Rifondare le basi del diritto politico islamico si configura come una questione non più rinviabile. Si rischia altrimenti il riemergere dell’estremismo religioso
Ultimo aggiornamento: 30/07/2024 10:19:00
Rifondare le basi del diritto politico islamico si configura come una questione non più rinviabile. Va affrontata con urgenza a partire da una revisione dei fattori ‒ il tribalismo, la rendita, il dogma ‒ che hanno dominato il pensiero politico arabo dalle origini fino ad oggi. Si rischia altrimenti il riemergere dell’estremismo religioso.
Noi siamo dell’opinione che l’Islam è religione e Stato, ma che esso non ha legiferato sullo Stato come ha legiferato sulla religione. Al contrario, ha lasciato la questione agli sforzi interpretativi dei musulmani. Ciò è apparso chiaro nella riunione dei Compagni[1] alla Saqîfa dei Banû Sâ‘ida subito dopo la morte del Profeta. Da un lato, se non fosse esistito uno Stato, non si sarebbero riuniti per nominare un successore; dall’altro se l’Islam avesse chiarito la forma di governo e il suo modo d’esercizio, non avrebbero avuto pareri divergenti su chi nominare e le modalità di nomina del califfo non avrebbero conosciuto variazioni persino al tempo dei califfi ben guidati[2]. La questione del governo nell’Islam è una questione di pubblica utilità e sforzo interpretativo (maslahiyya ijtihâdiyya) e per questo i musulmani hanno espresso opinioni divergenti.
Le due parti principali nella disputa sono gli sciiti e i sunniti. Dal momento che gli sciiti sostenevano che l’imamato dopo il Profeta (su di lui la pace) spettava a ‘Alî Ibn Abî Tâlib e si rifiutavano di riconoscere l’imamato di Abû Bakr, ‘Umar e ‘Uthmân, i sunniti dovettero rispondere a questo “rifiuto” illustrando la legittimità dell’imamato di quei califfi. E di fronte all’assenza di un testo coranico esplicito o di una tradizione ininterrotta indiscutibile, l’unica fonte possibile rimase il giudizio della storia: la storia dei Califfi ben guidati. Visto che i Compagni ratificarono o quantomeno accettarono quanto questo o quel califfo ben guidato aveva stabilito, i sunniti considerarono tale fatto come una forma di consenso da parte dei Compagni. E questo “consenso” divenne una fonte di legittimità.
Ciò vale per l’epoca dei ben guidati, l’epoca del “califfato”. Ma quando il califfato si capovolse in regno con Mu‘âwiya[3], anzi fin dalla stessa battaglia di Siffîn, la coscienza islamica sunnita si trovò di fronte a questa alternativa: continuare con la discordia intestina (fitna) e la sequenza di guerre civili oppure accettare il dato di fatto e conferirgli una sorta di legittimità fintantoché il governante faceva mostra di appartenere all’Islam e non ordinava di ribellarsi [a Dio], esercitando pressioni su di lui in modo pacifico (attraverso il consiglio, l’ammonizione etc.) perché si attenesse ai doveri religiosi e alla moralità islamica. E dal momento che il compito dello Stato nell’Islam e la sua ragion d’essere da quando è sorto al tempo del Profeta è di riunire i musulmani sotto una sola guida e diffondere l’appello alla conversione (da‘wa) attraverso il Jihâd, la legittimità del governante nell’Islam si rafforza e si rinvigorisce nella misura in cui egli amplia il raggio del suo governo riunendo insieme i musulmani ed estendendo e difendendo il territorio in cui l’Islam è dominante (Dâr al-Islâm).
Affermare la legittimità del califfato di Abû Bakr, ‘Umar e ‘Uthmân da un lato (contro il rifiuto sciita) e trovare un certo grado di legittimità per i re e i governanti che dopo i califfi ben guidati assunsero il governo dei Paesi islamici in toto o in parte: ecco i due argomenti trattati dal diritto politico islamico (fiqh al-siyâsa). L’affermazione per cui esisterebbe una “teoria” del governo islamico, nelle opere dei teologi e dei giuristi, è null’altro che l’espressione del desiderio che una tale teoria esista, ma essa non ci fu né mai ci sarà perché non è soddisfatta la condizione necessaria per elaborare una teoria islamica del governo, cioè l’esistenza di un testo chiaro, nel Corano o nella Sunna[4], che legiferi sulle questioni politiche: la forma dello Stato, le caratteristiche del suo capo, le modalità di nomina e la sua durata in carica etc. Pertanto la teoria “islamica” del governo – se proprio dobbiamo utilizzare questa espressione – è la teoria di questo o quel musulmano o comunità musulmana, in questa o quell’epoca, Paese e gruppo. Se avverrà che i dotti musulmani raggiungano il consenso su una teoria del governo e se tutti i musulmani si dichiareranno d’accordo, allora questa teoria diventerà davvero islamica, perché il consenso della comunità è nell’Islam una fonte della legislazione. Ma questo non è ancora avvenuto.
