Credere non può mai essere considerato un presupposto ma una proposta, il mistero della verità di Dio non è alle nostre spalle, ma davanti a noi e chiede di essere nuovamente vissuto, pensato, testimoniato
Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:49:15
Lasciatemi cominciare con una piccola storia dei primi tempi postconciliari. Per la Chiesa e la teologia, il Concilio aveva dischiuso vaste prospettive di dialogo, specialmente con la sua costituzione sulla Chiesa nel mondo di oggi, ma non meno coi decreti sull'Ecumenismo, sulla missione, sulle religioni non cristiane, sulla libertà di religione. Si scoprivano nuovi temi e divenivano necessari nuovi metodi. Per un teologo che volesse essere all'altezza dei tempi e concepisse giustamente il proprio compito, appariva ovvio lasciare per il momento da parte i vecchi temi e dedicarsi con ogni energia alle nuove questioni che si ponevano a partire da ogni dove. A quell'epoca mandai un certo piccolo lavoro a Hans Urs von Balthasar, che come sempre mi ringraziò subito con un biglietto, aggiungendo peraltro al ringraziamento la pregnante frase che per me divenne indimenticabile: «La fede non dev'essere presupposta, ma proposta». Era un imperativo che mi colpì. La ricerca d'ampio respiro in nuovi campi era buona e necessaria, ma solo nel presupposto che provenisse dalla luce centrale stessa della fede e fosse sostenuta da tale luce. La fede non si conserva di per se stessa. Non la si può mai semplicemente presupporre come cosa già compiuta. Dev'essere sempre nuovamente vissuta. E poiché è un atto che abbraccia tutte le dimensioni della nostra esistenza, dev'essere anche sempre nuovamente pensata e sempre nuovamente testimoniata. Perciò i grandi temi della fede - Dio, Cristo, Spirito Santo, grazia e peccato, sacramenti e Chiesa, morte e vita eterna - non sono mai vecchi temi. Sono sempre i temi che ci riguardano nel più profondo. Devono sempre restare mezzi dell'annuncio, quindi anche mezzi del pensiero teologico. Con la loro richiesta di un Catechismo comune della Chiesa intera, i Vescovi del Sinodo del 1985 avevano intuito esattamente ciò che Balthasar quella volta mi aveva espresso. La loro esperienza pastorale aveva mostrato loro che tutte le molteplici nuove attività di cura d'anime perdono il loro motivo trainante se non sono emanazioni e applicazioni del messaggio della fede. La fede non può essere presupposta, dev'essere proposta. Il Catechismo è lì per questo. Esso vuole proporre la fede con la sua pienezza e la sua ricchezza, ma anche nella sua unità e semplicità.
Cosa crede la Chiesa? Questa domanda comprende l'altra: chi crede, e come si fa a credere? Il Catechismo ha trattato le due domande principali, quella sul "cosa" e quella sul "chi" della fede, come un'intima unità. Altrimenti espresso: esso mostra l'atto di fede e il contenuto di fede nella loro indissociabilità. Ciò suona forse un po' astratto; proviamo a sviluppare un po' ciò che si intende con queste parole.
Nelle professioni di fede troviamo sia la formula "credo" sia la formula "crediamo". Parliamo di fede della Chiesa e parliamo di carattere personale della fede e infine parliamo della fede come dono di Dio, come "atto teologale", come oggi si dice volentieri in teologia. Cosa significa tutto ciò?
