Interrogati dalle insurrezioni arabe, gli ideologi jihadisti hanno tentato di appropriarsi dei movimenti antiautoritari per deviarli in direzione islamista
Ultimo aggiornamento: 12/07/2024 12:21:26
Rivoluzione contesa. Interrogati dalle insurrezioni arabe, gli ideologi jihadisti hanno tentato di appropriarsi dei movimenti antiautoritari per deviarli in direzione islamista. Le timide aperture ai progetti post-rivoluzionari e democratici non hanno retto e ne sono uscite confermate le idee originarie.
Dalla fine del 2010 diversi Paesi arabi sono stati teatro di proteste, manifestazioni e rivoluzioni su una scala così ampia da essere immediatamente etichettate come “Primavera araba”, un termine che suggeriva miglioramenti eccezionali in una regione spesso associata alla dittatura, alla corruzione e al conflitto. Nelle sue fasi iniziali molti speravano che le migliaia di manifestanti che chiedevano libertà, giustizia e democrazia fossero i primi segni di una nuova alba.
Allo stato attuale, nel 2014, possiamo sicuramente affermare che l’entusiasmo iniziale per le rivolte è sostanzialmente svanito, che la Primavera araba non è stata così estesa come alcuni speravano e che il rovesciamento di autocrati come Hosni Mubarak e Muammar Gheddafi non è stato il preludio, o almeno non lo è ancora, a un’era di democrazia liberale. Era prevedibile: le rivoluzioni sono normalmente confuse e raramente conducono nell’immediato a pace e sicurezza per tutti. Tuttavia, la situazione in Egitto e soprattutto in Siria è piuttosto preoccupante e non ci sono molte ragioni di sperare che la guerra civile siriana finisca in tempi brevi.
Una delle ragioni della tragica situazione in Siria è l’accresciuta influenza dei jihadisti radicali, la cui lotta contro il regime del Presidente Bashar al-Asad ha portato a un sostanziale bilanciamento di forze che occasionalmente si modifica in una direzione o nell’altra, ma non (ancora) in modo da permettere a una delle due parti di prendere definitivamente il sopravvento. In questo contesto d’equilibrio instabile, è interessante osservare il modo in cui gli studiosi jihadisti, le cui idee hanno ispirato molti dei jihadisti che stanno combattendo in Siria, hanno trattato nei propri scritti il tema delle insurrezioni. Questi ideologi formano una rete transnazionale di studiosi e pensatori islamici radicali uniti da una stessa mentalità, che sostengono al-Qa’ida e i suoi obiettivi, ma non si impegnano direttamente in attacchi. Come vedremo, la loro risposta alla Primavera araba li ha talvolta portati a rivedere le proprie idee, ma perlopiù li ha confermati in ciò che essi già credevano.
Al-Qa’ida blandisce la Rivoluzione
Nonostante il fatto che le insurrezioni in Tunisia e in Egitto siano state inizialmente guidate da non islamisti, e benché anche i Fratelli Musulmani egiziani siano stati in un certo senso colti di sorpresa, gli ideologi jihadisti non hanno tardato a riconoscere l’importanza degli eventi che andavano svolgendosi sotto i loro occhi e hanno incominciato a sostenerli retoricamente. Infatti, come hanno dimostrato alcuni studiosi, la centrale di al-Qa’ida – il nucleo dell’organizzazione normalmente associata al leader Ayman al-Zawâhirî – ha blandito i manifestanti e tentato di dipingere la Primavera araba come un fenomeno in linea con i suoi obiettivi[1]. In generale, uomini come al-Zawâhirî hanno raffigurato la Primavera araba come parte del movimento teso a rovesciare i regimi arabi per cui al-Qa’ida si batte da anni.
Tuttavia, nei fatti l’obiettivo di al-Qa’ida di fondare uno Stato islamico o un Califfato nel mondo musulmano è abbastanza contraddittorio rispetto alle richieste di libertà, giustizia e democrazia avanzate, almeno inizialmente, dai manifestanti di piazza Tahrir. Non sorprende in ogni caso che la prima risposta degli ideologi islamisti radicali ai sollevamenti si sia per lo più limitata a denigrare i regimi arabi e a invitare i manifestanti a continuare la protesta e la lotta. Tale retorica si concentrava in parte sulla presunta natura “non islamica” dei regimi arabi, in particolare quello siriano, il cui Presidente appartiene alla setta eterodossa sciita alawita che molti sunniti considerano non islamica. Anche se questo messaggio settario avrebbe avuto in seguito una grande importanza per i jihadisti radicali che convergevano in Siria per combattere il regime, non è chiaro con quanta forza esso sia riecheggiato tra i manifestanti in Tunisia, Egitto, Libia e Yemen.
