Non è stata la lingua persiana ma lo sciismo a cristallizzare l’unità dello Stato moderno. Ed è per questo che la cacciata dello Scià e l’instaurazione della Repubblica Islamica hanno potuto appoggiarsi su una tradizione ben radicata nell’identità nazionale.

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:36:06

L'identità politica dell’Iran moderno si è plasmata nel XVI secolo, quando i capi della tribù turca dei safavidi hanno fatto dell’Islam sciita la religione ufficiale della Persia, favorendo, a costo di conversioni forzate, l’unificazione di numerose etnie della Persia attorno a questa setta dell’Islam, come controparte all’Impero ottomano sunnita. Non è stata dunque la lingua persiana ma lo Sciismo a cristallizzare l’unità dello Stato iraniano moderno all’interno di frontiere territoriali rimaste globalmente stabili e incentrate sull’altopiano iraniano.

A partire dal 1923 l’Iran contemporaneo dei Pahlavi cercò di costruirsi una nuova identità e una coesione attorno all’antico Iran e alla cultura persiana. I Pahlavi misero ai margini l’Islam sciita, considerato il principale sostenitore di un passato ormai concluso, anche se da oltre un secolo il clero svolgeva un ruolo centrale nelle rivendicazioni politiche e sociali dell’Iran. Assegnando all’Islam sciita un posto centrale ed esclusivo, la rivoluzione islamica del 1979 si è dunque iscritta in una tradizione politica e religiosa antica e ben radicata nell’identità nazionale iraniana.

La visibilità del clero sciita ai vertici del potere, per quanto curiosa, non rappresentava una realtà totalmente nuova per i Paesi della regione, i quali hanno sempre percepito la Persia come un Paese sciita, il solo Stato sciita del mondo musulmano. In Occidente, l’Islam politico è parso al contrario come un fatto politico nuovo, una dinamica geopolitica poco conosciuta, dai metodi e dagli obiettivi inquietanti. Il timore che i Paesi del mondo islamico nutrivano nei confronti dell’Iran khomeinista non riguardava tanto il suo carattere sciita tradizionale, quanto la sua nuova dinamica “repubblicana” e l’interazione di questi due fattori.

L’esportazione della Rivoluzione islamica iraniana si è dunque contrapposta, simultaneamente o alternativamente, all’establishment sunnita che dominava il mondo musulmano e ai regimi dispotici del mondo islamico. È in questo contesto allo stesso tempo politico e religioso che vanno analizzati i rapporti tra l’Iran sciita, minoritario e marginale, e gli Stati o le comunità sunnite maggioritarie. Le ambizioni politiche della nuova Repubblica islamica iraniana hanno mescolato Islam e repubblica, in un contesto internazionale legato al petrolio e quindi alle grandi potenze industriali, a cominciare dagli Stati Uniti.

Nonostante le apparenze, lo Sciismo è ben lungi dall’essere la sola o la principale componente della politica interna o estera della Repubblica islamica d’Iran, tanto che, per scelta o per costrizione, il peso del fattore sciita è spesso mutato da quando a Teheran hanno assunto il potere l’ayatollah Khomeini e il clero sciita. La politica estera dell’Iran opera su tre livelli (nazionale, islamico e internazionale) che possono sovrapporsi ma che possiedono anche dinamiche distinte e talvolta contraddittorie. Tentare di comprendere la politica regionale dell’Iran considerando esclusivamente l’aspetto islamico rischierebbe di occultare i fattori nazionalisti o le richieste delle nuove medie borghesie globalizzate.

La caduta del regime imperiale nel febbraio del 1979 fu una vera rivoluzione globale, al contempo politica, culturale, economica e sociale, e dagli effetti duraturi. Le dimensioni politiche nazionali e internazionali (l’opposizione alla politica americana, le idee repubblicane) erano quelle classiche, ma la dimensione sciita, poco conosciuta, ha scombinato le analisi. La maggior parte degli Stati non ha preso sul serio questo nuovo fattore religioso, considerandolo come irrazionale o, al contrario, vi ha attribuito un peso eccessivo. Quasi tutte le grandi potenze hanno perciò creduto che l’invasione dell’Iran da parte del governo “laico e razionale” di Saddam Hussein, nel settembre del 1980, avrebbe fatto cadere il nuovo regime sciita iraniano nel giro di qualche settimana.

