Tunisia/ La frammentarietà della società contemporanea rende necessaria, seppur difficile, la conciliazione tra l’Islam e il pluralismo, a tratti tentata nella storia passata. Essa oggi dipende da fattori di natura religiosa e culturale in generale, ma anche politici, sociali ed economici e si regge sull’alleanza tra la fede libera, il sapere contemporaneo e lo spirito critico.
Ultimo aggiornamento: 23/07/2024 15:32:19
Porre la questione del rapporto tra Islam e pluralismo presuppone che, sia all’interno che all’esterno del mondo islamico, vi sia chi li considera inconciliabili. Presuppone anche che altri pensino l’opposto e cioè che l’Islam implichi il pluralismo o per lo meno che sia in grado di venirne a patti. In entrambi i casi si tratta di una visione essenzialista dell’Islam che rifiutiamo non solo a titolo personale, ma che l’intera comunità scientifica rifiuta allo stesso modo in cui rifiuterebbe tale maniera di porre il problema se si trattasse del Cristianesimo o di qualsiasi altra religione. Certo, si può porre la questione sul piano dei testi fondatori, ma sappiamo che questi testi sono lungi dall’essere univoci e possono essere invocati in molte direzioni. Rinunciamo perciò a quest’impresa di tipo apologetico o polemico per situare la compatibilità dell’Islam con il pluralismo in una prospettiva storica, nel senso più ampio del termine: la sola, a nostro avviso, in grado di illuminarci sulle condizioni che favoriscono o meno l’accettazione del pluralismo come scelta di società o come costrizione e necessità imposta dalle circostanze. I sistemi monoteisti tradizionali non amano il pluralismo. Ne diffidano quando non lo combattono apertamente. È una costante storica che è bene tenere a mente per capire le difficoltà del presente. Tuttavia, non mancano documenti e racconti storici e letterari che attestano, in passato, l’esistenza in terra d’Islam di due fenomeni apparentemente contraddittori: da una parte la coabitazione più o meno armoniosa di correnti di pensiero, di scuole giuridiche e teologiche divergenti, così come una grande tolleranza da parte dei poteri politici delle società islamiche nei confronti dei seguaci di altre religioni, in particolare delle “genti del libro”, cristiani ed ebrei; dall’altra, persecuzioni, processi, violenze nei confronti di quanti non seguivano la dottrina ufficiale, così come scontri, soprusi e conflitti con i non musulmani. Il pluralismo come capro espiatorio Tale paradosso è facilmente spiegabile se si tiene conto dei diversi fattori che determinano l’agire dei protagonisti. La convivialità, l’intesa, la stessa amicizia erano presenti nella vita quotidiana e nei periodi di calma e prosperità, in particolare nella fase ascendente della civiltà islamica, mentre nei periodi di crisi e di stagnazione scoppiavano tumulti per ragioni politiche, economiche o dottrinali tanto tra i musulmani che contro le altre comunità, spesso per ragioni simili. In altri termini, il pluralismo di fatto veniva messo in discussione ogni volta che la legittimazione dell’ordine stabilito aveva bisogno di un capro espiatorio per sostenersi. Il primato progressivamente raggiunto dai rappresentanti dell’istituzione religiosa ufficiale spingeva questi ultimi a dover giustificare il proprio monopolio nella definizione dell’ortodossia e dell’ortoprassi. Questo li portava naturalmente a negare le legittimità di tutto ciò che contestava, in parole o in atti, la loro definizione del bene e del male, del lecito e dell’illecito. La filosofia dei Lumi, lo sviluppo delle scienze umane e sociali degli ultimi due secoli e in generale la modernità hanno scosso seriamente questo equilibrio, facendo cadere la maschera religiosa che copriva le istituzioni sociali, spogliando di colpo i rappresentanti dell’istituzione religiosa delle proprie prerogative ancestrali e dotando il pluralismo di nuovi fondamenti teorici venuti ad aggiungersi alle basi materiali inedite fornite dai nuovi modi di vita e di produzione, in particolare l’industrializzazione, l’ascesa dell’individualismo e la vita nei grandi agglomerati in cui la costrizione sociale è infinitamente più blanda che nella