Alcuni lettori obietteranno citando il caso di al-Mâwardî[5]. A nostro avviso tuttavia Abû l-Hasan al-Mâwardî si è caricato di un peso superiore alle sue forze. Il suo libro Gli ordinamenti di governo e le cariche religiose indica fin dal titolo quale ne sia l’argomento. Esso è costituito dagli “ordinamenti di governo”, cioè ciò che oggi chiamiamo il diritto amministrativo, il diritto della funzione pubblica da un lato, e dall’altro “le cariche religiose”, cioè le funzioni a riferimento religioso. [...] È vero che al-Mâwardî dedica il primo capitolo del suo libro al contratto dell’imamato, 20 pagine su 322 nell’edizione che abbiamo sottomano, ma il contenuto di questo capitolo non è più di un riassunto concentrato di quanto al-Bâqillânî e al-Baghdâdî[6] avevano scritto per sostenere la legittimità dell’imamato di Abû Bakr, ‘Umar e ‘Uthmân in risposta al “rifiuto” sciita. L’unica novità di al-Mâwardî consiste nell’aver estratto le opinioni di questi due teologi ash‘ariti dal loro quadro di riferimento nell’ambito della scienza del Kalâm, liberandole dalla natura polemica tipica del Kalâm e riformulandole in tono affermativo al modo dei giuristi. [...] La questione fondamentale dal punto di vista giuridico è quella delle condizioni necessarie per l’imamato [...] e al-Mâwardî le restringe a sette. [...] Se ora seguiamo il destino di queste condizioni presso i teologi e i giuristi successivi, ci troviamo di fronte a una serie di concessioni che si concludono con una rinuncia totale. [...] I giurisperiti malikiti[7] riassunsero alla fine tutto il discorso sull’imamato in una sola parola: «Chi pesta più forte va obbedito». [...]
C’è ancora bisogno di dire, a mo’ di riassunto di questo capitolo, che ciò che rimase “costante” nel pensiero politico sunnita è l’ideologia del sultanato? Le dispute dei teologi e le specificazioni dei giuristi condussero alla fine a dichiarare la legittimità del dato di fatto: «Chi pesta più forte va obbedito». L’ideologia del sultanato ha saputo trarre una conseguenza diversa da questa? Dunque il pensiero islamico, in campo politico, conobbe soltanto la mitologia dell’imamato e l’ideologia del sultanato. Se i sunniti furono arruolati per rispondere alla prima consacrando il dato di fatto, non si è ancora trovato chi sappia replicare alla seconda, né nella sua forma antica, né in quella contemporanea. La critica della ragione politica araba deve cominciare da qui: dalla critica della mitologia e dal rifiuto del principio del dato di fatto.
Rifondare le basi del diritto politico islamico è un’urgenza impellente, ma basta questo soltanto per rinnovare la ragione politica araba? Pensiamo di no. [...] Tribalismo, bottino e dogma sono tre determinanti che hanno dominato la ragione politica araba nel passato e che continuano a dominarla, in una forma o nell’altra, nel presente. Certo la modernità ha penetrato alcuni aspetti della nostra vita da più di cento anni, cioè da quando abbiamo cominciato a fare i conti con la civiltà contemporanea. Sono emerse allora le correnti ideologiche della Nahda e dell’età contemporanea: la salafiyya[8], il laicismo, il liberalismo, il nazionalismo, il socialismo. Sono nati partiti, sindacati e associazioni e si sono radicate strutture che sono proprie dell’economia moderna. Le tre determinanti (tribalismo, bottino e dogma) sono andate incontro a una sorta di repressione e allontanamento e sono diventate il rimosso sociale e politico. La Nahda araba ambiva fondamentalmente a oltrepassare le determinanti ereditate dalla situazione sociale antica e definire nuove determinanti in accordo con l’epoca moderna.
Tuttavia la società araba non è riuscita a realizzare questa operazione di oltrepassamento in misura sufficiente e completa, per molte ragioni, esterne come l’invasione coloniale e la sua ampiezza, e interne come il fatto che la modernità è stata calata dall’alto. Ne sono venute ricadute e fallimenti che hanno spalancato la porta al ritorno del rimosso. [...] Così si è rifatto avanti il familismo, il confessionalismo, l’estremismo religioso e dogmatico fino a dominare il campo arabo in un modo che nessuno si sarebbe mai aspettato prima. Il rimosso ha fatto ritorno per rendere il nostro presente simile al passato e fare della nostra epoca ispirata alle ideologie della Nahda e del nazionalismo un anello anomalo nella concatenazione della nostra storia. Il tribalismo è diventato il motore della politica, la rendita la sostanza della nostra economia e il dogma una posizione di rendita volta a giustificare l’esistente o una posizione kharigita[9].
