dello sciismo, quali il martirio dell’Imam Husayn nella lotta contro la corruzione e l’iniquità, il principio della “giustizia di Dio”, l’attesa del ritorno dell’Imam, eccetera...
La pratica politica
Quando gli “esperti” eletti dal popolo iraniano si riunirono nel 1979 per elaborare una Costituzione, la loro prima preoccupazione fu quella di scongiurare qualsiasi possibilità di un ritorno alla monarchia e alla dittatura, oltre che di conservare tutto ciò che durante le conquiste politiche del periodo costituzionale era stato orientato verso la modernità e la democrazia[1]. Contrariamente alle preoccupazioni suscitate dal ruolo crescente del clero nella nuova repubblica e alle posizioni anteriori dell’ayatollah Khomeini, le regole elementari della democrazia furono preservate: la sovranità popolare si esercita per mezzo del suffragio universale, le donne partecipano alla vita politica, le libertà individuali sono riconosciute (artt. 5 e 6 e artt. 19-43 della Costituzione). Anche se i diritti individuali trovano giustificazione nella logica religiosa, in questi articoli si afferma un certo personalismo: l’individuo ha dei diritti che lo Stato deve far rispettare e lo sviluppo armonioso della persona è l’obiettivo del governo islamico (preambolo; art. 3).
A questa dimensione umanista, gli estensori della Costituzione hanno aggiunto il principio, spesso denunciato come teocratico, che fa riferimento a un ordine basato essenzialmente sulla rivelazione coranica e sulla tradizione sciita. Dopo una citazione coranica che stabilisce l’origine divina dell’ordine sociale[2], il lungo preambolo descrive la Costituzione come «emanazione delle istituzioni culturali, sociali, politiche ed economiche della società iraniana», a loro volta «fondate sui principi e sui criteri dell’Islam, che fanno eco alla volontà profonda della comunità islamica dei credenti».
Nella definizione del regime della repubblica islamica, il carattere sciita si afferma chiaramente già all’articolo 2 che fa riferimento alla «giustizia di Dio», all’imamato (la guida dei credenti ad opera dell’Imam), e alla funzione interpretativa (ejtihâd) svolta dai giuristi-teologi, cioè al magistero del clero, tre nozioni assenti nel sunnismo. L’articolo 5 definisce il potere politico secondo una visione puramente sciita: «Durante l’occultamento di Sua Santità il Signore del Tempo [l’Imam nascosto], la reggenza esecutiva e la direzione della comunità islamica dei credenti nella Repubblica islamica d’Iran spettano al giureconsulto religioso giusto, virtuoso, cosciente delle problematiche dell’epoca, coraggioso, capace di governare […] ». Anche se, di fatto, dopo Khomeini la Guida sarà eletta da una commissione di esperti designati per mezzo del suffragio universale, si tratta comunque di un blocco delle istituzioni, dotato di un potere immenso sull’apparato politico, giuridico e militare, che impedisce qualsiasi processo democratico.
Khomeini, in funzione del quale è stato definito il principio della velâyat-e faqih e il cui pensiero aveva svolto la funzione di ideologia volta alla clericalizzazione del sistema politico, inizialmente ha ceduto su diversi punti importanti di fronte delle esigenze politiche. Ha accettato una sovranità popolare che si esprimeva tramite le elezioni e né l’uguaglianza civile delle donne né le libertà dell’individuo sono state messe in discussione. Inizialmente egli volle lasciare la gestione quotidiana della Repubblica a dei politici musulmani laici. Poi gli ‘ulamâ’ sono intervenuti sempre più apertamente nel governo, in qualità di ministri, deputati, presidenti del Parlamento e infine anche nella funzione di presidente della Repubblica[3].
Paradossalmente il presidente Khâtami, pur indossando il turbante, ha operato apertamente per far emergere quella che chiamava «la società civile» (jâme’a-ye madani), mentre il vecchio guardiano delle rivoluzione che gli è succeduto, e che non indossa il turbante, sembra sostenere una visione messianica del mondo in cui l’attesa del ritorno dell’Imam è spesso evocata come un’eventualità prossima in un momento in cui il clero sembra dominare le milizie.
Il ritorno del Mahdi
Per comprendere questo paradosso è necessario ricordare la grande varietà di tendenze che continuano, dopo la Rivoluzione, a spartirsi il terreno ideologico dell’Islam politico.