Lo stesso può dirsi dei tentativi degli ideologi jihadisti radicali d’includere l’Occidente nella loro retorica anti-regime. Mentre i sollevamenti sembravano per lo più questioni interne incentrate sulla corruzione, sull’autoritarismo e sulla repressione, gli ideologi associati ad al-Qa’ida hanno palesemente tentato di raffigurare la situazione come dominata dall’Occidente. Il sostegno dato da quest’ultimo ai leader arabi veniva considerato la causa ultima della loro politica autoritaria e temi come la collaborazione israeliana con Mubarak per combattere il movimento palestinese di Hamas attraverso l’isolamento della striscia di Gaza, il sostegno francese al regime tunisino e le relazioni strette tra Italia e Libia sono stati usati per “provare” questo fatto. Fornire una “prova” della cospirazione occidentale contro l’Islam è diventato molto più semplice quando alcune potenze occidentali hanno deciso d’intraprendere un’azione militare contro il regime libico, ciò che ha consentito agli ideologi radicali di puntare il dito contro eserciti stranieri, e non musulmani, dediti a rubare il petrolio arabo.
Il tentativo di raffigurare la Primavera araba come una lotta non solo contro i dittatori mediorientali ma anche contro i loro “sostenitori” in Occidente puntava a dipingere le insurrezioni come mosse dagli stessi obiettivi generali per cui i jihadisti combattevano da tempo: sbarazzarsi dei regimi “non-islamici” e dell’influenza occidentale nella regione. Tale appropriazione della Primavera araba da parte degli ideologi jihadisti ha conosciuto un ulteriore salto di qualità con l’invito ad applicare la sharî‘a come ultima fase dell’insurrezione. Secondo gli studiosi islamici radicali, rovesciare i dittatori era una bellissima cosa, ma la gente doveva guardarsi dal permettere alla democrazia di attecchire. Infatti, solo l’applicazione della sharî‘a avrebbe veramente tradotto i sacrifici dei manifestanti in un sistema giusto, islamico e vantaggioso per tutti. In questo modo gli ideologi jihadisti hanno tentato di trasformare la Primavera araba in qualcosa di loro, spingendola in una direzione nuova e più islamista.
Rivoluzione, d’accordo, e poi?
Appoggiare le insurrezioni contro autocrati fortemente disprezzati e invitare i manifestanti ad applicare la sharî‘a non è un messaggio particolarmente controverso tra gli ideologi jihadisti. Ma il consenso su questo punto è rapidamente passato in secondo piano quando gli studiosi jihadisti hanno iniziato a esprimere le loro opinioni su ciò che sarebbe dovuto accadere dopo il rovesciamento dei regimi. Nei loro scritti si trovano fondamentalmente due risposte alla domanda “E dopo?”. La prima, sostenuta per lo più dall’intellettuale jihadista siro-britannico Abû Basîr al-Tartûsî era animata da uno spirito molto conciliante. Benché molto critico verso i regimi del mondo arabo, al-Tartûsî invitava i jihadisti a non perseguire tutti i burocrati che avevano lavorato per i governanti, ma a concentrarsi sulle figure al vertice e a perdonare gli altri, trattandoli come vittime della dittatura. Egli inoltre invitava i suoi seguaci a ricostruire i Paesi con atteggiamento pacifico e inclusivo, dal momento che si trattava di fasi di transizione in cui tentativi unilaterali d’instaurare direttamente uno Stato islamico difficilmente avrebbero avuto successo. La seconda risposta aveva un carattere decisamente più islamista e metteva l’accento sulla necessità di applicare la sharî‘a, invitando a volte esplicitamente a continuare la lotta. L’idea era che i nemici dei jihadisti fossero alle corde: perdere l’occasione d’instaurare uno Stato islamico sarebbe stata una vergogna. Questa posizione è stata espressa da studiosi come il bahreinita Abû Humâm Bakr Bin ‘Abd al-‘Aziz al-Atharî, l’egiziano Abû Sa‘d al-‘Amilî e il mauritano Abû al-Mundhir al-Shinqîtî.