La fede è un orientamento della nostra intera esistenza. È una decisione fondamentale che ha conseguenze in tutti gli ambiti della nostra esistenza e che inoltre avviene solo quando è sostenuta da tutte le forze della nostra esistenza. La fede non è un processo meramente intellettuale, né meramente intenzionale né meramente emozionale: è tutte queste cose insieme. È un atto dell'io intero, della persona intera nella sua concentrata unità. In questo senso viene designata dalla Bibbia come un atto del "cuore" [Rm 10,9]. Essa è un atto sommamente personale. Ma proprio perché lo è, supera l'io, i limiti dell'individuo. «Nulla ci appartiene così poco come il nostro io», dice Agostino. Ove l'uomo intero entra in gioco, supera se stesso; un atto dell'io intero è sempre, al contempo, anche uno schiudersi agli altri, un atto dell'essere-con. Più ancora: quell'atto non può avvenire senza che tocchiamo il nostro più intimo profondo, il Dio vivente, che è presente nella profondità della nostra esistenza e la sorregge. Ove l'uomo intero entra in gioco, con l'io entrano in gioco anche il noi e il tu del totalmente altro, il tu di Dio. Ma ciò significa inoltre che, in un tale atto, l'ambito del fare meramente proprio viene superato. Nel suo intimo, l'uomo come essere creato non è mai solo azione, bensì anche passione, non solo datore, ma anche ricettore. Il Catechismo lo esprime così: «Nessuno può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza» (166). Paolo ha accennato a questo carattere radicale della fede nella descrizione della sua esperienza di conversione e di battesimo: «Io vivo, ma non più io...» [Gal 2,20]. La fede è un tramontare del mero io e proprio con ciò un risorgere del vero io, un divenire-sé tramite la liberazione dal mero io nella comunione con Dio, che è mediata dalla comunione con Cristo.
Abbiamo finora tentato di analizzare col Catechismo "chi" crede, dunque di conoscere la struttura dell'atto di fede. Ma con ciò è già divenuto visibile, per cenni, il contenuto essenziale della fede. La fede cristiana è, nella sua essenza, incontro col Dio vivente. Dio è il vero ed ultimo contenuto della nostra fede. In questo senso il contenuto della fede è molto semplice: io credo in Dio. Ma ciò che è molto semplice è sempre anche molto profondo e molto vasto. Possiamo credere in Dio perché Dio ci tocca, perché egli è in noi e perché giunge a noi anche da fuori. Possiamo credere in lui perché esiste colui che egli ci ha mandato: «Poiché egli "ha visto il Padre" [Gv 6,46]», dice il Catechismo, «è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare» (151). Possiamo dire: la fede è partecipazione alla visione di Gesù. Egli ci fa vedere con lui nella fede ciò che ha visto.
In quest'affermazione la divinità di Gesù Cristo è inclusa tanto quanto la sua umanità. Poiché è figlio, vede continuamente il Padre. Poiché è uomo, possiamo vedere insieme a lui. Poiché è le due cose insieme, Dio e uomo, egli non è mai un personaggio del passato né mai sottratto ad ogni tempo nell'eternità, è bensì dentro al tempo: sempre vivente, sempre attuale. Ma con ciò tocchiamo al tempo stesso anche il mistero trinitario. Il Signore si manifesta a noi per mezzo dello Spirito Santo. Ascoltiamo nuovamente il Catechismo: «Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte al suo Spirito... Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo perché è Dio» (152).
Se si guarda giustamente all'atto di fede, i singoli contenuti diventano evidenti da soli. Dio ci diviene concreto in Cristo. Così, da un lato diventa riconoscibile il suo mistero trinitario, dall'altro diventa visibile che egli stesso si è immischiato nella storia fino al punto che suo figlio è diventato uomo e ci manda così lo spirito del Padre. Nell'umanazione è però contenuto anche il mistero della Chiesa, poiché Cristo è venuto «a raccogliere i figli di Dio dispersi» [Gv 11,52]. Il noi della Chiesa è la nuova, ampia comunità in cui egli ci attira [cfr. Gv 12,32]. Così la Chiesa è contenuta nell'inizio stesso dell'atto di fede. La Chiesa non è un'istituzione che si avvicina alla fede dal di fuori e che crea una cornice organizzativa per l'attività comune dei fedeli. Fa parte dell'atto di fede stesso. Il "credo" è sempre anche un "crediamo". Il Catechismo dice in proposito: «"Io credo": è anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: "Io credo", "Noi crediamo"» (167).