città o nelle campagne tradizionali. Questo schema generale che riguarda l’insieme della storia islamica si applica ugualmente alla storia della Tunisia. Dopo un inizio in cui erano particolarmente diffusi il mu‘tazilismo, il kharigismo e il hanafismo[1], e a parte l’intermezzo fatimide, il malikismo e l’ash‘arismo[2] hanno dominato la vita religiosa. Il marabutismo[3] si è poi innestato su queste due scuole, giuridica la prima e teologica la seconda, per segnare la religiosità popolare e inquadrare le popolazioni rurali che il potere centrale non poteva raggiungere. A questo proposito occorrerebbe notare che il malikismo dell’Ifrîqya ha dovuto fare i conti con delle specificità del contesto locale e ha manifestato una grande tolleranza verso le infrazioni alla dottrina, accordando un posto privilegiato alla consuetudine (‘urf). Questo l’ha portato, per esempio, ad ammettere senza difficoltà il culto dei santi e la monogamia istituita da quello che viene chiamato il contratto di matrimonio di Qayrawan. E se il Cristianesimo si è spento dopo l’XI secolo, soprattutto per mancanza di Vescovi la cui nomina era proibita dal potere politico locale, la comunità ebraica autoctona si è perpetuata fino all’epoca contemporanea e ha vissuto generalmente in armonia con i musulmani. Lo stesso è valso per i cristiani maltesi e italiani che sono emigrati in Tunisia alla ricerca di condizioni economiche più favorevoli di quelle dei propri Paesi d’origine. L’irruzione della modernità La situazione tradizionale prevalente in Tunisia ha cominciato a cambiare, talvolta in modo radicale, dalla metà, o addirittura dagli anni ’30 del XIX secolo, in concomitanza con l’irruzione della modernità e di un pluralismo di tipo nuovo, quando i bey [governatori] di Tunisi intrapresero la modernizzazione dell’esercito e crearono a tal fine il Politecnico del Bardo. Le manifestazioni più significative di questo profondo cambiamento furono l’abolizione della schiavitù nel 1846, la promulgazione nel 1857 dello ‘Ahd al-Amân e nel 1861 la prima Costituzione del mondo arabo. Con questi due atti legislativi, che non avevano solo una portata simbolica, veniva istituita per la prima volta l’uguaglianza di tutti i sudditi del Bey davanti alla legge, senza discriminazione di carattere confessionale. Le difficoltà economiche, la rivolta popolare di Ben Ghedhalem a partire dal 1864, la cattiva gestione economica al vertice dello Stato, poi l’istituzione del Protettorato francese nel 1881, vennero a frenare questa evoluzione, se non a falsarla. I francesi introdussero una nuova mentalità intrisa di arroganza e di senso di superiorità, che rompeva con il comportamento delle altre comunità, compresi i turchi che si erano insediati prima di loro in Tunisia mescolandosi alla popolazione locale. La Chiesa cattolica, da parte sua, il Cardinal Lavigerie in testa, predicava apertamente l’evangelizzazione dei musulmani tunisini. Il risultato fu che l’Islam si trasformò, suo malgrado, in un’ideologia di resistenza che accompagnò il movimento nazionale di liberazione, anche se i dotti (‘ulamâ’) erano in generale legittimisti e occupavano solo raramente le prime file di questo movimento popolare. Ciò non toglie che la Tunisia ha continuato la sua partecipazione al processo universale di secolarizzazione, in particolare con l’introduzione del diritto positivo nella maggior parte degli ambiti, con l’eccezione importante del diritto di famiglia, rimasto nelle mani degli uomini di religione, musulmani ed ebrei, e di competenza di tribunali sciaraitici e rabbinici. Il movimento conobbe un’accelerazione tangibile dopo l’indipendenza del 1956, con la promulgazione di un Codice dello Statuto personale che proibiva, tra le altre cose, la poligamia e il ripudio, e con la soppressione dei tribunali religiosi e del regime dei beni di manomorta, l’unificazione, la generalizzazione, la modernizzazione dell’insegnamento, e molte riforme politiche, sociali ed economiche che puntavano a far uscire la società tunisina dalla sua letargia e a elevarla al rango delle società moderne e sviluppate. Un Paese in anticipo La marcia forzata verso la modernizzazione della