Pertanto ciò che occorre – e che costituisce esattamente il compito del pensiero arabo oggi, il compito di un rinnovamento della ragione politica araba – è:
a) trasformare il tribalismo nelle nostre società in a-tribalismo. Un’organizzazione civile, politica sociale: partiti, sindacati, libere associazioni, istituzioni costituzionali... In altre parole si tratta di costruire una società in cui vi sia una chiara distinzione tra la società politica (lo Stato e i suoi apparati) e la società civile (le organizzazioni sociali indipendenti dagli apparati dello Stato) [...].
b) Trasformare il bottino in un’economia dell’imposta, cioè passare da un’economia della rendita a un’economia della produzione. L’economia araba è dominata dalla rendita con tutte le sue componenti ed effetti (regali, mentalità etc.) e soffre in ogni Paese arabo di problemi cronici che possono essere superati soltanto nel quadro di un’integrazione economica regionale e di un mercato comune che apra alla realizzazione di un’unità economica tra i Paesi arabi. Essa sola può garantire il fondamento necessario per una crescita araba indipendente.
c) Trasformare il dogma in semplice opinione. Invece dell’anatema fanatico lanciato tra comunità e sette che pretendono di possedere la verità, occorre lasciare il campo alla libertà di pensiero, alla libertà della dissidenza e della divergenza e così liberarsi dell’autorità della comunità chiusa, che sia religiosa, politica o etnica. Trasformare il dogma in opinione significa liberarsi dell’autorità della ragione settaria e dogmatica, sia essa religiosa o laica, e operare secondo una ragione critica e aperta a nuove interpretazioni.
Il pensiero arabo contemporaneo richiede pertanto una critica della società, dell’economia e della ragione, la ragione astratta e quella politica. Senza questo tipo di critica condotta con spirito scientifico ogni discorso di Nahda, progresso e unità araba resterà un’enunciazione di belle speranze. Il tentativo che abbiamo compiuto in questo libro e nelle altre nostre opere intende soltanto segnare un inizio. L’argomento resterà aperto per lungo tempo. E ogni conclusione sull’argomento deve essere presa come l’apertura di un nuovo discorso.
[Muhammad ‘Âbid al-Jâbirî, Al-ʿAql al-siyâsî al-‘arabî [La ragione politica araba], Markaz Dirâsât al-Wahda al-‘arabiyya, Bayrût 1990, quinta edizione, pp. 358-374 passim. Trad. Martino Diez]
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
© RIPRODUZIONE RISERVATA
[1] Compagni è un termine tecnico per indicare la generazione dei musulmani che conobbe personalmente Muhammad. I loro comportamenti hanno valore normativo.
[2] I califfi ben guidati sono per i sunniti i primi quattro successori di Muhammad: Abû Bakr, ‘Umar, ‘Uthmân e ‘Alî. Essi rappresentano il modello ideale del califfato.
[3] Mu‘âwiya, del clan degli omayyadi, si oppose all’elezione di ‘Alî a califfo nel 656. I due si affrontarono nella battaglia di Siffin del 657, conclusasi con un arbitrato. Dopo la morte di ‘Alî nel 661 assunse il titolo di califfo fino alla morte, avvenuta nel 680. È il fondatore della dinastia omayyade.
[4] La Sunna è la tradizione del Profeta o dei suoi Compagni. Accanto al Corano, al consenso e – per alcuni – al ragionamento analogico, costituisce una delle fonti del diritto islamico.
[5] Giurisperito sunnita vissuto a Baghdad tra il 972 e il 1058. È soprattutto noto per la sua opera sugli Ordinamenti del governo.
[6] Al-Bâqillânî fu un importante esponente dell’ash‘arismo, scuola di teologia dialettica (kalâm) sunnita. Morì a Baghdad nel 1013. Al-Baghdâdî (m. 1002) è invece principalmente noto per i suoi lavori sugli hadîth, cioè le tradizioni risalenti a Muhammad e ai suoi Compagni.
[7] Appartenenti alla scuola giuridica malikita, una delle quattro principali del sunnismo, diffusa soprattutto in Nordafrica.
[8] Il movimento di ritorno alle pratiche degli “antichi” (salaf), di ispirazione fondamentalista.
[9] I kharijiti sono un gruppo minoritario che si separò dal resto della comunità islamica dopo la battaglia di Siffìn adottando in parte una prassi affine al moderno terrorismo.