Abbiamo appena stabilito che l'analisi dell'atto di fede ci mostra anche, immediatamente, il contenuto essenziale di questa: la fede risponde al Dio trinitario, Padre, Figlio e Spirito Santo. Ora possiamo aggiungere che nell'atto di fede stesso è contenuta l'umanazione di Dio in Gesù Cristo, il suo mistero divino-umano e perciò l'intera storia della salvezza; si mostra inoltre che lo stesso popolo di Dio (la Chiesa), come portatore umano della storia della salvezza, è presente nell'atto di fede. Non sarebbe difficile dimostrare, similmente, anche gli altri contenuti della fede come sviluppi dell'atto fondamentale dell'incontro col Dio vivente. Perché il rapporto con Dio ha a che fare, nella sua essenza, con la vita eterna. E supera necessariamente il mero ambito antropologico. Dio è vero Dio solo se è il Signore di tutte le cose, se è il loro creatore. Dunque creazione, storia della salvezza, vita eterna, sono temi che promanano immediatamente dalla questione di Dio. Se parliamo della storia di Dio con l'uomo, tocchiamo oltre a ciò la questione del peccato e della grazia. Tocchiamo la questione di come incontriamo Dio, dunque la questione dell'ufficio divino, dei sacramenti, della preghiera, della morale. Ma ora non vorrei sviluppare la questione in dettaglio; l'importante per me era proprio lo sguardo sull'intima unità della fede, che non è un gran numero di princìpi, bensì un semplice atto, nella cui semplicità è contenuta l'intera profondità e vastità dell'essere. Chi parla di Dio, parla del tutto; impara a separare l'essenziale dall'accessorio, e riconosce qualcosa, pur se a brani ed enigmaticamente, della logica interna e dell'unità di tutto ciò che vero [1Cor 13,12].
Infine vorrei toccare solo l'altra questione che avevamo incontrato all'inizio delle nostre riflessioni: quella del "come" della fede. In Paolo si trova in proposito un'espressione strana, che ci aiuta. Egli dice che la fede è un'obbedienza, proveniente dal cuore, alla forma d'insegnamento al quale siamo stati consegnati [Rm 6,17]. In ciò è espresso in definitiva il carattere sacramentale dell'atto di fede, l'intima connessione tra professione di fede e sacramento. Della fede fa parte una «forma d'insegnamento», dice l'apostolo. Non siamo noi a idearla. Essa non esce da noi come pensiero, ma ci proviene dall'esterno come parola. Essa è per così dire parola della parola, noi siamo consegnati in quella parola che indica nuove vie al nostro pensiero e che dà forma alla nostra vita.
Questo "essere consegnati" in una parola a noi precedente avviene attraverso il simbolo di morte dell'immersione nell'acqua. Ciò ricorda l'affermazione citata sopra «io vivo, ma non più io»; ricorda che nell'atto di fede avvengono il tramonto e il rinnovamento dell'io. Il simbolo di morte del battesimo lega questo nostro rinnovamento alla morte e risurrezione di Gesù Cristo. L'essere consegnati nell'insegnamento è un essere consegnati in Cristo. Non possiamo concepire la sua parola come una teoria, per esempio come si apprendono delle formule matematiche o delle opinioni filosofiche. Possiamo impararla solo accettando la comunione di destino con lui, e possiamo raggiungere quest'ultima solo dove egli ha legato stabilmente in comunione di destino se stesso agli uomini: nella Chiesa. Nella lingua di questa, tale processo di essere consegnati lo chiamiamo "sacramento". L'atto di fede non è pensabile senza sacramento.
Ma a partire da ciò possiamo comprendere la concreta costruzione letteraria del Catechismo. La fede, così abbiamo udito, è essere consegnati a un insegnamento. In altro luogo, Paolo chiama quest'insegnamento confessione [cfr. Rm 10,9]. Qui viene alla luce un ulteriore aspetto dell'avvenimento della fede: la fede, che giunge a noi come parola, deve anche farsi nuovamente parola presso noi stessi - parola nella quale si esprime anche la nostra vita. Fede significa sempre anche professare. La fede non è privata, bensì pubblica e comunitaria. Sempre si trasforma da parola in pensiero, ma deve anche sempre trasformarsi da pensiero in parola e in azione.