Tunisia ne fece sicuramente un Paese in anticipo sugli altri Paesi arabi, alcuni dei quali meglio dotati di risorse naturali. Peraltro non fu realizzata senza dolore e, d’altra parte, non raggiunse tutti i suoi obiettivi. La modernizzazione creò malcontento tra quanti difendevano interessi particolari e tra le fila dei conservatori legati a modelli tradizionali di società. Inoltre, essa non portò uguali benefici a tutti i cittadini e a tutte le regioni. Si tratta di una modernizzazione incompleta perché non ha toccato in profondità il sistema autoritario di governo e non ha dato concretezza alle esigenze democratiche e pluraliste che si erano manifestate in diverse forme dopo gli anni ’70. Furono queste condizioni a creare il terreno di coltura dell’islamismo politico, che nacque proprio in quel periodo in reazione all’emarginazione di ampi strati della popolazione che si sentivano a torto o a ragione esclusi da questo processo e svantaggiati rispetto ad altre categorie. Tuttavia, i fattori politici e economici non sono gli unici in gioco. I fattori culturali e psicologici erano e restano primari tra gli islamisti, influenzati come sono dall’ideologia dei Fratelli Musulmani e dal panarabismo. Visto in questa prospettiva, l’islamismo si oppone all’impresa alla quale si era dedicata l’élite tunisina, quella della costruzione dello Stato nazionale, visto che nel lungo periodo l’orizzonte degli islamisti non è altro che il ristabilimento del sistema califfale, un sistema dispotico e non egualitario, e dunque fondamentalmente ostile al pluralismo, alla libertà, alla democrazia e all’uguaglianza tra i generi. La rivoluzione tunisina che ha inaugurato la “primavera araba” ha confuso le tracce e rimescolato le carte. Si sa che gli islamisti ne sono i principali beneficiari, benché non vi abbiano giocato alcun ruolo, e questo grazie alla loro disciplina e al fatto di godere di un pregiudizio favorevole in quanto timorati di Dio, non corruttibili e avversari duramente repressi dal regime di Ben Ali. Non intendiamo analizzare in modo esaustivo la situazione creata dal successo di an-Nahda alle elezioni dell’ottobre 2011 e dalla costituzione di un governo di cui detiene i centri nevralgici di sovranità. Il problema che ci preoccupa è sapere se questo movimento che fa riferimento all’Islam sia favorevole od ostile al pluralismo. In altri termini, l’Islam politico rappresentato da questo movimento è capace di rinunciare a un certo numero di riferimenti ideologici che hanno a lungo rappresentato i suoi cavalli di battaglia, di evolvere di fronte a questa esigenza e di appropriarsene? Uno degli effetti più rilevanti della rivoluzione è stato la rottura del legame sociale in vigore fino alla fuga di Ben Ali. In seguito a tale rottura, e nel quadro degli sforzi per ricostituirlo su nuove basi, si è assistito alla moltiplicazione di movimenti salafiti di obbedienze multiple, influenzati dai predicatori mediorientali che “officiano” sui canali satellitari dell’Islam del petrolio, e molto probabilmente finanziati direttamente o indirettamente dai regimi anacronistici del Golfo, per i quali è vitale, per timore del contagio, che questa primavera non sfoci nell’instaurazione di un qualsiasi Paese arabo della democrazia, quindi della cittadinanza e del pluralismo. Tuttavia, il salafismo nel suo insieme è condannato a non essere altro che un movimento marginale di protesta e di nostalgia di una mitica età dell’oro. La sua forma violenta, affiliata ad al-Qâ‘ida detiene una forza talmente sproporzionata rispetto a quella di uno Stato che l’unica cosa di cui è capace è arrecare qualche danno senza futuro. Il partito an-Nahda, sorvegliato speciale È dunque ad an-Nahda, movimento ben radicato e che annovera al suo interno tanto militanti aperti e moderati quanto salafiti, che occorre rivolgersi, anche se esso è organizzato, come tutti i partiti islamisti, sul modello dei partiti fascisti, le cui caratteristiche essenziali sono l’infallibilità del leader, la disciplina e il populismo. Che questo movimento evolva grazie alla dinamica interna dei suoi componenti o tenti semplicemente di adattarsi, è certo che