Anche se questa seconda posizione sembra rappresentare il punto di vista ampiamente maggioritario tra gli ideologi jihadisti, l’invito a combattere e instaurare uno Stato islamico era ovviamente una cosa più facile a dirsi che a farsi, in parte perché Tunisia, Egitto e Libia hanno sperimentato un processo di democratizzazione, sfidando il discorso radicale dei jihadisti, ma anche perché non era sempre chiaro come, quando e dove combattere il jihad. Molti jihadisti alle prime armi, per esempio, si chiedevano se avrebbero potuto praticare il jihad nonostante avessero debiti cospicui, non avessero il permesso dei genitori e avessero motivi mondani per non farlo, come il fatto di essersi appena sposati. Grazie a internet, i potenziali combattenti potevano porre domande come queste al ben noto forum jihadista del consiglio della sharî‘a creato dal sito Minbar al-Tawhîd wa-l-Jihâd (www.tawhed.ws/FAQ), la più grande biblioteca on-line di letteratura jihadista, alle quali avrebbero risposto studiosi come quelli sopramenzionati[2]. In generale sono state accettate come scuse valide per non unirsi ai combattimenti in corso in Yemen, Libia, Siria solo alcune circostanze famigliari – per esempio una madre malata che nessun altro avrebbe potuto accudire – o l’impossibilità temporanea di prepararsi bene al jihad.
Molte di queste domande erano state poste in precedenza, ma sono tornate d’attualità dopo che la gente ha iniziato a rovesciare quei regimi repressivi che avevano sempre rappresentato un ostacolo al jihad, aprendo così nuove opportunità per gli islamisti radicali. Mentre prima della Primavera araba le occasioni di praticare il jihad all’interno del mondo arabo erano limitate per via delle gravi conseguenze che ciò avrebbe comportato per chiunque fosse stato scoperto, improvvisamente si sono aperte numerosissime opportunità. Ciò ha portato a chiedersi in quale Paese recarsi per combattere il jihad, quali obiettivi individuare e come procedere. In generale, le fatwe emesse sul forum invitavano i jihadisti a scegliere un fronte sul quale avrebbero più facilmente fatto la differenza, evitando di usare violenza contro i non combattenti, soprattutto al di fuori del campo nemico, e assicurandosi che il loro jihad fosse organizzato e ben coordinato.
Se le risposte possono sembrare inequivocabili, le differenze tra gli ideologi jihadisti circa il modo in cui operare dopo le Rivoluzioni si sono acuite man mano che la Primavera araba progrediva e venivano fondate milizie islamiche. Il relativamente conciliante al-Tartûsî era molto critico, per esempio verso gli Ansâr al-Sharî‘a yemeniti, un gruppo salafita-jihadista[3], mentre altri, come i già menzionati al-Atharî e al-Shinqîtî, lo criticavano a loro volta per questo. Le tensioni tra gli ideologi jihadisti sono state anche più forti nel caso di molte milizie in Siria[4]. Inizialmente al-Tartûsî si era schierato con l’Esercito Siriano Libero, più nazionalista, mentre altri preferivano gruppi saldamente salafiti-jihadisti. Quando l’Esercito Siriano Libero ha perso d’importanza all’interno del conflitto, al-Tartûsî si è schierato sempre più con gruppi islamisti relativamente moderati come Ahrâr al-Shâm o il Fronte Islamico. Intanto, altri studiosi jihadisti hanno iniziato a battibeccare su chi appoggiare tra il ramo siriano di al-Qa’ida (Jabhat al-Nusra), sostenuto da ideologi jihadisti giordani come Abû Qatâda al-Filastînî e Abû Muhammad al-Maqdisî e lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, sostenuto da al-‘Amilî, al-Atharî e al- Shinqîtî.
Un’alternativa democratica?
Prima che queste profonde divisioni si manifestassero, gli ideologi jihadisti avevano già vivacemente dibattuto intorno alla democrazia. Normalmente gli ideologi jihadisti respingono la democrazia per tre ragioni: essa ripone la sovranità nel popolo invece che in Dio; permette libertà e diritti che contrastano con la legge islamica; si fonda sulla regola della maggioranza invece che sul precetto di compiere il bene. In questo senso, l’idea, sostenuta da gruppi come i Fratelli Musulmani, che un concetto originariamente islamico come quello di shûrà (consultazione) sia la reale espressione di una forma di democrazia islamica[5], è rifiutata con forza dagli ideologi jihadisti. Naturalmente, il fatto che democrazie come gli Stati Uniti siano spesso percepite come “nemiche dell’Islam” dagli ideologi jihadisti non è d’aiuto alla reputazione della democrazia[6].