L’intervento in politica “in nome dell’Imam” è stata un’innovazione letteralmente rivoluzionaria in una religione che da molti secoli aveva rinunciato a rivendicare la partecipazione diretta degli ‘ulamâ’ al potere politico. Alcuni ‘ulamâ’ predicavano una grande prudenza nella collaborazione con poteri che, in qualsiasi momento, avrebbero potuto essere denunciati come usurpatori delle prerogative del dodicesimo Imam. Così, durante i primi anni della rivoluzione, quando i partigiani di Khomeini nel corso delle manifestazioni ripetevano lo slogan «O Dio, custodisci tra di noi Khomeini fino al ritorno del Mahdi», i membri dell’associazione Hojjatiyya, un movimento creato negli anni ’50 per lottare contro i bahâ’î (accusati di aver apostatato dall’Islam), rifiutavano la compromissione dei religiosi negli affari dello Stato e affermavano la trascendenza della credenza religiosa, completando lo slogan con le seguenti parole anti-khomeiniste: «O Mahdi, vieni, affrettati!».
Al contrario, tra i partigiani estremisti della linea khomeinista alcuni vedono nella deriva riformista e democratica la trappola che potrebbe snaturare il potere islamico. L’ayatollah Mohammad-Taqi Mesbâh-e Yazdi (nato nel 1934) definisce la Repubblica islamica insistendo sulla legittimità teocratica. Il popolo, secondo lui, ha svolto solo una funzione ausiliare nella formazione di un regime islamico e l’appellativo “repubblica” non è altro che una facciata per aiutare l’Imam del Tempo ad affermare il potere della Guida (Khomeini e poi, a partire dal 1989, l’ayatollah Khamenei). Una tale affermazione non è marginale, se si considera che Mesbâh-e Yazdi è il mentore ufficiale del presidente Ahmadinejad. Quest’ultimo non perde occasione per ricordare il posto che deve occupare il Dodicesimo Imam nello Stato iraniano: a lui è riservato un seggio nel consiglio dei ministri e quando il presidente si sente ispirato, come in occasione del suo discorso all’Assemblea generale dell’ONU a New York nel 2006, descrive l’alone di luce di cui l’Imam lo circonda.
Nel febbraio 2011, un istituto vicino alla Guida Khamenei invitava i ricercatori a partecipare a un simposio internazionale sul mahdismo (il messianismo legato al ritorno dell’Imam Mahdi) e dichiarava: «La missione di coloro che attendono è realizzare una comunità pronta e attiva. La preparazione non è altro che il senso del dovere, l’adempimento agli obblighi che l’individuo e la comunità sciita hanno nei confronti dell’Imam occulto, e la realizzazione dei suoi obiettivi. Una comunità pronta nell’attesa è quella che orienta le sue aspirazioni, le sue relazioni e i suoi programmi nella stessa direzione degli obiettivi e delle aspirazioni dell’Imam»[4].
Questa non è l’unica interpretazione dell’Islam. Da un lato si scontra con l’attitudine tradizionalmente riservata dei teologi sciiti che i sociologi definiscono «quietismo», il rifiuto d’intervenire negli affari politici, posizione questa dell’ayatollah Sistâni, un iraniano residente a Najaf, in Iraq, (nato nel 1930) e una delle più alte autorità sciite contemporanee. Infine, l’ostacolo maggiore del messianismo sciita è l’opportunità politica: né all’interno dell’Iran, dove i bisogni sociali ed economici non hanno nulla a che vedere con il potere dell’Imam, né all’esterno questo discorso può essere affrontato senza inconvenienti. Serve solo a tenere sul chi va là i partigiani del regime, sorpresi di vedere il Paese invaso dalla corruzione, dalla violenza e dal secolarismo.
Davanti all’impossibilità di esportare la loro rivoluzione al di fuori delle regioni a maggioranza sciita (Iraq, Libano) e per attenuare l’ossessione suscitata nei paesi sunniti dall’emergere – piuttosto esagerato – di una “mezzaluna sciita”, i dirigenti iraniani hanno la tendenza, per restare credibili nel mondo musulmano, a tacere gli aspetti più sciiti del loro messianismo e a utilizzare piuttosto la causa palestinese per mettersi alla guida di una lotta popolare contro lo Stato sionista e contro l’egemonia americana, un atteggiamento con il quale nessun leader musulmano può attualmente competere.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
[1]Constitution de la République islamique d’Iran, 1979-1989, traduzione, introduzione e note a cura di Michel Potocki, l’Harmattan, Paris 2004.
[2]«Già inviammo i Nostri Messaggeri con prove chiarissime e rivelammo il Libro e la Bilancia, perché gli uomini osservassero l’equità». (Corano 57,25)
[3]Khâmenei (1981-), Hâshemi-Rafsanjâni (1989-), Khâtami (1997-2005).
[4]L’istituto Âyanda-ye rowshan (Avvenire brillante) definisce se stesso come un «laboratorio per la salvezza della fine dei tempi», cfr.
Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Yann Richard, Quel tempo sospeso in attesa dell’Imam, «Oasis», anno VII, n. 13, luglio 2011, pp. 35-39.
Riferimento al formato digitale:
Yann Richard, Quel tempo sospeso in attesa dell’Imam, «Oasis» [online], pubblicato il 1 luglio 2011, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/quel-tempo-sospeso-in-attesa-dell-imam.