esso è obbligato a fare i conti con le resistenze della società civile tunisina all’instaurazione di un ordine politico e morale arcaico. Il pluralismo è un dato imprescindibile della società, essendo una delle principali conseguenze della secolarizzazione spinta di quest’ultima. Infatti, poiché la legge positiva ha sostituito la legge religiosa nella maggior parte degli ambiti, il monopolio detenuto dai rappresentanti dell’istituzione religiosa ufficiale è andato in frantumi e la loro credibilità è stata seriamente minata. Le parole d’ordine e gli stessi riferimenti dei partiti politici, compreso an-Nahda, concordano sullo sviluppo, sul pieno impiego, sulla giustizia sociale, ecc., preoccupazioni che non hanno nulla di specificamente religioso e che giocano inesorabilmente contro l’Islam politico, deludendo così i militanti che hanno creduto ai suoi slogan. L’attaccamento, proclamato in tutti i modi, all’identità arabo-islamica della Tunisia non basta a nascondere questa realtà. In ogni caso, c’è una difficoltà che i partiti islamisti sono obbligati ad affrontare e che determinerà in gran parte il loro successo o il loro fallimento nel mescolamento di politica e religione. È il ritardo del pensiero religioso – non solo islamico peraltro, ma anche cristiano ed ebraico – rispetto alle esigenze del pensiero e dei valori che la modernità ha promosso al rango di criteri non negoziabili di inserimento nel secolo. Così, per citare solo le norme più emblematiche e più problematiche: la libertà di credere, di non credere o di cambiare religione, l’uguaglianza tra gli uomini e le donne, sono conquiste della coscienza moderna contro le quali i sistemi monoteisti istituzionalizzati continuano a condurre battaglie di retroguardia, e che accettano solo perché obbligati e a malincuore. Tuttavia, i testi fondatori si prestano tanto alle letture e alle interpretazioni a favore del monolitismo che a quelle favorevoli al pluralismo. Di conseguenza, non esiste fatalità in questo ambito. I fattori che favoriscono l’accettazione del pluralismo sono sicuramente presenti, primi fra tutti l’individualismo che abbiamo visto all’opera durante la rivoluzione di dicembre 2010-gennaio 2012, e le manifestazioni delle organizzazioni della società civile in cui la centrale sindacale (UGTT) ha svolto un ruolo di primo piano. In altri termini, il futuro delle relazioni tra l’Islam e il pluralismo non dipende solo da fattori di natura religiosa e culturale in generale. Questi ultimi possono accelerare o frenare il movimento che tende verso l’armonia tra le aspirazioni democratiche e la fedeltà all’eredità islamica. Ma da soli non sono capaci di produrre questo movimento irreversibile, né di arrestarlo definitivamente. I fattori politici, sociali ed economici interni ed esterni sono altrettanto importanti, o addirittura più importanti. È dalla congiunzione di tutti questi elementi in un mondo sempre più complesso e globalizzato che dipende il prezzo da pagare per pervenire a conciliare Islam e pluralismo. È in definitiva una questione di volontà e di competenza degli attori convinti della necessità di tale conciliazione e che operano per la sua realizzazione con il minor traumatismo e cattiva coscienza possibili. Si tratta di arrivare a un’alleanza di tre ambiti che sembrano al momento antagonisti: la fede, che è un’opzione libera a dispetto dei suoi supporti tradizionali; il sapere, secondo le norme della conoscenza contemporanea e non degli antenati; lo spirito critico in grado di liberare l’uomo dalle costrizioni di qualsiasi autorità imposta. La sfida da cogliere consiste nel passare da una certa concezione della verità opposta all’errore, a un’altra concezione secondo la quale l’opposto di una verità alla quale credo è un’altra verità difesa dal mio prossimo. Piuttosto che denigrare chi la fa propria, dovrebbe prevalere un’emulazione nella ricerca di ciò che rafforza la dignità umana. Personalmente riteniamo, molto modestamente, che la Tunisia abbia tutti i mezzi, o ne abbia di più di molti Paesi fratelli, per impegnarsi in questa impresa con possibilità concrete di successo, nonostante le difficoltà del momento.