Il Catechismo indica diversi tipi di professione di fede presenti nella Chiesa: professioni battesimali, professioni conciliari, professioni formulate dai Papi (192). Ciascuna di queste professioni ha la sua importanza. Ma il tipo primigenio di professione di fede, su cui poggia tutto il resto, è la professione battesimale. Laddove si tratti di catechesi, cioè dell'introduzione alla fede e dell'inserimento nella comunità di fede della Chiesa, bisogna partire dalla professione battesimale. Ciò vale sin dal tempo apostolico e perciò dovette essere anche la via del Catechismo. Esso spiega la fede partendo dalla professione battesimale. Diviene così visibile in quale modo esso voglia insegnarla: la catechesi è catecumenato. Essa non è mera lezione di religione, bensì il processo dell'inserire se stessi e del lasciarsi inserire nella parola della fede, nella comunione di via con Gesù Cristo. Della catechesi fa parte anche l'intimo avvicinarsi a Dio. Sant'Ireneo, inoltre, disse una volta che dovremmo abituarci a Dio come Dio nell'umanazione si è abituato a noi, agli uomini. Dovremmo abituarci alla natura di Dio, così da imparare a reggere in noi la sua presenza. Espresso teologicamente: dev'essere scoperta in noi l'immagine di Dio che ci rende capaci di comunione di vita con lui. La tradizione compara ciò all'azione dello scultore che dalla pietra distacca pezzo dopo pezzo affinché divenga visibile la figura da lui prevista. La catechesi dovrebbe sempre essere un tale processo di assimilazione a Dio, perché certo possiamo conoscere solo ciò per cui c'è in noi una corrispondenza. «Se l'occhio non fosse solare, non potrebbe riconoscere il Sole», disse Goethe in riferimento a una frase di Plotino. Il processo gnoseologico è un processo di assimilazione, un processo vitale. Il noi, il cosa e il come della fede stanno insieme.
In questo modo diviene visibile anche la dimensione morale dell'atto di fede. Esso include uno stile dell'essere uomini che noi non produciamo da noi stessi, ma che impariamo gradualmente attraverso l'immersione nel nostro essere battezzati. Il sacramento della penitenza è una di quelle immersioni, ogni volta nuove, nel battesimo, nelle quali sempre di nuovo Dio agisce su di noi e ci attira nuovamente a sé. La morale fa parte del Cristianesimo, ma questa morale è sempre parte del processo sacramentale del divenire cristiani, in cui non siamo solo agenti, ma sempre anche, anzi addirittura in primo luogo, riceventi, in un ricevere che significa trasformazione. Non è dunque un "grillo antiquato", quando il Catechismo sviluppa il contenuto della fede dalla professione battesimale della Chiesa di Roma, cioè dal cosiddetto Symbolum Apostolicum. In esso appare meglio l'autentica natura della catechesi come apprendimento dell'esistenza nell'essere con Dio.
Così si mostra inoltre che il Catechismo è completamente determinato dal principio della gerarchia delle verità, come l'aveva intesa il Concilio Vaticano Secondo. Poiché il Symbolum è innanzitutto, come abbiamo detto, professione del Dio trino sviluppata dalla formula battesimale e a questa legata. Tutte le "verità di fede" sono sviluppi dell'unica verità che noi scopriamo in esse come la perla preziosa, per la quale val la pena di impegnare tutta la vita. Si tratta di Dio. Solo lui può essere la perla per cui diamo tutto il resto. Dio solo basta - chi trova Dio ha trovato tutto. Ma possiamo trovarlo perché prima lui ci ha cercati e ci ha trovati. Egli è colui che agisce per primo, e perciò la fede in Dio è inseparabile dal mistero dell'umanazione, della Chiesa, del sacramento. Tutto ciò che viene detto nella catechesi è sviluppo di quell'unica verità che è Dio stesso - «l'amor che move il sole e l'altre stelle» [Dante, Paradiso 33,145].
[Brano tratto da Joseph Ratzinger - Benedetto XVI, Vangelo, Catechesi, Catechismo. Osservazioni sul Catechismo della Chiesa cattolica, Marcianum Press, Venezia 2007, pp. 27-38. Tit. originale: Evangelium, Katechese, Katechismus. Streiflichter auf den Katechismus der katholischen Kirche, ©Verlag Neue Stadt 1995]
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Per citare questo articolo
Riferimento al formato cartaceo:
Testo di Joseph Ratzinger, La fede, un atto sempre nuovo, «Oasis», anno IV, n. 7, maggio 2008, pp. 60-63.
Riferimento al formato digitale:
Testo di Joseph Ratzinger, La fede, un atto sempre nuovo, «Oasis» [online], pubblicato il 1 maggio 2008, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/la-fede-un-atto-sempre-nuovo.