Religioni, terrorismo e violenza al cinema

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Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 09:08:05

Di chi è la colpa, quando parliamo di terrorismo e violenza? Dell’Islam o dei musulmani, della religione o della cultura, del Corano o della sua interpretazione? È così difficile questa domanda, così ineludibile, che la soluzione più pratica sembra la censura: cancelliamo i film che ne parlano e forse sparirà anche la sgradevole realtà che rappresentano o che, sempre più spesso, anticipano. La Francia lo aveva già fatto dopo gli attentati di Charlie Hebdo, vietando le proiezioni del film Timbuktu, del mauritano Abderrahmane Sissako. Ripete la mossa un anno dopo, pochi mesi fa, per gli attentati al Bataclan. Questa volta il film da cancellare è Made in France, realizzato dal regista franco-algerino Nicolas Boukhrief. Visto alla luce degli attentati, il manifesto, già affisso nei muri della metropolitana, è davvero terribile: un kalashnikov regge la torre Eiffel con la scritta “La minaccia viene dall’interno”. Il film, che affronta un tema ancora tabù in Europa, l’attrazione esercitata dall’integralismo islamico sulle nuove generazioni, sarà accessibile soltanto on demand. Intanto, però, forse per placare i sensi di colpa, i francesi scelgono a rappresentarli all’Oscar Mustang, un film girato in Turchia da una regista turca, Deniz Gamze Erguven, che racconta l’insostenibile condizione delle donne nella società islamica.

Occorre riflettere su questa incapacità della cultura occidentale a leggere la realtà e a giudicarla. In questo senso, è estremamente interessante un piccolo film uscito nei giorni degli attentati in Belgio, Dio esiste e vive a Bruxelles. Girato da Jaco Van Dormael nelle stesse strade di Molenbeek dove vivevano i terroristi, racconta di un dio malvagio e sciattone che, dalle crociate in poi, aizza gli uomini «gli uni contro gli altri nel suo nome». Insomma, il problema sono le religioni, tutte: e già questo la dice lunga sul pensiero dell’intellighenzia. Ma c’è un tema più urgente cui dare spazio. Riguarda il giudizio che i registi musulmani stessi offrono attraverso l’oggetto e la forma del racconto. Sono loro, infatti, i giovani autori, che spesso si dimostrano più capaci degli occidentali di porsi domande e azzardare risposte, anche scomode. È il caso proprio di Deniz Gamze Erguven e della sua opera prima al femminile. Mustang è la storia di cinque sorelle orfane che vivono in un villaggio con la nonna e lo zio. Belle, spensierate e apparentemente felici: una sorta di favola magica dove la realtà luminosa delle prime immagini si trasforma ben presto in un incubo fin troppo reale. All’inizio, c’è un gioco innocente tra compagni, nell'ultimo giorno di scuola, che condanna le ragazzine alla reclusione prima, poi, quasi insensibilmente, alle violenze familiari, ai matrimoni forzati: «Il piccolo scandalo che le ragazze suscitano è qualcosa che ho vissuto io personalmente», dice la regista. D’altra parte, «la società turca è molto eterogenea. Ci sono donne estremamente libere e moderne e altri segmenti della popolazione ancora soggetti a regole tradizionali e conservatrici».

Tra i particolari più inquietanti, la clinica dove si ritira il “certificato di verginità”, le inferriate alle finestre, i vestiti senza forma, i matrimoni combinati, le prediche dell’imam sulla castità, imposte dallo zio che poi si infila nel letto delle nipoti. Di chi è la colpa, allora: della religione, delle tradizioni, dell’ignoranza? L’attrice Serra Yilmaz, icona del regista Ferzan Özpetek, avverte: «Ciò che esiste in provincia c’è anche a Istanbul. È una città tentacolare, è come se fosse esplosa per diventare un mostro. Nei quartieri di periferia la vita può essere anche più dura». Di certo, non basta un film per rispondere, serve un nuovo inizio come quello che accompagna la fuga delle due ragazze più giovani nel giorno previsto per il matrimonio. Una rinascita che ha il colore dell’alba sul Bosforo, la porta aperta di una casa amica, l’abbraccio caldo dell’insegnante. 