La volontà di esportare la Rivoluzione islamica nella regione è ben nota; si tratta di un fenomeno comune a ogni rivoluzione. Inoltre, il nuovo potere sciita comprendeva gruppi politici islamisti i cui militanti avevano per lungo tempo frequentato, durante il loro esilio, le organizzazioni terzo-mondiste rivoluzionarie. Il controllo del potere da parte del clero ha favorito il rafforzamento mediatico e politico della dimensione religiosa della nuova repubblica, con la creazione di numerose istituzioni islamiche parastatali e di fondazioni che hanno moltiplicato le relazioni culturali, sociali e politiche con le comunità sciite esterne all’Iran ma anche con quelle sunnite.

L’Iran puntava a conquistare un posto di primo piano, se non addirittura dominante, nella umma, in tutta la comunità dei Credenti. L’unità dell’Islam era uno dei leit-motiv dei discorsi e delle ambizioni iraniane, ma questa prospettiva si è ben presto scontrata con la doppia resistenza dei sunniti e delle comunità sciite arabe che rifiutavano sia la dominazione iraniana, sia la dottrina della velayat-e faqih, secondo la quale il potere spettava alla Guida iraniana e non più agli ayatollah locali. Tanto l’appoggio dell’Iran, in qualità di unico e antico Stato sciita, era accettato e apprezzato dagli sciiti che abitavano fuori dall’Iran, tanto era contestata la sua ingerenza troppo diretta nella vita religiosa e politica dei Paesi vicini. Anche le monarchie e gli altri regimi arabi spesso dispotici hanno guardato con grave preoccupazione alla strumentalizzazione dello Sciismo e dell’Islam da parte dello Stato iraniano allora trionfante. Il pericolo costituito dalle reti sunnite dalle quali è poi nata al-Qa‘ida veniva all’epoca trascurato o utilizzato come contrappeso all’influenza iraniana.

 

La Rete degli «Shirazi»

Come ha mostrato in modo esemplare Laurence Louër, gli arabi sciiti non hanno atteso l’ayatollah Khomeini per affermare la propria volontà di riconoscimento da parte della maggioranza sunnita. A partire dagli anni ’20 del XX secolo, gli ‘ulamâ’ sciiti iracheni di Najaf, in particolare Mohammad al-Shîrâzî (1926-2001), hanno affermato idee innovative e politiche, soprattutto contro l’occupazione o l’influenza britannica, che hanno trovato larga eco in tutte le comunità sciite arabe del golfo Persico, in particolare in Kuwait, Bahrein e Arabia settentrionale. Dopo il 1979 gli “shirazisti” hanno apprezzato il sostegno iraniano alle proprie rivendicazioni, tanto più che con la repressione di Saddam Hussein numerosi ‘ulamâ’ sciiti arabi avevano lasciato Najaf per Qom. Ma la volontà egemonica del grande fratello iraniano e le divergenze ideologiche sul potere della Guida hanno presto avuto ragione, se non dell’influenza iraniana, almeno delle sue pretese egemoniche.

La turbolenza e le rivendicazioni che colpiscono in modo ricorrente gli sciiti nel mondo arabo o quelli di Afghanistan (Hazara) e Pakistan hanno innanzitutto origini locali e sono sostenute od organizzate più dall’antica rete degli “shirazi” che dai numerosi agenti iraniani inviati per favorire la vittoria dell’Islam rivoluzionario sotto l’egida dell’imam Khomeini. La rivolta degli sciiti in Bahrein nel 1981 è stata una delle rare operazioni iraniane all’estero. Guidata da militanti radicali non particolarmente legati alle reti shiraziste, la rivolta fu soffocata nel sangue. Il fallimento di questa rivolta mal organizzata e inutile ha causato il rifiuto fermo e duraturo di qualsiasi intervento iraniano diretto da parte degli sciiti di quest’isola, colonizzata dall’Iran prima di essere conquistata dalla tribù sunnita dei Khalifa nel XVIII secolo e indipendente dal 1971.