Nonostante il rifiuto della democrazia, la Primavera araba ha messo gli ideologi jihadisti di fronte a un dilemma: se in precedenza le elezioni e la partecipazione parlamentare potevano essere facilmente rifiutate dal momento che sotto le dittature non c’era alcuna possibilità di conquistare il potere, la situazione post-Primavera araba offriva l’opportunità di aumentare la propria influenza attraverso le urne. L’idea sembra essersi affacciata anche alla mente degli ideologi jihadisti. Nei loro scritti si riscontrano infatti alcune concessioni alla democrazia. Diversi studiosi hanno iniziato ad ammettere che l’idea di seguire la maggioranza non è necessariamente sbagliata, purché essa non contraddica la sharî‘a. Allo stesso modo è stata messa maggiormente in evidenza la necessità di considerare l’opinione del popolo e di vedere la shûrà non tanto come la versione islamica della democrazia, quanto come la sua alternativa islamica. Uno studioso – al-Tartûsî – si è spinto oltre, appoggiando un candidato salafita alla presidenza in Egitto (Hâzim Abû Ismâ‘îl), commentando criticamente la bozza di Costituzione libica – invece di rifiutarla immediatamente, come normalmente fanno gli ideologi jihadisti – e mostrando qualche apertura rispetto all’idea di partiti politici salafiti.
Benché possano sembrare minime, si tratta di concessioni significative alla luce della visione saldamente anti-democratica degli ideologi jihadisti. Esse mostrano che, quando le circostanze mutano, anche le idee possono adattarsi. Tuttavia, gli intellettuali jihadisti sono generalmente rimasti critici nei confronti dei Fratelli Musulmani e dei partiti politici salafiti, anche se questo atteggiamento va almeno in parte considerato nel contesto degli ultimi due anni: il colpo militare contro il governo guidato dai Fratelli Musulmani nel 2013 ha rafforzato l’idea che “loro” non accetteranno mai l’Islam politico e l’escalation violenta del conflitto siriano ha fatto sì che l’attenzione si concentrasse sulla lotta contro il regime di Asad, ciò che alla fine ha soffocato ogni dibattito sulla democrazia e sulla partecipazione.
La Primavera araba è stata una sfida per gli ideologi jihadisti. A tentare di rovesciare i regimi del mondo arabo sono state infatti persone che non condividono le loro idee e che hanno agito sulla base di ragioni e obbiettivi piuttosto diversi dai loro. Dopo aver inizialmente cercato di dipingere la Primavera araba come qualcosa a cui aspiravano da sempre, in seguito gli ideologi jihadisti si sono appropriati delle insurrezioni tentando di deviarle in una direzione più islamista. Ma quando è arrivato il momento dei progetti post-rivoluzionari, gli intellettuali jihadisti si sono rapidamente trovati in disaccordo sulla strada da intraprendere e sui gruppi da sostenere. La principale alternativa al radicalismo proposta dai non jihadisti, cioè la democrazia, è stata riconsiderata da alcuni studiosi alla luce delle nuove circostanze e si sono verificate piccole, ma significative concessioni. Data però la loro profonda ostilità verso la democrazia, e visto che nell’Egitto post-rivoluzionario una reale partecipazione elettorale è diventata sempre più improbabile e l’attenzione è sempre più concentrata sul conflitto siriano, gli ideologi jihadisti hanno finito per tornare al tema della necessità del jihad. Potrebbe naturalmente trattarsi di una fase transitoria, ma per il momento sembra che la risposta degli studiosi jihadisti alla Primavera araba sia stata più una conferma che una riconsiderazione delle proprie posizioni.
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[1] Si veda per esempio, Daveed Gartenstein-Ross & Tara Vassefi, Perceptions of the “Arab Spring” within the Salafi-Jihadi Movement, «Studies in Conflict & Terrorism» 35 (2012), 834-835.
[2] Su questo forum si veda Joas Wagemakers, Protecting Jihad: The Sharia Council of the Minbar al-Tawhid wa-l-Jihad, «Middle East Policy» 18 (2011), 148-162.
[3] Il salafismo è una branca dell’Islam sunnita i cui aderenti cercano di emulare il Profeta Muhammad e le prime tre generazioni di Musulmani (“gli antenati pii”, al-salaf al-sâlih) il più rigorosamente e in quante più sfere della vita sia possibile.
[4] Sui gruppi jihadisti in Siria si veda Jeffrey White, Andrew J. Tabler & Aaron Y. Zelin, Siria’s Military Opposition: How Effective, United or Extremist?, «Policy Focus» 128, Washington Institute for Near East Policy, Washington, D.C. 2013.
[5] Cfr. Uriya Shavit, Is Shura a Muslim Form of Democracy? Roots and Systematization of a Polemic, «Middle Eastern Studies» 46 (2010), 349-374.
[6] Si veda Joas Wagemakers “The Kafir Religion of the West”: Takfir of Democracy and Democrats by Radical Islamists, in Camilla Adang, Hasan Ansari, Maribel Fierro & Sabine Schmidtke (a cura di), Accusations of Unbelief in Islam: A Diachronic Perspective on Takfir, Brill, Leiden, in corso di pubblicazione.