La condizione femminile a livello pratico e giuridico, il modo di concepire il matrimonio, la famiglia, l’educazione, i diritti affermati e negati rappresentano una cartina di tornasole per capire quanto e come, nella rappresentazione del mondo islamico, la religione si distingua dalla cultura e come accada l’incontro/scontro con la modernità. Ci sono elementi simbolici, ad esempio il velo, che dovremo abituarci a decifrare, perché spiegano molto di ciò che le parole non dicono. Ce lo ha fatto vedere il premio Oscar iraniano Asghar Faradhi, con i suoi film (About Elly, Una separazione) dove le donne mostrano il capo scoperto soltanto in quella terra di nessuno che è la soglia, il luogo del racconto sospeso tra la casa e il mondo esterno. Pochi simboli e molte certezze, invece, nel documentario Malala, di David Guggenheim, dove la ragazzina pachistana, ferita dai talebani perché voleva studiare e vincitrice del Premio Nobel, racconta assieme al padre il suo impegno per il diritto delle donne all’istruzione. Bastano poche immagini a descrivere come cambia la vita di un maestro e della sua famiglia: la bandiera nera che sventola sulla città all’arrivo dello Stato Islamico, le macchine incendiate, i roghi di libri, computer e cd, gli altoparlanti che pronunciano ogni sera i nomi dei peccatori, le pubbliche esecuzioni. «Come molte donne dello Swat», racconta Malala che ora vive a Birmingham, «mia madre si copriva il viso, non per religione ma per tradizione. Ora si copre soltanto i capelli. Coprirmi il viso mi fa sentire come se stessi nascondendo la mia identità». Sul cosiddetto Stato Islamico, Malala ha idee chiarissime: non è mai stata una questione di fede ma di potere. «I talebani sono un piccolo gruppo di persone che riducono Dio a un essere dalle vedute limitate. Sono loro i nemici dell’Islam». Una battuta del padre, però, suggerisce che qualche problema per le donne pachistane c’era anche prima. «Quando nacque Malala, mio cugino mi portò l’albero genealogico della famiglia. Sono andato indietro di 300 anni ma nessuna donna veniva menzionata, c’erano solo uomini. Ho preso una penna, ho tracciato una linea e ho scritto: Malala».

L’ultimo testimone è un attore ventenne, Medhi Meskar, marocchino cresciuto a Treviso. È l’imam della commedia Pitza e datteri, diretta dal curdo iraniano Fariborz Kamkari, autore de I fiori di Kirkuk. Una favola non banale che ride degli stereotipi: protagonista, il convertito Vendramin (l’attore italiano Battiston) alla ricerca dell’identità perduta. Ovviamente, tra i due è lui l’integralista. «La chiave scelta nel film», dice Meskar che si dichiara musulmano non praticante, «dimostra l’esistenza di una cultura laica musulmana che non ha paura di ridere di se stessa». Nella scena più divertente del film, la sparuta comunità islamica di Venezia discute su come riprendere a Zara, parrucchiera turca, la moschea che ha occupato con il suo negozio. «Trovato soluzione», dice il giovane imam che viene dal deserto. «Non so come si dice in italiano ma è cosa molto divertente. Vengono tutti, donne, bambini…». «Il mercato?», suggerisce Vendramin. L’imam sfoglia il Corano: «Il Libro dice che mettiamo donna in buca e portiamo tanti sassi per tutti». «E cosa facciamo con sassi?», chiedono gli altri. «Tiriamo», risponde lui. «Ma dopo lei muore… ma è lapidazione!», esclama inorridito il presidente della comunità. «Bravo, ecco come si chiama!». «Ma è fantastico!», urla entusiasta il convertito Vendramin. È la modernità, bellezza. 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis

Per citare questo articolo

 

Riferimento al formato cartaceo:

Emma Neri, L’Occidente censura, i registi musulmani raccontano, «Oasis», anno XII, n. 23, giugno 2016, pp. 140-142.

 

Riferimento al formato digitale:

Emma Neri, L’Occidente censura, i registi musulmani raccontano, «Oasis» [online], pubblicato il 11 luglio 2016, URL: https://www.oasiscenter.eu/it/loccidente-censura-i-registi-musulmani-raccontano.

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