L’invasione del Libano da parte di Israele nel 1982 ha conferito una nuova dimensione alle relazioni, molto antiche, dell’Iran con gli sciiti libanesi. Fino a quel momento la Repubblica islamica non aveva fatto della lotta contro il sionismo e del sostegno ai palestinesi una priorità. Certo, Yasser Arafat era stato il primo “capo di Stato” a far visita all’Iran dopo la caduta dello Shah, ma non era stato invitato e Khomeini rifiutò di ricevere questo leader arabo laico. La causa palestinese e l’opposizione a Israele furono, malgrado tutto, integrati nel corpus degli slogan e delle ambizioni sbandierate dall’Iran rivoluzionario, ma senza reali conseguenze pratiche. Il conflitto israelo-palestinese era utilizzato dall’Islam sciita soprattutto come un “passaporto” per essere ammesso in un mondo musulmano composto al 90% da sunniti, per i quali la causa palestinese e l’ostilità a Israele erano un simbolo di consenso.

All’inizio della Rivoluzione i movimenti islamisti radicali iraniani, sostenuti dall’ayatollah Husayn-Ali Montazeri, allora successore designato di Khomeini, erano animati da Mohammad Montazeri, il figlio dell’ayatollah, e poi da Mehdi Hashemi, legato al corpo dei Guardiani della Rivoluzione (Pasdaran). Quest’organizzazione di sostegno alla Rivoluzione islamica nel mondo musulmano ha svolto una limitata azione di appoggio ai movimenti shirazisti, finché l’invasione del Libano le ha fornito l’occasione per tentare di assumere il comando della lotta contro Israele, quando alcuni Paesi arabi sunniti sono entrati in un processo di pace in seguito agli accordi di Camp David (1978). Era tra l’altro un modo per aprire un secondo fronte nella guerra Iraq-Iran. Questa priorità militare e ideologica contro Israele e di stretta collaborazione con il nuovo partito Hezbollah fu sostenuta da Khomeini, ma a condizione che «la strada di Gerusalemme transitasse per Kerbala», in altre parole, che la difesa del territorio nazionale contro l’aggressione irachena non passasse in secondo piano. Nel 1986 i pragmatici, sostenuti da Ali-Akbar Rafsanjani, uomo forte del regime islamico, misero fine all’azione del gruppo Hashemi che stava acquisendo troppa importanza. Mehdi Hashemi fu giustiziato nel 1987 e poco dopo l’ayatollah Montazeri fu eliminato dalla vita politica iraniana.

Gli interessi nazionali e strategici dell’Iran hanno così avuto la meglio sugli interessi e sulla strategia islamista, ma questa “realpolitik” non significa che la Repubblica islamica abbia abbandonato ogni ambizione in questo ambito. L’Iran aveva compreso che non gli era possibile, come Paese sciita, esercitare nel mondo musulmano un’influenza istituzionale forte, e tanto meno conseguire una posizione dominante. Questo ritorno alla realtà e a una certa moderazione ha permesso a Teheran di ospitare, nel 1997, l’incontro dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, anche se permaneva una diffidenza totale tra lo Stato iraniano sciita, popolato da 75 milioni di abitanti (di cui il 10-15% sunniti), e i suoi vicini. I discorsi anti-israeliani di Mahmud Ahmadinejad hanno dato al presidente iraniano una popolarità incontestabile nella “strada araba”, ma ciò non compensa il fatto che l’Iran sia tornato a essere il semplice protettore delle comunità sciite e non più il loro referente unico. Questo nuovo rapporto di forza si è consolidato a partire dal 2003, con la caduta dello Stato iracheno sunnita e l’emergere a Bagdad di un nuovo Stato arabo sciita. Si è allora parlato di una “mezzaluna sciita”, ciò che corrisponde alla realtà, ma non si può dire che l’Iran ne sia l’animatore e tanto meno il beneficiario.

È banale dire che l’Iran è un Paese emergente. Questo dato di fatto non è tanto il risultato della politica della Repubblica islamica, che ha isolato il Paese, quanto l’esito di un’evoluzione storica globale che riguarda anche gli altri Paesi della regione, che hanno conquistato maggior indipendenza dopo la fine della guerra fredda. Queste società del mondo musulmano hanno assistito anche all’ascesa di una media borghesia e di nuove generazioni formate in università nazionali e aperte alla globalizzazione. In tale contesto, le comunità sciite, a lungo emarginate o dominate dai sunniti, si sono rafforzate e rese autonome. L’Iran ha svolto un ruolo decisivo nell’affermazione di questi gruppi sciiti fornendo loro l’esempio, talvolta eccessivo, dell'"opposizione all’oppressione” politica o culturale e concedendo asilo ai leader sciiti stranieri costretti all’esilio. Tuttavia sarebbe sbagliato vedere in questi movimenti solo la “mano dell’Iran”. I militanti islamisti, sostenuti dalla forza Qods dei Guardiani della Rivoluzione, sono presenti e non perdono alcuna occasione per manifestarsi, ma la loro azione s’iscrive anche nelle priorità dell’interesse nazionale iraniano.

 

L’unico Vero Successo

Nonostante le sue ambizioni e i suoi sogni rivoluzionari, l’Iran non è riuscito a prendere le redini del mondo sciita. Paradossalmente, sono gli Stati Uniti – nemico ufficiale della Repubblica islamica – ad aver cacciato i talebani sunniti dell’Afganistan nel 2001 e ad aver dato il potere alla maggioranza sciita d’Iraq nel 2003. Per il mondo sunnita, la creazione di questo nuovo Stato sciita con Bagdad per capitale, è stato uno shock; il re di Giordania ha parlato di una «mezzaluna sciita» che si estende dal Libano all’Indo. L’espressione ha fatto furore ma, in realtà, riflette forse la fine o, per lo meno, l’indebolimento del magistero iraniano sul mondo sciita.

La capitale dello Sciismo è nuovamente Najaf, in Iraq, e non più Qom, che dovette il suo sviluppo, a partire dagli anni ’30, alla repressione anti-sciita nell’Iraq neo-indipendente, e successivamente al sostegno finanziario della Repubblica. Studenti di teologia di tutto il mondo arabo e persino iraniani si recano ormai in gran numero nella culla ritrovata dello Sciismo che conserva le tradizioni e in particolare quella dei marja‘, le guide spirituali rappresentate dai diversi ayatollah, come Ali Sistani, che rifiutano di riconoscere una qualsiasi superiorità alla Guida eletta a Teheran dagli iraniani. La disputa teologica e politica circa la marja‘iyya (il riferimento dottrinale ultimo) situa la Repubblica islamica d’Iran ai margini del mondo sciita. Teheran utilizza tutti i mezzi per preservare la sua influenza militare, sociale, economica, religiosa e politica in Iraq, ma ormai la potenza sciita emergente è l’Iraq.

L’unico vero successo della politica islamista di Teheran è stato quello di fare di Hezbollah un partito politico sciita libanese di primaria importanza, basato su una milizia armata. Questa comunità sciita è stata utilizzata da Teheran sia per svolgere un ruolo attivo nel mondo arabo con l’aiuto della Siria, sia per affermare la sua ostilità verso Israele e i Paesi occidentali, ma sarebbe esagerato ridurre Hezbollah a una semplice appendice dell’Iran. La crescente spinta autonomista del partito sciita, ormai parte in causa nel governo libanese, sembra trovare conferma nonostante il riarmo della sua milizia, i discorsi di sostegno al regime iraniano e i viaggi ufficiali. I rapporti di forza sono cambiati. La Siria ha riallacciato le relazioni con gli Stati Uniti, Israele non è una questione strategica e la minaccia nucleare è sufficiente a mantenere – e anche ad aumentare – contro Tel-Aviv una pressione politica e ideologica forte. Secondo alcune fonti, l’Iran avrebbe diminuito del 40% il suo aiuto finanziario a Hezbollah, che resterà in ogni caso un amico e alleato dell’Iran.

Nel Golfo Persico l’Iran si contrappone all’altra potenza regionale, l’Arabia Saudita, attorniata da numerosi emirati e regni sunniti che di fatto ne dipendono. Il fallimento delle invasioni dell’Iran e del Kuwait da parte dell’Iraq e l’incapacità tecnica delle forze armate iraniane di proiettarsi al di fuori dei propri confini confermano che qualunque tentativo di operazione militare o di occupazione territoriale è impossibile. Nonostante un’ostilità non nuova, tra gli Stati si è imposto uno status quo. Al contrario, dall’inizio del 2011 i movimenti popolari delle società arabe cambiano le coordinate del problema e potrebbero modificare le relazioni tra l’Iran e le comunità sciite arabe della regione. Questi movimenti sono spontanei, locali, e senza alcun rapporto con Teheran, che li sostiene per principio ma teme le loro rivendicazioni politiche e sociali, che rivelano un’emancipazione e si muovono nella stessa direzione della nuova società iraniana, la quale si oppone al regime islamico al potere da oltre trent’anni. Il quietismo e la realpolitik imposta alla Repubblica islamica di fronte ai moti del Bahrein o alla cronica agitazione degli sciiti dell’Arabia nord-occidentale potrebbero tuttavia trovare dei limiti se l’Arabia Saudita wahhabita intervenisse troppo direttamente, costringendo così Teheran a reagire, col rischio di sconvolgere la calma precaria di questa “guerra fredda” tra gli Stati sunniti e la Repubblica islamica.

Nell’equilibrio molto instabile che caratterizza il Medio Oriente attuale, l’Iran deve fare i conti con le sanzioni dell’ONU sul nucleare, mentre è colpito da una grave crisi economica (i prodotti maggiormente esportati, oltre il petrolio, sono la frutta secca e i tappeti) e dal logoramento di un personale politico al potere da oltre trent’anni. Internamente si confronta, come nelle comunità sciite straniere di cui è il protettore storico, con le rivendicazioni di una nuova società emergente. Le opposizioni tra sunniti e sciiti, tra persiani e arabi, resteranno parametri imprescindibili della politica regionale, ma la nuova dinamica è forse più presente nelle nuove società sciite che ricercano la propria emancipazione che nella strumentalizzazione della loro identità religiosa da parte dell’Iran.


Bibliografia

Houchang Chehabi (a cura di), Distant Relations. Iran and Lebanon in the last 500 Years, Tauris, London 2006.

Jean-Pierre Digard, Bernard Hourcade et Yann Richard, L’Iran au XXe siècle. Entre nationalisme, Islam et mondialisation, Fayard, Paris 2007.

Bernard Hourcade, Géopolitique de l’Iran, A. Colin, Paris 2010.

Laurence Louër, Chiisme et politique au Moyen-Orient, Iran, Irak et monarchies du Golfe, Autrement, Paris 2008.

Sabrina Mervin (a cura di), Les mondes chiites et l’Iran, Karthala, Paris 2007.

Yann Richard, L’Iran de 1800 à nos jours, Flammarion, Paris 2009.

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Bernard Hourcade, Trent’anni di ambizioni (non sempre realizzate), «Oasis», anno VII, n. 13, luglio 2011, pp. 39-43.

 

Riferimento al formato digitale:

Bernard Hourcade, Trent’anni di ambizioni (non sempre realizzate), «Oasis» [online], pubblicato il 1 luglio 2011, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/trent-anni-di-ambizioni-non-sempre-realizzate

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